Epitaph (Gidam)
di Jeong Beom-sik e Jeong Sik, 2007

L’horror coreano ha sempre dovuto convivere con la notorietà di quello nipponico: se si eslcude la fortuna (artistica e commerciale) di film come Two sisters, il film di paura di Seoul ha spesso vissuto della luce riflessa proveniente da Tokyo, oppure, nella maggior parte dei casi, non si è illuminato affatto, rimanendo all’ombra dei più noti esemplari giapponesi – con un nomignolo, k-horror, che non poteva essere più derivativo. Sono pochi insomma i film di questo popolarissimo genere prodotti in Corea negli ultimi anni a essere davvero memorabili: Epitaph è una gloriosa eccezione alla regola.

Costruito incrociando tre ghost-story abbastanza tradizionali, ambientate in un ospedale della Corea occupata nel 1942, nonostante abbia tre "capitoli" piuttosto distinti, il film riesce a non risultare "episodico" né frammentario. Grazie alla cerebralità della sceneggiatura, che incastra i personaggi comuni, le vicende e le location con grande perizia (e il rischio di una confusione, nell’eccesso, era altissimo), ma soprattutto per le tematiche comuni che rendono il film assai più coeso di quel che sembri a raccontarlo. La concezione dell’esperienza fantasmatica e ultracorporea come estensione del "caso clinico" di malattia mentale, per esempio, ma anche il più classico percorso narrativo di detection per il quale una situazione di stallo del soprannaturale viene superata scoprendo la "mancanza" che tiene i fantasmi "da questo lato", che sia il senso di smarrimento, la solitudine, il senso di colpa.

Le tre storie giocano anche con narratività, identità e personalità, e sono puzzle via via più complicati: eppure non stordiscono, anzi funzionano alla perfezione. Ma quello che entusiasma di più in Epitaph è l’incredibile talento compositivo e plastico dei fratelli Jeong: spavaldi e persino un po’ sbruffoni, aiutati dalla splendente fotografia di Yun Nam-joo (anch’egli all’opera prima), i due esordienti portano avanti un discorso estetico dai riferimenti eclettici ma precisi  – qualcuno segnala un forte debito nei confronti di Park Chan-wook, forse anche per i moltissimi valzer presenti nella strana colonna sonora dagli accenni hermanniani, ma si tiene conto anche della tradizione del j-horror appunto, pur senza dover ricorrere alle solite Sadako – e producono una delle opere coreane più belle a vedersi degli ultimi tempi (il lungo carrello in avanti che spalanca paraventi paradossali è roba da brividi sulla schiena) e soprattutto un film, viste le premesse, inaspettatamente compatto, cupissimo, malinconico, ed emozionante.

Poi, trattandosi pur sempre di un horror, anche se sui generis, non è affatto secondario che faccia paura. Una paura del diavolo.


Recensioni entusiaste su Variety e Beyond Hollywood, decisamente meno su Slant.

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