[take this sinking boat and point it home, we've still got time]
Non di solo Divo vive l’uomo: ecce nuovo episodio di Friday Prejudice.
Il divo, Paolo Sorrentino 2008
Il Divo
di Paolo Sorrentino, 2008
"Presidente, sta arrivando una brutta corrente"
In una delle prima sequenze de Il divo, tutti i più noti omicidi della storia repubblicana vengono riproposti con un montaggio serratissimo e da didascalie che si ribaltano, si specchiano, ruotano davanti e dietro ai personaggi: saranno così in tutto il film, rosse. In un’altra delle prime sequenze, la cosiddetta "corrente Andreottiana" arriva nel palazzo deserto il giorno della nascita del settimo governo Andreotti: si muovono al ralenti, e più che con parole si esprimono con suoni, versi, fischiettii. In un’altra delle prime sequenze, la festa per la nascita del settimo governo Andreotti è rappresentata con un piano lunghissimo e virtuosistico, quasi un piano-sequenza, che aleggia di stanza in stanza avvolgendo grottesche figure che si dimenano con una furia irreale e quasi indecente in un festino afro, mentre i coniugi Andreotti si alzano e vanno a dormire con la flemma che ben conosciamo. Che domani si va a Mosca.
Il divo, insomma, mette subito le cose in chiaro: Paolo Sorrentino sa che l’urgenza di un film, soprattutto se si tratta di un film come questo, deve sempre andare a braccetto con un’urgenza estetica, e con un’urgenza linguistica. Con un’idea di cinema. E il cinema del napoletano, non è cosa nuova, è così: egotista, "visibile", rabbioso, barocco, sfrontato, sfacciato, spudorato. Eppure mai come ne Il divo il suo sguardo è stato limato da sbavature: il film che narra, come recita il sottotitolo, "la spettacolare vita di Giulio Andreotti", non ha infatti solo una ricercatezza formale impressionante, che lascia senza parole (impossibile non citare la solita splendida fotografia di Luca Bigazzi, molto più che "il migliore su piazza"). Ma è un film che proprio non sbaglia un colpo. Il successo in un festival estero di un film del genere si spiega solo così: perché non è solo una rarità, un Autore capace di ridare un valore estremo ad ogni singola inquadratura, a tutti i movimenti di macchina, zoom improvvisi, carrelli, dolly, ma davvero, un regista così non ha prezzo – né tantomeno ci sono archi alpini in grado di contenere questa ribollente e strabordante ondata di stile.
Ha molte altre cose, poi, Il divo: ha prima di tutto un Toni Servillo gigantesco e gigante quanto lo schermo, che rimette in scena Giulio Andreotti e le sue parole con una maschera che è insieme letteraria e teatrale, intima e crudele – e che conosce nell’ormai nota scena della "confessione" la consistenza, quasi horror, della carne contorta e dello sputo di rabbia. Ha un esercito di caratteristi impensabile: lo Sbardella di Popolizio che fa il gesto della pistola e che saluta con la mano da basso mentre lo portano via, la malinconica Signora Enea di Piera Degli Esposti, che sfoga il pianto di mille segreti sul sedile di un autobus diretto verso un’amara cicoria, l’uber-mimetico Eugenio Scalfari di Giulio Bosetti (che fu già Paolo VI per Bellocchio, e se fossi Scalfari mi verrebbero i brividi) e soprattutto il pazzesco Paolo Cirino Pomicino di Carlo Buccirosso, ritratto come un eterno ragazzaccio cattivo che fa le scivolate urlando nei corridoi di montecitorio, che dice "Squalo? Squaletto! Affogherà", che urla e che si dimena. Assolutamente geniale. Strano – o forse no – che Sorrentino non ne suggerisca il curioso destino.
Ma al di là di tutto, Il divo è soprattutto e appunto un film di Paolo Sorrentino. Che è riuscito a realizzare un film impossibile – e che lo sia, risulta palese proprio durante la visione – infarcendolo della sua personalità eclettica e multiforme, che è riuscito a trovare un compromesso esaltante tra il gansterismo scorsesiano e il cinema di Elio Petri. Tra l’indeterminatezza surreale del sogno (o meglio dell’incubo) e la tangibilità delle parole, vere e immaginarie, che han fatto da fondamento e motore della vita di un intero paese. Insomma, se la gara per il miglior regista italiano è davvero aperta, Paolo Sorrentino è davvero il miglior metteur en scène che abbiamo. Anche perché in tutto questo non dimentica di confezionare un ritratto sfuggente e inquietante, sagace e ambiguo, di un glaciale statista la cui unica vera ossessione, e debolezza, ha la voce filtrata, perché chiusa in quattro strette mura, o forse da una coperta dentro un bagagliaio, di Aldo Moro.
Una delle prime cose a cui ho pensato fu una riflessione che feci, e molti fecero con me, all’uscita de Il Caimano di Nanni Moretti: che quel film nel film su Silvio Berlusconi girato da Bruno Bonomo, se esistesse davvero, forse sarebbe davvero un grande film. Il divo non riesce a non ricordarmelo, quel meta-Caimano, per molteplici e complesse ragioni – che hanno a che fare con il rapporto tra Storia e racconto, tra maschera e personaggio – e tant’è, che Il Divo è un grande, grandissimo film.
Il resto della notte, Francesco Munzi 2008
Il resto della notte
di Francesco Munzi, 2008
In un periodo così prodigioso per il cinema del nostro paese (gli ultimi film di Virzì, Zanasi, Garrone, e probabilmente Sorrentino) non starà certo a Francesco Munzi fare la parte del leone: presentato pochi giorni fa alla Quinzaine di Cannes, è – in linea con la sezione – un film molto più piccolo dei suoi chiacchieratissimi coevi. E forse molto più ancorato a quell’idea di piccolo cinema italiano indipendente che ancora non sa superare certi limiti autoindotti – gli stessi che poi si additano quando si cercano i responsabili del suo scarso appeal commerciale.
Più che altro, gli interrogativi che solleva un film come Il resto della notte, soprattutta vista l’onestà dell’opera e la persistenza di cui la stessa è capace nonostante barriere di ordine tecnico/economico, sono davvero molteplici, e riguardano in primo piano il cast: perché utilizzare un Aurélien Recoing doppiato malamente invece di un qualunque attore italiano? E perché utilizzare Sandra Ceccarelli in un ruolo talmente ceccarelliano da sembrare parodico eppure privo di una qualsiasi ironia? Dall’altra parte ci sono i rumeni Laura Vasiliu e Victor Cosma, che danno invece, entrambi, una prova d’attore davvero intensa.
Gli interrogativi si sposterebbero poi sulle scelte stilistiche e tecniche della secca regia di Munzi: lo farebbero in un mondo in cui sindacare su queste questioni abbia davvero un senso. Ma appare comunque evidente, come conseguenza, che il modo di girare di Munzi, asciugato degli orpelli, spesso basato su un linguaggio fatto di campi e controcampi, e con una patina fotografica volutamente impoverita e a volte persino – oserei dire – "sciatta", si adatti alla perfezione al mondo delle case popolari in cui si svolgono le vite di Marja, Victor e Jonuz, e trovi invece ostacoli invalicabili quando ci si mette a riprendere i luoghi e i riti dell’alta borghesia. Proprio come, da suggerimento di manu, se ci trovassimo a due film distinti – l’uno disperatamente coerente (e il discorso riguarda anche il "connettore" dei due mondi Stefano Cassetti), e l’altro che stenta a prendere il volo – o meglio, a sollevarsi in piedi.
Se, non senza ironia, non si può certo dire che Il resto della notte sia particolarmente spumeggiante, perché interessato più ai rapporti tra i personaggi che non alla gestione di un ritmo che infatti fatica a ingranare anche a un livello elementare, il film gioca comunque una carta davvero vincente nello sviluppo della conclusione del film (tanto da far ipotizzare, se in cattiva fede, una costruzione pretestuale dell’intero film intorno alla sequenza finale). Quando, insomma, le strade dei personaggi si incrociano definitivamente, nel segno della Tragedia. L’idea su sui è costruito il climax della lunga sequenza (che non anticipo) richiama alla mente quella di Nue propriété di Lafosse, su cui per un attimo sembra quasi ricalcata: ma la gestione narrativa (costruzione della suspence, e rilascio della tensione accumulata) e soprattutto figurativa (l’uso ossessivo del fuoricampo, seguito da campi che abbinano ai corpi morti uno stile che sembra quasi cauterizzato dal trauma) non hanno nulla da invidiare ai colleghi europei. Di fronte a una sequenza così, ci si rammarica di dover accusare le solite tendenze ombelicali, lo scarso interesse per la ricerca formale, cose che al solito limitano opere – come questa – dall’enorme potenziale.
Un paragrafo a parte lo merita il compaesano Stefano Cassetti: nonostante le urla, l’accento, l’idea ingenua di farlo guidare sempre come un pazzo, il volto destinato ormai irrimediabilmente a rappresentare sempre e comunque personaggi borderline, il suo Marco Rancalli è una performance memorabile, sgradevole nella migliore accezione del termine, e le sue fughe con il figlio, tentativi di riscatto che leggono nei propri occhi di ghiaccio l’impossibilità del riscatto stesso, sono le parti migliori, più autentiche e struggenti, del film.
Crows Zero, Takashi Miike 2007
Crows Zero (Kurôzu zero)
di Takashi Miike, 2007
Nell’enorme indistinta massa di film da lui diretti, ogni tanto Miike infila anche qualche bomba sfasciabotteghini: è il caso di questo film, che in patria ha fatto sfaceli: in senso relativo – ottavo tra i titoli locali, ventiduesimo tra tutti i film del 2007 – ma si parla di cifre davvero alte, soprattutto se rapportate alla sua filmografia. Si tratta in ogni caso del suo film di maggior successo commerciale ad oggi, e ha incassato – come riferisce Mark Schilling – quanto i suoi primi 50 film messi insieme.
Dopotutto, va a toccare nervi scoperti nell’ampio e alquanto bizzarro target adolescenziale nipponico a cui è rivolto: è tratto infatti da un popolare manga di Hiroshi Takahashi, e racconta di un liceo in cui la tipica competitività della scuola giapponese è portata al punto che le sezioni sono letteralmente in guerra tra di loro – mentre da noi nel frattempo ancora si macinano gli epigoni di 3MSC. Tra battaglie e pestaggi a ritmo di un rock che nessun sano di mente ascolterebbe davvero dalle nostre parti (a cominciare dagli Street Beats che appaiono sui bellissimi titoli di testa), e che fa il paio con il look postdark e postpunk dei suoi personaggi, Crows Zero è l’ennesimo esempio di come Miike riesca ad applicare alla perfezione la sua eclettica personalità a modelli di cinema più massificati.
Se ne sta quindi un po’ in disparte, infilando qualche perla miikiana qui e là (la sequenza grottesca del motorino, quella davvero surreale del bowling umano, qualche jump cut dei suoi, i molti improvvisi momenti intimisti, e via dicendo), lesinando violenze eccessive (nonostante le botte è tra i film meno "crudi" di Miike), dando al pubblico esattamente quello che si aspetta e concentrandosi il più possibile su un intrattenimento abbastanza "generico", ma assolutamente garantito. Tolto l’inizio davvero esplosivo (titoli, presentazione dei personaggi, prime risse), non ci si deve aspettare nulla di più che uno scheletro pretestuale e davvero esiguo – il rapporto tra i personaggi è basato più su impulsi nervosi che su moventi narrativo, figuriamoci quindi la psicologia e la sceneggiatura – sopra il quale l’azione convulsa, stilizzata e grafica, e spesso davvero spettacolare, si appoggia come una veste leggera.
Ma Miike, come sempre, c’è anche quando non sembra, tanto più su "materie" (il manga da una parte, i giovani violenti dall’altra) che conosce e sa gestire così bene: e infatti il film, relativamente alle leggi del mainstream a cui deve sottostare, è davvero una bella sorpresa – anche se a volte non ti ricordi che c’è Miike, dietro la macchina. Ma nell’interminabile duello finale tra i due fichissimi protagonisti Genji e Serizawa, sotto quel cielo piovoso, acceso, iperrealista, ah, lì te lo ricordi eccome.
Il film è disponibile da metà aprile in DVD. Essendo un’edizione giapponese, ha il vantaggio di condividere con noi la regione, ma lo svantaggio di costare uno sfracello. 25 euro per l’edizione standard, quasi 40 euro per l’edizione premium. E nessuna delle due ha i sottotitoli in inglese, per i quali bisogna aspettare un’eventuale release occidentale. Fate voi.
Come d’incanto, Kevin Lima 2007
Come d’incanto (Enchanted)
di Kevin Lima, 2007
Una volta, prima della rivoluzione digitale da una parte e dell’annichilimento anagrafico del loro target più imponente, schiacciato tra la prima infanzia e un’adolescenza sempre più prematura, c’erano i film della Disney. Sarà ancora possibile un film della Disney nel 2007? E si intende un film che ne abbia tutti i crismi, compresa l’assenza di un’autocritica nell’accettazione dei crismi stessi.
Il film dell’esperto Kevin Lima (viene da Tarzan e da La carica dei 102, e infatti gira anche le parti live action come fossero cartoon) sembra partire da queste considerazioni. O meglio, da questi dubbi. In tal senso, ha significato vedere il film da due prospettive. La prima è quella della realizzazione di un film che conservi la naïveté del film disneyano senza risultare stucchevole o infantile ma nemmeno troppo "sgamato", la seconda è quella di un film che sappia riflettere autoriflessivamente sui suoi stessi canoni, ai tempi di film come Ratatouille e la saga di Shrek.
E su entrambi i fronti è difficile tacciare il film di un fallimento: per quanto non sia, Enchanted è un film di sicuro intrattenimento, Amy Adams è una delizia, James Marsden fa ridere, e il tutto (con qualche scaltrezza come la narratrice Julie Andrews o il continuo giochetto citazionista – ma a altezza bimbo – sui settant’anni secchi di animazione disneyana) è anche ben girato e sufficientemente intelligente. Non abbastanza da riattivare più neuroni del necessario: ma la sua intelligenza sta anche nell’evitare di riattivarli.
Una scemata di poco conto, d’accordo: ma baratterei tutti i film d’animazione in 3D ambientati in modo sagace nel mondo delle fiabe con Enchanted ogni maledetto giorno della settimana.
[Grand Prix, eh]
(se non si fosse capito, Gomorra vince il Grand Prix a Cannes)
(e pure un Prix du Jury al Divo di Sorrentino, che male non fa)
Gomorra
di Matteo Garrone, 2008
Volti, passi, parole, centotrenta minuti appiccicati a loro, ai personaggi delle "storie" di Gomorra, dirette da uno sguardo tra i più maturi e sconcertanti del cinema europeo, che fa la scelta ammirevole e scioccante di rifuggire sia le sirene del genere che quelle, ancora più rumorose, del cosiddetto cinema sociale, forgiando un affresco di morte dominato dall’ineluttabile, ma non quello più consolante e tutto sommato consolatorio del destino e del fato, ma l’ineluttabile umano della causa e dell’effetto, quello insomma per cui una pistola raccolta in scena dovrà prima o poi sparare, facendone un eccezionale romanzo sulla perdita dell’innocenza di un’intera città, di un intero mondo, sul veleno e sui morti che concimano la terra su cui siamo cresciuti, ma soprattutto un vero gioiello di narrazione ondivaga, paziente nel ricostruire le sue cause alle sue conseguenze ma morbosamente teso fin dal suo mettere subito le cose in chiaro, ambientato in una realtà che è tanto dura e vera da risultare aliena e romanzesca, Gomorra è così, un ineluttabile romanzo di morte ambientato su un altro pianeta, il nostro, da cui non c’è fuga, chinati tra gli spari a vuoto e le canzoni d’amore, né riscatto tra i cuori che esplodono, quelli che implodono, e quelli che si spengono lentamente, né altro che una vaga speranza – che abbia però l’amaro retrogusto dell’immolazione, del sacrificio di sé, dove si è eroi già morti di un’epica della sconfitta urlata tra le chimere esplosive o di un levissimo prestigio conquistato con la paura e poi sussurrato in un’alba dolce e impalpabile, e infine sempre e comunque schiacciati, schiacciati dai grigi cupi degli ampi panorami, in un film preziosissimo ma non solo, unico ma non solo, davvero, un film italiano come non se ne vedevano da anni.
Non avevo nessuna voglia di scrivere di questo film – che va visto, vissuto, consumato avidamente. Questi sono solo i miei accennati venti centesimi, pallido specchio di un turbinio continuo di cose che non trovano la loro via d’uscita. Se volete invece leggere qualcuno che ha saputo scriverne davvero, ci sono UnoDiPassaggio e Chamberlain.
Semi-Pro, Kent Alterman 2008
Semi-Pro
di Kent Alterman, 2008
"In the annals of history people are going to be talking about three things: the discovery of fire, invention of the submarine, and the Flint, Michigan Mega Bowl. "
Già ce ne fu il sentore nel piacevole Blades of glory, ma in Semi-Pro suona più come una conferma: il vero e proprio "canone" del film costruito intorno a Will Ferrell, cristallizzato nella forma e ormai quasi immutabile negli sviluppi, sia linguistici che narrativi, sta perdendo colpi. O almeno, ha il fiatone. Uno si può anche accontentare – se è in serata, se è di bocca buona. Ma Talladega nights era davvero su un altro pianeta – e la cosa si fa ancora più grave se si pensa a un ipotetico confronto con il coevo e bellissimo – e ferrelliano – Walk hard. E anche la critica in patria, stavolta, ha voltato le spalle.
Le ragioni del declino sono molteplici, e non imputabili unicamente a Ferrell e alla sua indefessa reiterazione del modello Ron Burgundy – perché in fondo è lui la cosa che funziona meglio, e pur mettendosi più in disparte del solito sa infilare qua e là ancora perle d’assurdo come "If you see an opposum, kill it, it’s not a pet". Prima di tutto, l’assenza di una spalla degna di questo nome: André Benjamin degli Outkast fa del suo meglio, ma Woody Harrelson è davvero fuori posto, e sono lontani per lui i tempi di Kingpin. Ma non solo: non aiuta la regia spaesata di Kent Alterman, executive prestato alla regia che non sa star dietro alla furia di Ferrell, e lo sceneggiatore Scot Armstrong (con un curriculum poco glorioso alle spalle) si limita ad addizionare gli elementi preesistenti, giocando molto su riferimenti alla cultura della pallacanestro americana (non certo diffusissimi nel nostro paese) e perdendosi persino l’occasione di giocare con gli anacronismi del period movie che arricchivano un film come Anchorman.
Come al solito, Semi-Pro gareggia per le gag più tirate per le lunghe di sempre: quella della pistola scarica, per esempio, o quella dell’orso – lo stesso orso che un mesetto fa ha ammazzato un addestratore a morsi, e che sta aspettando ancora il verdetto che pende sulla sua testa. E come al solito, sono queste irrispettose lungaggini a strappare le risate migliori. In ogni caso, davvero pochine.
Non c’è ancora una data d’uscita italiana, ma seguendo l’onda di Blades of glory (uscito a fine Luglio 2007), il film potrebbe finire nell’infame calderone dei ripescaggi estivi. Ma è solo un’ipotesi.
Trivial Matters, Pang Ho-Cheung 2007
Trivial matters (Por see yee)
di Pang Ho-Cheung, 2007
Il settimo film di uno dei migliori "giovani" registi hongkonghesi apparsi negli ultimi anni, nonché presenza fissa (anche quest’anno) al friulano Far East Film, è un film a episodi: è tratto infatti da una raccolta di racconti, molto celebre in patria, scritta dallo stesso Pang. Le brevi storie hanno un qualche tipo di (sottilissimo) filo conduttore, che va al di là della narrazione, e che ha una costante nella presenza della tematica sessuale (in modo molto più "spinto" di quanto non ci abbia abituato Hong Kong) – ma per semplicità è il caso di trattarlo pezzo per pezzo, anche se a rischio di banalizzarlo.
In Vis maior uno psicologo confessa i suoi problemi sessuali alla videocamera uno studente, ma il punto di vista della moglie sembra più realistico: basato su una premessa piuttosto banale, il corto lascia il tempo che trova ma regala diverse risate – di cui almeno una fragorosa – ed è recitato con una dose irresistibile di ironia. Segue un segmento davvero brevissimo in cui un giovane abborda una ragazza sostenendo che il massimo della civicità sia pisciare sulle macchie di sterco nei bagni pubblici. In It’s a festival today, segmento stralunato e riuscitissimo, forse il più semplicemente spassoso del film, un ragazzo inventa un modo creativo per ricevere quotidianamente una fellatio dalla sua castissima fidanzata – con conseguenze inaspettate.
Tak Nga è un documentario realizzato da abitanti di un pianeta colonizzato tra centinaia di anni, che tenta di spiegare l’origine del nome del pianeta stesso. Un divertissement, anche abbastanza ambizioso, ma in definitiva noiosetto: il segmento più debole del gruppo. In Recharge, un produttore va con una prostituta, e condivide con lei un momento di tenerezza ricaricandole una scheda telefonica: per quel misto di inconsistenza e la poesia che sbuca improvvisa – appunto – dal "triviale", forse il corto più "panghiano" del film – comunque, davvero bello. Ma è il malinconico e stupendo Ah Wai The Big Head la vera perla del film: ambientato dagli anni ’90 ai giorni nostri, una storia di amicizie, ipocrisie, affetti, bugie e destini incrociati che risulta persino toccante – e tra le cose migliori girate da Pang, in assoluto. Infine c’è Junior, che inizia con un ammiccamento cinefilo (un dialogo grottesco e assurdo tra il regista Feng Xiaogang e il compositore Peter Kam) e che termina con una storiella leggera leggera – con tanto sberleffo finale.
In definitiva, un godibile affresco di "questioni di poco conto" che si trasformano in incontrollati giochi del fato, giocoso e un po’ paraculo, ma che conquista senza fare troppi sforzi, grazie a un cast ricco e divertito, una regia dalla mano leggerissima, e la solita ineccepibile fotografia di Charlie Lam. Un film che, se nulla aggiunge alla carriera di un regista ormai maturo e sempre più bravo (basta pensare a film come Isabella e Exodus) allo stesso modo nulla vi toglie.
Chocolate, Prachya Pinkaew 2008
Chocolate
di Prachya Pinkaew, 2008
Dopo essere diventato un guru del cinema di arti marziali grazie ai due film di enorme successo interpretati dall’incredibile Tony Jaa (Ong-Bak e The protector, usciti anche da noi) l’ex architetto, scenografo e produttore thailandese Prachya Pinkaew con il suo terzo film non cambia di certo rotta: anche Chocolate è un film di arti marziali lievissimo e spettacolare, un’altra storia di vendetta e riscatto contro i soprusi di criminali senza scrupoli.
Quello che cambia, prima di tutto, è l’assenza di Tony Jaa, pronto a debuttare a breve come regista con il sequel di Ong-Bak (ne vedremo delle belle). Ma la protagonista di Chocolate, l’irresistibile Yanin "Jeeja" Vismistananda, classe 1984, non è molto da meno: mingherlina campionessa di taekwondo, convince completamente, con una prova atletica ambiziosa e faticosissima (si vedano i soliti impressionanti titoli di coda), ma assolutamente esaltante. Se l’ingenuità coraggiosa e spavalda di Jaa si trasforma in una forma di autismo, narrativamente più scontata e insieme più rischiosa, la tenerezza ispirata dal suo faccino lascia presto il posto al tifo più sfrenato. E nella sequenza in cui Jejaa – che ha imparato le arti marziali proprio guardando Ong-bak - incontra l’altro ragazzo disturbato, che combatte con uno stile a lei (e a noi) sconosciuto, Pinkaew riesce persino a "superare", con autoironia (e autocritica?) il dilagante "modello Jaa".
C’è un’interesse maggiore di Pinkaew per la storia e per lo sviluppo dei suoi personaggi: è evidente già dal fatto che le sequenze d’azione vengano rimandate così tanto, in favore di una lunga prima parte introduttiva e anche, in un certo senso, che lo script sia stato stato affidato a terzi, con una quantità di pieghe melodrammatiche che cercano di andare oltre agli elefanti morti di The protector. Ma tutto viene in secondo piano di fronte a sequenze d’azione che – come al solito – lasciano senza fiato: l’alchimia delle due parti arriva a tanto così da fare di Chocolate il miglior film thailandese di genere mai visto finora. E se The protector aveva "quel famoso piano sequenza delle scale", Chocolate ha un combattimento finale davvero senza precedenti, che merita già un posto nelle antologie del genere: una vera e propria "verticalizzazione" dello scontro, che butta alle ortiche per 10 minuti il modello del picchiaduro contemporaneo mettendo in scena una sorta di live action platform che si rifà all’antico modello di Donkey Kong – oppure, se preferite, a Snakes and ladders.
Non si pretenda quindi un capolavoro di scrittura, e nemmeno – per dire – una profondità che vada al di là di ciò che qualcuno potrebbe definire pretesto: il cinema di Pinkaew è effettivamente un cinema di corpi danzanti che riempiono lo schermo con i loro balletti di calci e di lividi. Ed è così, che il suo cinema ci piace da matti.
Visto il successo e la notorietà dei film precedenti del regista, non escluderei un’uscita italiana. Nel frattempo, l’edizione thailandese del DVD (è in circolazione da un mesetto, e si può comprare qui. Non avendo mai avuto tra le mani un DVD thailandese non garantisco nulla: ma costa davvero pochi euro, e si legge in tutte le regioni.
The Cottage, Paul Andrew Williams 2008
The cottage
di Paul Andrew Williams, 2008
Dopo essersi fatto notare con il thriller indipendente London to Brighton, esordio apprezzato in diversi festival internationali (New Director’s Award a Edimburgo) e in lista d’attesa da queste parti, Williams prova con il suo secondo film a confrontarsi con un sottogenere che negli ultimi anni va per la maggiore – quello dell’horror che si mescola con la commedia, ma senza rinunciare ad alcuna delle sue due metà, riportato in auge in Regno Unito da Shaun of the dead e – assai similmente – da Severance.
Anche qui ritroviamo una situazione tipica del cinema horror – in questo caso, trattasi di una fattoria isolata: non diciamo altro – che viene stemperata da situazioni da commedia, ma senza trasformarsi (ma nemmeno da lontano) in una parodia. Non solo con la struttura del rapimento malriuscito, con la popputa biondina che si rivela essere ben più minacciosa dei rapitori stessi, ma soprattutto attraverso dialoghi pungenti e riuscitissimi, dominati dal ruolo del salaryman, tipicamente british, dell’ex Gentleman Reece Shearsmith (Papa Lazarou, anyone?) e dal collaudatissimo stile deadpan di Andy "Gollum" Serkis, a cui si aggiungono i personaggi dei due gangster coreani – per la verità un po’ forzati e wannabe cult nel loro profilo grottesco.
C’è un po’ di dissociazione, è vero, tra gli elementi horror (rimandati molto più della media: gli squartamenti arrivano dopo metà film) e quelli da commedia, e l’alchimia non si può dire riuscita al 100%. Ma The Cottage è un film davvero divertente, magari poco "pauroso" in senso stretto ma che (almeno nella versione unrated del DVD) si diverte a giocare spingendo parecchio sul pedale del gore – con colonne vertebrali strappate dai capellim, teste mozzate longitudinalmente, cose così. E poi, stare a cercare la perfezione di un Edgar Wright dietro ogni angolo, ogni volta, è un esercizio sterile, oltre che frustrante: accontentiamoci di un film che è comunque superiore alla media degli slasher odierni, e che – anche per una confezione davvero luccicante – suscita una simpatia inarrestabile, fin da subito (o da prima?) e fino all’ovvio scherzetto finale.
O forse è davvero un abbaglio, e la colpa è di Jennifer Ellison. Ex attrice di Brookside, ex soubrette, ex footballer’s wife di Steven Gerrard, ex pop idol, con le sue treccine e le decine di volgarissimi improperi urlati con l’accento di Liverpool, la Ellison è tanto bòna quanto insopportabile: ma nella migliore delle accezioni. Impossibile non amarla alla follia, e insieme esultare come dei bambini per la fine (davvero ingloriosa) che le fan fare.
Difficile che lo si veda nelle nostre sale, a scanso di sorprese: se nel Regno Unito è uscito a Marzo e in Francia esce quest’estate, negli USA è uscito direttamente in DVD, unrated e già acquistabile.
Be Kind Rewind, Michel Gondry 2008
Be Kind Rewind
di Michel Gondry, 2008
Il film si chiamava Murder: c’era un tizio che suonava The show must go on al pianoforte in accappatoio, arrivava un tizio e lo pugnalava alle spalle, poi non mi ricordo bene cosa succedeva, ma entravano in scena un maggiordomo e un investigatore che nonostante l’accento bresciano diceva di essere il nipote di Sherlock Holmes, e che andava in giro con una pipa e un cane (Fido, pron. fàido) al guinzaglio: in realtà il guinzaglio era un bastone appendiabiti, e il cane era una ciabatta. Tra una scena e l’altra era rimasto in mezzo un secondo, forse due, in cui si intuiva un litigio nella crew per l’attribuzione dei ruoli. Alla fine l’assassino era il maggiordomo, e finiva tutto in un ingiustificato bagno di sangue. Era un pomeriggio del 1994, avevo 13 anni – forse nemmeno compiuti – ero in seconda media, e Murder, girato nel mio soggiorno, era la mia prima regia.
Per questo, e per una successiva – e imbarazzante – sequela di motivi, la buffa poetica di cui è rivestita spesso l’amatorialità più ingenua trova in me una porta aperta, spalancata. Chi non riesca a condividere questa suggestione di base, troverà probabilmente Be Kind Rewind una sciocchezza che sancisce il definitivo (o il primo) caso di appiattimento del cinema gondriano, qui peraltro sottomesso al volere overstated – a tratti insostenibile – di Jack Black. Nel mio caso, probabilmente perché rivesto inconsciamente il VHS di questa scema patina magica, insieme ambigua e inquietante, o molto più probabilmente perché non avevo più alcuna aspettiva, mi sono divertito e l’ho trovato una cosetta innocua ma deliziosa.
Pieno com’è di cose à la Gondry, farà felice metà dei suoi fan e imbestialire l’altra. Come il fatto che tutto il film sembra un pretesto per quell’incredibile piano sequenza in cui i personaggi corrono – letteralmente – di film in film ribaltando in modo curioso e genialoide le prospettive spaziali dell’inquadratura. Tutto il resto è invece più piatto, e in qualche modo – a parte qualche idea sostanzialmente schizzata, come quella della pellicola di Be Kind Rewind stesso che si "magnetizza" – accomodato, così come lo è l’automatizzata struttura narrativa. In un certo modo, insomma, Gondry accetta tutte le regole del gioco, decide di intervenire senza ribaltarle troppo. Essendo sé stesso in un contesto invariato. Una cosa che fa – appunto – arrabbiare molti, fan o meno, e che mi ricorda un caso non dissimile di qualche anno fa: Tim Burton e Planet of the apes.
Ma se vi farete il favore di andare al cinema a cuor leggero, troverete una commedia gradevole e divertente, un testamento analogico che è a suo modo disperatamente cinefilo: ma è un modo opposto a quello che il cinema postmoderno ci ha abituato negli ultimi anni. Ovvero, non è innamorato di ciò di cui son fatti i sogni, ma del materiale – fisico, tangibile, "magnetico", in tutti i sensi – con cui sono costruiti, e sopra cui sono scritti.
Nei cinema dal 23 Maggio 2008
Dopo alcuni aggiustamenti, pare sia sventato il pericolo di avere come titolo l’orribile Rewind – Gli Acchiappafilm: il titolo italiano pare essere proprio Be Kind Rewind, con Gli Acchiappafilm come sottotitolo. Ma sono sottigliezze, no?
La versione italiana è decorosa, o almeno non troppo fastidiosa. L’adattamento dei dialoghi e il doppiaggio, invece, come al solito, prendono parecchie – inevitabili? – cantonate.
Bottle Rocket, Wes Anderson 1996
Bottle Rocket
di Wes Anderson, 1996
Ignoto ai più dalle nostre parti, Bottle rocket è il film che ha lanciato la carriera di Wes Anderson da una parte – e dei fratelli Luke e Owen Wilson dall’altra – qualche anno prima che i riflettori internazionali puntassero tutte le loro luci su Rushmore e sui Tenenbaum. E se anche risulta più involuto e imperfetto di quei titoli, è ancora irresistibilmente divertente, e possiede una freschezza che ne fa una piccola perla all’interno del vasto panorama del cinema indipendente americano degli anni ’90.
Merito del cast, ma anche del talento innato di Anderson, ai tempi ventisettenne. E sarebbe inutile aggiungere che il piccolo film d’esordio del regista texano contiene in nuce molti degli elementi che renderanno così riconoscibile (e amato) il suo cinema successivo. Sia da un punto di vista grafico e compositivo (i carrelli improvvisi, i movimenti di macchina, i ralenti, il gusto proveniente dai fumetti per la composizione dei corpi nell’inquadratura), sia per una narrazione ondivaga e stralunata che fa eco (anche esplicitamente) al cinema di Jarmusch e al primo Godard, sia per elementi che torneranno in tutti i suoi film come veri e propri marchi di fabbrica. Kumar Pallana compreso.
Solita colonna sonora da capogiro dell’habitué Mark Mothersbaugh, accompagnata da alcune perle: un paio di pezzi di René Touzet e persino Zorro is back degli Oliver Onions.
Esiste un’edizione italiana che circola in televisione con il titolo assai poco stimolante Un colpo da dilettanti: purtroppo però non è mai (o ancora) stata pubblicata in DVD.
L’edizione inglese invece si trova a poche sterline: per esempio, su Amazon. Pare però che il master sia insoddisfacente: e infatti presto o tardi vedrà la luce una edizione Criterion.
Il cortometraggio originale dello stesso Anderson, da cui il film è tratto, si trova tutto intero ma a bassa qualità su Youtube.
Diary of the dead
di George A. Romero, 2007
E cinque. A quarant’anni dal primo, epocale, La notte dei morti viventi, George Romero aggiunge un altro capitolo a quella che è divenuta quindi "la pentalogia degli zombi". "Saltati" gli anni ’90, sostituiti in qualche modo dal poderoso e retroattivo Land, Romero cerca di produrre lo zombie flick definitivo per gli anni zero. E se il suo cinema è sempre stato profondamente (e politicamente) radicato nel presente, Diary non fa eccezione: si tratta infatti di un film sul declino – per ridondanza e conseguente autoconsunzione – dell’informazione mainstream, che aggiorna la riflessione sui media già presente, in nuce, in Dawn.
Ma laddove tutti i film precedenti della "saga" sintetizzavano la riflessione politica – crudelmente satirica – con una capacità di ottenere il massimo dall’effetto orrorifico (rendendo Dawn, per esempio, ancora difficilmente digeribile a distanza di trent’anni, ed è ancora la vetta del cinema horror di tutti i tempi), costruendo intorno ai personaggi esponenziali apocalissi di angoscia, in Diary si fa una fatica tremenda, a volte preccupante, a separare le due cose. Si intenda subito: il problema non è che di film con premesse simili a Diary (che lo apparenta, suo malgrado, con Cloverfield e soprattutto con il romerianissimo [Rec]) ne esce ormai uno a settimana, anche perché le intenzioni di Romero sono molto più chiare e delimitate – come il suo budget – e la maestria del regista non è certo svanita nel nulla da un giorno all’altro.
Il problema semmai è appunto lo scollamento impressionante tra questa rilettura d’autore del teen horror, che grazie a decisi e rigorosi aggiustamenti è qui assolutamente funzionale, e quest’applicazione di tesi forti romeriane al genere stesso – e a quel sottogenere coltivato negli ultimi anni dalle radici (più forti di quanto potessimo immaginare) di The Blair with project. E questo scollamento si palesa nel più banale dei modi: non solo con la "scopertura" dei procedimenti metanarrativi (la trovata scricchiolante della "mummia", per dirne una), ma soprattutto attraverso un’alternanza zoppicante tra il riuscito racconto di una fuga per la sopravvivenza, più consapevole che in passato ma altrettanto disperata, e la sentita necessità di "mettere le cose in chiaro", con molti, troppi segmenti in cui la voce fuori campo di Michelle Morgan ("chiamata" a finire il lavoro iniziato dal suo testardo ma lungimirante fidanzato) spiega per filo e per segno ciò di cui il film – anzi, i film: Death of death e Diary of the dead – tratta.
La soluzione non è solo fastidiosetta e declinata con scelte estetiche discutibilissime, ma ha la conseguenza – con l’inclusione di segmenti televisivi, come visto in infiniti altri horror negli ultimi anni – di riportarci ogni volta all’istanza della comunicazione, rispettando sì alla lettera il credo postmoderno (con una mistura di statuti di realtà che non crea vera confusione, ma che rimane, comunque e sempre, nel territorio della fiction), ma al tempo stesso azzerando la tensione creatasi. Ogni volta si ricomincia da capo, insomma: e in questo modo, spaventare lo spettatore diventa una vera sfida – a volte una sfida vinta: ma davvero, fin da principio, una sfida non necessaria.
In ogni caso, va da sé, come si dice sempre in questi casi, siamo diversi gradini sopra la maggior parte del "cinema horror da scaffale basso" con cui i piccoli studi si tengono in piedi, spesso con budget simili a quello di questo minuscolo, indipendentissimo – e liberissimo – film. Ma in un periodo in cui l’horror stesso se la passa davvero benino, spesso costruendo cose che fanno tesoro proprio dell’impareggiabile esempio romeriano, Diary è un’inattesa e parziale delusione. Perdonabilissima, ma anche tranquillamente accantonabile.
Applausi a scena aperta per l’incipit e per tutta l’inspiegabile sequenza – quasi cartoonesca – del pastore amish sordo.
Da leggere, i pezzi di Manohla Dargis sul NYT e di Nathan Rabin su A.V.Club.
Ah, da noi non esce: mettetevi il cuore in pace. Il DVD inglese invece esce il 30 Giugno.