aprile 2008

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[goodbye]

E’ morto Charlton Heston.

[ben ben, you shot me down]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online.

E fate in fretta. Che ne avete, di roba da vedere.

[speme]


Due post in attesa – che forse potrei non scrivere affatto.

Finishing the Game: The Search for a New Bruce Lee, Justin Lin 2007

Finishing the Game: The Search for a New Bruce Lee
di Justin Lin, 2007

Curiosa carriera, quella di Justin Lin: se da una parte è il regista di Annapolis (enorme successo nel mercato dei DVD) e del terzo Fast & Furious, dall’altra sta portando avanti una piccola filmografia di film indipendenti che si rifanno più specificamente alle sue origini taiwanesi e al suo senso di appartenenza alla comunità asiatica della West Coast. Esperienza condivisa con un gruppo di affiatatissimi attori (Roger Fan, Sung Kang, Dustin Nguyen), gli stessi peraltro con i quali esordì qualche anno fa con Better luck tomorrow.

Finishing the game è un period mockumentary ambientato a metà degli anni ’70 (decennio ricreato con gusto e senso dell’humor attraverso vestiti, atteggiamenti, make-up, musiche) su una sciancata casa di produzione che, ritrovatasi tra le mani 12 minuti di girato di Game of death, l’ultimo film di Bruce Lee mai completato, cerca di monetizzare il più possibile e organizza un casting. Si presenta una marmaglia di americani asiatici, perlopiù improbabili, tra i quali un inesperto regista ventenne dovrà scegliere “il nuovo Bruce Lee”, con l’aiuto (e l’ostacolo) della casting director interpretata da Meredith Scott Lynn.

Difficile non voler bene a Finishing the game, per come mescola l’aria frizzante del film girato tra amici senza prendersi troppo sul serio con una sceneggiatura assolutamente calibratissima (che cerca pure di buttare qualche esca, con ironia e autoironia, sulla condizione delle comunità asiatiche negli States e sul loro ruolo nel mondo dell’entertainment) e una confezione appropriata – filologica, direi – che riaggiusta il budget ridotto. E si fa voler bene anche per alcune sequenze davvero memorabili: il primo cold reading (“You offend me, you offend my family!”), tutte le presentazioni iniziali, l’incredibile serie Golden Gate Guns con James Franco e Dustin Nguyen (“I ain’t gonna do your laudry!”), l’incredibile monologo del poliziotto su cui ancora un po’ e mi accasciavo a terra in lacrime.

Non è prevista ad oggi una data d’uscita italiana.

[REC]
di Jaume Balagueró e Paco Plaza, 2007

Se un annetto fa mi avessero detto che uno zombie movie diretto da Jaume Balagueró avrebbe attirato su di sé questa decisa massa di consenso, probabilmente ne avrei sghignazzato. Avrei potuto pensare semmai a un abbaglio dovuto ai tempi correnti – anche per via degli zombi, ma soprattutto per la scelta di girare il film interamente dal punto di vista di una ripresa semi-amatoriale (qui il reporter di una tv locale), con tutto quello che ne consegue (confusione degli statuti, real time illusiorio, eccetera).

E invece Rec ha anche tutta la nostra simpatia, ed è roba che ci piace: perché è un film fresco, velocissimo, divertente, per nulla stupido e davvero ma davvero pauroso. E poi, perché sceglie la strada migliore per riuscire a rimettere in carreggiata un progetto à la Blair with project. Ovvero, non cercando di amplificarlo o di superarlo o di rinnovarlo, ma asciugandolo al massimo, levandogli di dosso più orpelli teorici possibili, cercando più semplicemente di applicarlo in modo migliore. Soprattutto sotto il punto di vista dell’intrattenimento. E riuscendoci.

Per ottenere il massimo effetto, se sapete lo spagnolo ma anche se lo masticate un pochetto, riguardatelo in versione originale, senza sottotitoli, con buio pesto e cuffie insonorizzate al massimo volume. Poi non dite alle vostre coronarie che non vi avevo avvertito.

Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited)
di Wes Anderson, 2007

"I love the way this country smells. I’ll never forget it. It’s kind of spicy."

Si può dire quello che si vuole, a Wes Anderson: che è un venditore di fumo, che è glaciale, che a riscoprire sé stessi coi milioni in banca son buoni tutti, che è equo e solidale e/o terzomondista, che è manierista, o addirittura che è solo un gran paraculo: ma non c’è proprio nessuno, e già basterebbe, che giri come lui. Con questa precisione, con questa fissazione per l’uso della macchina da presa come elemento compositivo – allucinata, avvolgente, svonvolgente e morbosa – che si tratti una perfetta stasi o i suoi insistiti ma ancora irresistibili movimenti rallentati e analitici.

Ma  The Darjeeling Limited non si ferma alla tecnica né tantomeno all’ossessiva riproduzione di uno dei più esaltanti e maniacali storyboard degli ultimi tempi, che ne fanno – curiosamente, ma non a caso, vista l’ambientazione – un vero e proprio film su rotaia: Anderson recupera infatti del tutto con questo film la sua capacità di raccontare una storia, che in Steve Zissou si era un pochetto annacquata, e pur rimanendo un maestro dell’apparentemente inessenziale fa piazza pulita degli orpelli secondari – per esempio da quell’altra storia, un bivio narrativo eliminato fin da subito dallo script, con un colpo di scopa – lasciando in campo questi tre ricchi e infelici fratelli, ritrovatisi non senza un certo sforzo sul treno che porta al Darjeeling, pronti a riscoprire la necessità della riconciliazione.  E a riscoprirla – tema per nulla nuovo ma trattato con chiarezza – attraverso il valore, altrove negletto, del rito.

E The Darjeeling Limited è un film che ammalia profondamente, pur nella sua progettuale (andersoniana?) freddezza: grazie a un cast illuminante (persino Adrien Brody funziona, anche se Owen Wilson ruba perlopiù la scena) e a una sceneggiatura (scritta da Anderson con Roman Coppola e Jason Schwartzman) che non lesina finezze e perfezionismi ma che si mantiene sempre su un equilibrio preziosissimo tra l’esibizione di intelligenza e ironia raffinatissime (se uno le ha, perché celarle?) e un’invidiabile capacità di sintesi: come il flashback improvviso, racconto che si inserisce nel racconto (non l’ultimo dei giochi metanarrativi proposti dal trio) e che ne segna il punto di svolta: "How can a train be lost, it’s on rails!", dice Jack, e così, anche il film su rotaia si perde e infine si ritrova. E il risultato, quasi miracoloso, è che il film scalda, eccome – basti pensare alla scena sottolineata da Play with fire degli Stones: roba così e ti vien voglia di alzarti e applaudire in lacrime – e scalda di un calore interno, spontaneo e a tratti persino violento, quello delle cose fatte come si deve, dalla testa ai piedi. Forse era davvero sincero, questa volta?

Un discorso a parte andrebbe fatto su Hotel Chevalier, il cortometraggio con Jason Schwartzman e Natalie Portman che precede il film. Visione in qualche modo "separata", ma assolutamente propedeutica al film vero e proprio: un piccolo film a sé stante, sensuale, acuto, e tutto giallo. Di indeterminabile bellezza.

Nei cinema dal 2 Maggio 2008

Nota di costume: all’anteprima dove l’ho visto (la prima volta: è seguita poi una visione "casalinga", a breve distanza), Hotel Chevalier è stato proiettato per errore due volte, di seguito. Eppure nessuno nella sala ha fatto una piega. Ci sarà una ragione? E se davvero c’è, per caso rimane senza mutandine?