giugno 2008

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[malòna]

E tutto d’un tratto, il nuovo episodio di Friday Prejudice apparve.

[hype?]

Joss Whedon’s Dr. Horrible’s Sing-A-Long Blog.

Wanted, Timur Bekmambetov 2008

Wanted
di Timur Bekmambetov, 2008

Immagino che in molti si saranno posti la domanda, e ancora se la stiano ponendo:  che ne sarà negli states dello stile furioso di Timur Bekmambetov, il regista di Night watch e Day Watch (e l’anno prossimo di Twilight watch) che negli ultimi anni ha rivoltato come un calzino la percezione del cinema sovietico aprendo una – potenziale – stagione di rinascita del cinema russo di genere e guadagnando peraltro una montagna di soldi? Gli succederà come a molti colleghi dell’area asiatica?

E immagino che molti abbiano storto il naso di fronte ai moltissimi trailer – rivelatori di solo metà della carnazza, vivaddio – e lo immagino perché l’ho storto anch’io: in tempi in cui l’action movie sta conoscendo una strana piega tamarra (Crank e Shoot em up ne potrebbero essere un esempio), questo esordio americano sembrava voler persino alzare il tiro – a partire da una tatuatissima dark lady con la bocca di Angelina Jolie. Eppure, di fronte al fatto compiuto, non si può dire che "Bek" non abbia fatto un lavoro con i fiocchi. Gli hanno dato da adattare un fumetto, e anche piuttosto tamarro – e quello ha fatto. La differenza con un action qualunque però, seppure non innalzi Wanted ai livelli delle opere migliori della categoria (troppo giocoso e insieme, stranamente, assai poco ironico), è la voglia palese del regista russo di fare quel diavolo che gli pare, pur all’interno di regole abbastanza definite e precise logiche commerciali*, ma non limitandosi mai, nemmeno nelle sequenze "di raccordo", ad appoggiare la macchina da presa e vedere cosa succede, sbadigliando. Anzi.

Così, seppure i cliché si sprechino, soprattutto in fase di scrittura e di costruzione dei personaggi e dei loro rapporti (anche se il terzetto del cast attutisce bene la caduta) e seppure la svolta narrativa, presentata come choccante e sorprendente, sia di un’ovvietà devastante fin dall’inizio, lo stile accumulativo e sfrenato e la personalità ancora fortissima di Bekmambetov permettono di digerire cose che altrove si sarebbero trovate stucchevoli. E non parlo solo dei proiettili con traiettoria curva e via dicendo (nota: per quanto mi concerne, è valido tutto ciò che fa parte di una coerente mitologia interna al testo, e la cosiddetta "illusione di credibilità" spesso non è che un paravento per spettatori sciocchi e privi di fantasia), ma anche il fatto che riesca a funzionare persino il più classico e risaputo dei montage, quello tanto vituperato da Parker & Stone in Team America.

Insomma, Wanted non apre nuovi orizzonti, non racconta nulla di nuovo, e non farà innamorare nessuno. Ma diavolo, non ci si annoia un attimo, si balla sulla poltrona, ti tocca fare il tifo per un personaggio che avresti preso sinceramente a calci in bocca dall’inizio alla fine, muore una valanga (davvero) di gente, e almeno in una sequenza – quella catastrofica del treno e del burrone – si rimane davvero stecchiti. Bella lì.

Al cinema dal 2 Luglio 2008

*si parla però di un contesto action più "adulto" della media: il film è infatti classificato "R" negli USA e "18" nel Regno Unito, per via dell’impressionante body count di cui sopra, ma anche di una quantità di "fuck" davvero notevole – cose che dalle nostre parti, immagino, non faranno alcuna differenza.


[goodbye]

"So I say live and let live. That’s my motto. Live and let live. Anyone who can’t go along with that, take him outside and shoot the motherfucker. It’s a simple philosophy but it’s always worked in our family."

George Carlin è morto ieri, all’età di 71 anni.
Era, senza troppi giri di parole, il più grande stand-up comedian vivente.

Su Youtube sono presenti tutti gli "special" da lui realizzati per la HBO.
Eccone alcuni – per ricordarlo, oppure per scoprirlo daccapo.

Dedicategli un pomeriggio.

George Carlin Live on Location at the USC (1977)
George Carlin at Carnegie Hall (1982)
"What The Fuck Am I Doing In New Jersey?" (1988)
Jammin’ In New York! (1992)
It’s Bad for Ya! (2008)

[la chiamavano istigazione, vol.2]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Peace and love, bro.

L’incredibile Hulk, Louis Leterrier 2008

L’incredibile Hulk (The incredible Hulk)
di Louis Leterrier, 2008

Per essere un film su cui abbiamo tirato badilate di letame per mesi e mesi, fin da quando era ancora in fase di pre-produzione, e contro cui si erano scagliati quasi tutti – sia i (pochi ma buoni) fan del tragic-melò Hulk di cinque anni fa, sia quelli che avevano detestato quella versione ambiziosa e commercialmente disastrosa – soprattutto di fronte a scelte di cast e di crew che suonavano, e ancora suonano, abbastanza inaudite (in primis Edward Norton come Bruce Banner), per essere tutto questo si può dire in tutta tranquillità che L’incredibile Hulk se la cavi piuttosto bene.

Bisogna capire subito che questa versione, che azzera la versione di Ang Lee ripartendo da capo, utilizzando più che altro come trampolino la serie tv (la prima trasformazione con gli occhi verdi è una citazione esplicita, il cameo goliardico di Lou Ferrigno è rivelatorio, gli intelligenti titoli di testa risolvono in fretta e furia la manfrina mitopoietica come fossero dei credits seriali) accantonando immediatamente l’annosa questione del "confronto" e – secondo la pretestuosa distinzione già utilizzata qui – "spostando" letteralmente Hulk dalla visione autoriale e scespiriana del regista cinese a una prospettiva di più specifico intrattenimento, non si avvicina né al suo precedente né tantomeno ai recenti ottimi risultati ottenuti in casa Marvel – leggi Iron Man – e ha una sceneggiatura (o almeno, quel che ne rimane nel final cut) che sembra scritta da un polygen in ferie oppure da un adolescente frettoloso che tralascia i preliminari nella fretta di passare al fattaccio.

Ma il ritmo concitato dell’action-movie rocambolesco giova anche, in qualche modo, alle vicende dell’omone color smeraldo, permettendogli di schivare con grande agilità i rischio del kitcsch, del camp, del trash, o semplicemente del brutto. L’incredibile Hulk è insomma un film che abbassa le pretese, ma che risulta divertente e anche ben fatto: Leterrier si limita a dirigere cautamente e senza farsi vedere troppo, pur divertendosi parecchio a fare voli d’uccello sulle favelas brasiliane, e che nelle sequenze d’azione, soprattutto quelle finali a Manhattan (con un paio di scene che risentono del post-Cloverfield) mette una furia distruttiva che si accoppia bene con l’ira funesta del verde protagonista. Ma non nascondiamo anche che la parziale riuscita di questo film impossibile sia dovuta a questo nuovo Hulk digitale, che nonostante le scarsissime pretese di realismo interattivo è di una fotogenia e di una bellezza folgoranti – e pure affascinante è la sua nemesi (la parola "abominio" è messa là per far contenti i fan), che fa intuire un improvviso interesse del film per la mutazione, con un risultato horrorifico eccellente. La sequenza della caverna invece è una versione più moscia dell’equivalente in King Kong di Peter Jackson, ma non si può negare che funzioni.

Norton pare ci abbia messo molto del suo, ma l’impietosa forbice degli studios ha lasciato ben poco del suo "studio". Poco male: il suo Bruce Banner, mingherlino ma cazzuto, muscolosetto e cagachiavette, molto più Bill Bixby che Eric Bana, è davvero ottimo. Tim Roth invece, soprattutto seminudo, è quasi più sgradevole della sua definitiva incarnazione maligna: ed è cosa buona e giusta.

Il crossover finale, che non svelo nonostante sia ormai noto da tempo (e stavoltà è prima dei titoli di coda) rende ancora più palese la rilevanza che la Marvel sta dando all’avvento degli Avengers: un progetto monumentale e senza precedenti che, reso possibile solo dalle attuali modalità di comunicazione, potrà cambiare radicalmente negli anni a venire il volto del cinema superomistico, e forse di tutto il cinema mainstream americano. Staremo a vedere.
In ogni caso: è bello rivederlo. Ha un abito adatto a ogni occasione.

[goodbye]

Se n’è andata Cyd Charisse.

Futurama: The Beast with a Billion Backs, Peter Avanzino 2008

Futurama: The Beast with a Billion Backs
di Peter Avanzino, 2008

"The tentacles are coming toward Earth and there’s no stopping it. King Kong is too old to save us this time!"

Il secondo film di Futurama, leggendaria serie creata da Matt Groening, prima trombata dalla Fox dopo quattro stagioni nel 2003 e poi recuperata negli ultimi mesi grazie alla rumorosa insistenza dei fan attraverso – appunto – quattro lungometraggi che escono direttamente in DVD per poi essere ritrasmessi "spezzati" in tv, dimostra soprattutto una cosa: che il sottoscritto, quando si tratta di Futurama, prende il pallido senso dell’oggettività rimastogli, lo butta nel cesso e tira la catena.

Perché è abbastanza evidente che The beast sia un bel passo indietro rispetto a quell’enormità che è stato Bender’s big score: un po’ perché la storia in sé è meno affascinante – là c’era un groviglio di paradossi temporali da far impallidire Philip Dick, qui c’è un alieno "panpoligamo" – ma anche il ritmo, i dialoghi e le situazioni, per quanto meno colme di ammiccamenti ai fan e forse più compatte, sono anche meno esilaranti. E a Bender è lasciata la sotto-trama (deboluccia) della Robot League. Eppure, The beast non mi fa fare neanche un minuscolo passo indietro rispetto all’aspettativa spaventosa che nutro anche per i rimanenti due "capitoli" di questa strana non-stagione. Fosse per me, potrei passare settimane a non vedere altro che film così.

E comunque non mancano le trovate da annali della serie, anche in senso assoluto: per dirne due, la sequenza del Deathball (il gioco di legno del labirinto di legno a grandezza uomo) o l’idea degli ascensori "relativi" (se devi salire, scende il palazzo) – ma ovviamente stiamo parlando di Futurama, diavolo, potrei star qui a elencare scene e sequenze per paragrafi e paragrafi. Facciamo che mi fermo qui, e vi lascio la sorpresa.

Il DVD esce in Inghilterra il 30 Giugno, e a seguire nel resto della galassia.

In Bruges, Martin McDonagh 2008

In Bruges
di Martin McDonagh, 2008

"My ass let’s go. They’re filming midgets."

Il primo lungometraggio dell’autore irlandese di Six Shooter, vincitore dell’Academy come miglior corto due anni fa, mi ha colto un po’ in castagna: ero pronto infatti a tacciarlo di essere un sacco di cose che, alla prova dei fatti, si è rivelato non essere. Mi aspettavo un certo tipo di film – che a questo punto non saprei nemmeno definire, ma che si situa nelle vicinanze del cinema di Guy Ritchie – e invece mi sono ritrovato davanti un film molto più gradevole di quanto io stesso non sia disposto ad ammettere.

Lo stile McDonagh ce l’ha già, ma non ne abusa, sia nella scrittura arguta che nella regia moderata e quieta. La struttura tripartita aiuta a digerire meglio un boccone più difficile da mettere in bocca che da masticare, e in definitiva dall’ottimo sapore: e tra un primo terzo dichiaratamente (fin troppo?) beckettiano, e un finale che forse in parte lima il contrasto tra i personaggi inserendolo su binari già ampiamente tracciati, c’è una parte centrale – situata tra la rivelazione del "peccato" e quella della "espiazione" – davvero stupefacente nel riuscire a trovare un punto di equilibrio tra i toni grotteschi dei dialoghi, più direzionati verso la commedia ed effettivamente divertentissimi, e un senso di profonda inquietudine morale che cala sui due bravissimi protagonisti (Colin Farrel in testa) e non se ne va più via.

Un film onesto, piccolo ma intelligente, teatrale ma avvolgente: senza capelli strappati, ma senza dubbio una piacevole sorpresa.

All the boys love Mandy Lane, Jonathan Levine 2006

All the boys love Mandy Lane
di Jonathan Levine, 2006

Non si può dire che il giovane regista esordiente Jonathan Levine abbia cominciato sotto il migliore dei segni possibile: il suo primo film sarebbe dovuto essere uscire più di un anno fa, distribuito dalla Weinstein e trainato da Grindhouse – ma l’insuccesso cocente del doppio film di Tarantino e Rodriguez convinse i distributori a liberarsene in fretta e furia. E così, dopo un paio d’anni a fare la presenza fissa nei festival di genere, e dopo l’uscita in alcune nazioni (tra cui il Regno Unito) Mandy Lane approderà nelle sale statunitensi solo quest’estate.

Tutta questa fatica ha contribuito ad aumentare l’hype intorno al film, come se non bastasse l’eccezionale titolo e l’invitante poster. E invece si tratta di un teen slasher piuttosto normale, che non fa molti sforzi per superarne la tradizione, senza nemmeno provare a buttarla sull’ironia, o sul sesso, o sulle metanarrazioni. Anzi, per sua buona parte Mandy Lane è un oggetto seriosetto, che non gioca nemmeno con gli ammazzamenti, piatti e poco inventivi, figuriamoci la sagacia: niente di male, se non fosse che per tutta la parte centrale ci si annoia davvero a morte.

Il suo problema maggiore è quello di concentrare molto su una sorpresa finale che dovrebbe essere sconcertante ma che in realtà è abbastanza prevedibile, almeno da quando viene fatta la scelta – inusuale ma rivelatoria – di svelare l’identità dell’assassino (ovvia) dopo una mezz’ora di film. Per il resto, Mandy Lane è prodotto con una certa cura, e grazie a questa confezione, almeno, non ti viene voglia di distruggere lo schermo a martellate. Visto da questa prospettiva, poteva andare peggio: ma è comunque un altro di quegli slasher in cui le vittime si comportano sempre e comunque nel modo più stupido e irrazionale possibile, e ci lasciano le penne.

Però, una cosa va detta: Amber Heard, classe 1986, è davvero una forza della natura, non solo perché è di una bellezza tanto banale quanto accecante, sia perché entrambe (Amber e Mandy) giocano in modo straordinario con la tipica posa dell’adolescente pura, timida e incompresa. Appunto. Se tutti i ragazzi amano Mandy Lane, allora mi ci metto in coda pure io.

Non ho notizie di un’uscita italiana, ma le possibilità sono molto alte. Nel frattempo, tra un mesetto esce il DVD inglese. Fate voi.

The wicker man, Robin Hardy 1973

The wicker man
di Robin Hardy, 1973

Tornato in auge negli ultimi anni anche dalle nostre parti grazie al bistrattato remake americano di Neil Labute, dopo l’uscita nel Regno Unito come "lato B" di Don’t look now di Nicolas Roeg, The wicker man visse una lunga stagione nel dimenticatoio.  Conquistandosi però nel corso degli anni lo statuto di cult movie grazie a una fedelissima schiera di ammiratori – ovviamente, soprattutto oltremanica.

E anche a distanza di 35 anni si capisce perché questa definizione calzi così a pennello sul film, che del cult ha molte delle caratteristiche peculiari: scelte stilistiche, linguistiche (le canzoni di Paul Giovanni), di casting, di location, scenografiche, narrative, una carica erotica davvero impressionante, un senso dell’humor nerissimo misto a un diffuso senso d’angoscia – in cima alle quali si trovano le sue travagliatissime vicende produttive (venne girato in gran fretta, d’inverno nonostante fosse ambientato d’estate, e parte del cast, tra cui Christopher Lee, vi lavorò gratis) e distributive: una censura infuriata, la difficoltà di "vendere" un prodotto così bizzarro, i tagli impietosi che ne ridussero la durata di molti minuti per l’uscita in sala.

Ma nonostante le innumerevoli ingenuità e le stranezze di questo fenomenale e anarchico scontro tra natura e cultura, il film di Hardy (che non riuscirà più a dirigere quasi nulla, dopo questo: e sono anni che si vocifera del simil-sequel Cowboys for Christ, che potrebbe uscire quest’anno) fa sfoggio ancora oggi di un eclettismo davvero ipnotico e di un talento per il pastiche senza rivali, che grazie anche alla contaminazione con il musical crea sequenze di grande impatto (prima tra tutte, quella famosissima della danza di seduzione di una Britt Ekland con nudissima controfigura) che culminano con un finale infuocato, visionario e apocalittico, che ha fatto scuola.

Dalle nostre parti il film si è visto solo sul satellite, e fu presentato nella sua versione restaurata al Bergamo Film Meeting qualche anno fa. In DVD inglese si trovano invece diverse edizioni: la più consigliata è questa, che contiene (1) la versione theatrical di 84′ (2) il director’s cut di 99′ creato sulla base di una copia "sopravvissuta" e (3) il CD della colonna sonora.

Se invece siete completamente pazzi, c’è questa.

[se lo costruisci lui ritornerà]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online.

L’inizio del cammino, Nicolas Roeg 1971

L’inizio del cammino (Walkabout)
di Nicolas Roeg, 1971

Il primo film del regista inglese, dopo 10 anni di direzione della fotografia (tra cui spiccano La maschera della morte rossa e Fahrenheit 451) e dopo la co-regia di Sadismo (Performance) dell’anno precedente, racconta del viaggio nelle immense e immutabili aree selvagge australiane di una giovane e bellissima ragazza e del suo fratello minore, rimasti soli nel deserto dopo che il padre è impazzito, mettendosi a sparare loro e suicidandosi infine dando fuoco all’auto. Verranno soccorsi da un aborigeno intento a svolgere il suo "walkabout" (rito di iniziazione per cui i sedicenni rimangono sei mesi da soli) che li condurrà attraverso un percorso di immersione nella natura e – in senso più inconscio per i personaggi, palese per noi – di rifiuto nei confronti di una civiltà ritratta in veri e propri segmenti intermedi con piglio grottesco (gli scenziati italiani arrapati) quando non crudele (la fabbrica di statuine, i bracconieri).

Tra i più sorprendenti (e amati) esordi della storia del cinema inglese, il film di Roeg non solo dava un’ideale continuazione a certe istanze sollevate grazie all’avvento e al termine della New Wave britannica, ma allo stesso tempo le superava grazie a uno stile fiammeggiante e personalissimo che rende Walkabout un incredibile quanto inquietante spettacolo, soprattutto per l’eclettismo e la ricchezza linguistica che, in alcuni casi, si trasformano in ricercata ridondanza. Un uso memorabile dello zoom (soprattutto nella prima mezz’ora, per rivelare la solitudine della natura intorno ai due personaggi), ma anche di panoramiche, moltissime macro (sulla fauna selvaggia), grandangoli, persino tendine, fino ad arrivare – nella sequenza dei bracconieri, geniale e quasi insostenibile – a fermi immagine e reverse, e più in generale una varietà di piani e campi che sorprende ancora oggi.

Il film possedeva insomma un coraggio nella sperimentazione inusuale sia per un debutto sia per i tempi, che tradiva sia la sua esperienza di direttore della fotografia (in ogni singola inquadratura si respira il tentativo di far parlare l’ambiente in relazione ai personaggi, e non solo viceversa) sia aspirazioni di deciso ordine teorico – come nella celebre sequenza in cui Roeg utilizza un "montaggio intellettuale" associando la caccia e l’uccisione di un canguro all’opera di taglio di un macellaio. Ma Walkabout non è solo questo: è anche un film di impressionante e immediato impatto estetico ed emozionale, e la stupefacente storia di una scoperta di sé attraverso la scoperta della natura – e, dentro di essa, del pericolo, della paura, della più profonda sensualità, e della morte.

Non esiste un’edizione italiana in DVD. Si può ripiegare sulla edizione inglese o su quella tedesca (entrambe economiche ma senza sottotitoli inglesi) ma se non avete problemi con le Regioni vi consiglio di accaparrarvi la solita edizione Criterion (una delle prime uscite della storica Collection) che è ovviamente di qualità incomparabile alle altre edizioni in circolazione.

La splendida Jenny Agutter aveva 18 anni quando il film uscì, ma 16 anni quando lo girò: con questo sotterfugio, Roeg si permise di includere in montaggio una quantità di scene di nudo – alcune delle quali sottilmente morbose anche se sempre del tutto funzionali – che oggi sarebbe del tutto impensabile. Se la cosa vi tocca, siete avvertiti. Allo stesso modo: se vi impressionano, anche minimamente, gli animali morti nei film, statene alla larga.

L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza, Cao Hamburger 2006

L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza (O Ano em que Meus Pais Saíram de Férias)
di Cao Hamburger, 2006

A un anno e mezzo dall’uscita in patria, e dopo aver fatto incetta di premi in tutto il sudamerica e non solo, O ano em que meus pais è arrivato finalmente anche dalle nostre parti: diretto da un regista quarantaduenne di origini italo-tedesche, il film è un piccolo e intimo racconto di formazione su un dodicenne che viene lasciato dai genitori, dissidenti del regime militare, alle cure del nonno, non sapendo della morte improvvisa di quest’ultimo, durante l’estate in cui il Brasile di Pelé e Jairzinho si portò a casa la terza Coppa del Mondo di Calcio battendo l’Italia di Valcareggi.

O ano em que meus pais è un film gradevole, costruito con grande cura e scritto con la giusta dose di delicatezza e con equilibrio. Ma la grande fortuna di Cao Hamburger è soprattutto quella di aver lavorato con i bambini e per i bambini, con un programma chiamato Castelo Rá-Tim-Bum: perché la forza di questo suo film sta proprio nella capacità di abbracciare il punto di vista di un preadolescente – che è spesso più conscio di ciò che gli accade intorno di quanto gli adulti non vogliano ammettere, ma che allo stesso tempo è caratterizzato da un continuo cambio di prospettiva sulle cose, e dalla difficoltà di focalizzare con precisione la realtà.

Lo sguardo di un dodicenne sulla Storia, soprattutto su eventi che cambieranno il corso della vita sua e altrui, è sempre un misto di consapevolezza e confusione, di bisogno di consuetudine e paure inconsce, e queste sensazioni spesso dimenticate Hambuger sembra conoscerle – o forse ricordarle – alla perfezione. E per qualche istante, o meglio, per buona parte del film, le fa ricordare anche a noi.

A Venezia… un dicembre rosso shocking, Nicolas Roeg 1973

A Venezia… un dicembre rosso shocking (Don’t look now)
di Nicolas Roeg, 1973

Tre sono le sequenze che spiccano maggiormente in questo incredibile secondo film di Nicolas Roeg, meno celebre da noi che in patria, dove è invece considerato tra le massime vette del cinema inglese, tanto da meritarsi un ottavo posto nella nota Top 100 del BFI, forse a causa dell’improbabile titolo italiano o forse per il ridotto numero di passaggi televisivi dovuto a – ovvi – problemi con la censura.

La prima è quella che apre il film: un incredibile pezzo di cinema in cui ogni certezza linguistica (e, scopriremo procedendo nella storia, narrativa) viene immediatamente spazzata via, in modo sistematico e assolutamente sperimentale, trasformando gli stacchi tra le inquadrature in veri e propri connettori psichici, e facendo del montaggio stesso un sistema associativo a sé stante, senza precedenti. Che porta sì, inevitabilmente, alla tragedia: ma il geniale stacco finale spezza la sequenza con un utilizzo dell’anticlimax che risulta ancora oggi sconvolgente.

La seconda è quella, arcinota e lunghissima, dell’amplesso tra Donald Sutherland e Julie Christie: una sequenza che fece molto parlare di sé per la sua estrema franchezza, e forse troppo, distogliendo il discorso sul film da altri caratteri dell’opera. Ma si tratta certamente – con il suo dissacrante e innovativo montaggio parallelo tra il coito e il post orgasmic chill – di una delle sequenze (non solo "di sesso") più seminali della storia del cinema. Ultimo, l’inseguimento finale, in cui la fiaba di Cappuccetto Rosso viene replicata tra le calli e i rii veneziani per poi essere ribaltata e macchiata col sangue.

Ma tutto il resto del film di Roeg, a distanza di 35 anni, è ancora un vero gioiello di cinema europeo, e tramite il suo linguaggio liberissimo, furioso e analitico al tempo stesso, pieno di presagi e follemente innamorato dei dettagli che li compongono (come il tema dell’occhio, della vista, reiterato ossessivamente fin dal titolo), con la sua Venezia "laterale", fredda e cupa, è ancora un film capace di perturbare, per i suoi mille misteri ancora irrisolti (il vescovo di Massimo Serato, il commissario di Renato Scarpa), ma anche solo con una risata, inquietante come poco altro, di fronte a uno specchio sbiadito – o una diapositiva macchiata di rosso, come il futuro funesto che non aspetta altro che poter consumare la sua catarsi.

Don’t look now ha avuto una storia distributiva digitale piena di ostacoli, con un’edizione passata insoddisfacente che ancora circola nella foresta nera del p2p: il modo migliore di goderselo è recuperare l’economicissimo DVD dell’edizione speciale inglese.

The Onion Movie, Tom Kuntz Mike Maguire 2008

The Onion Movie
di James Kleiner (Tom Kuntz e Mike Maguire), 2008

Un minimo di contesto: The Onion è un periodico satirico nato circa vent’anni fa e universalmente noto nella sua versione online. Qualche anno fa, due autori di Onion scrissero la sceneggiatura di un film ispirato alla celebre pubblicazione: ma il lungometraggio ci ha messo cinque anni a vedere la luce, dopo una serie infinita di ostacoli e rimaneggiamenti, la fuga di autori e registi, il disconoscimento da parte di The Onion stesso – e infatti è uscito direttamente in DVD, poco tempo fa.

Ispirato in modo diretto al modello di The Kentucky Fried Movie (da noi Ridere per ridere) e di Donne amazzoni sulla luna, anche The Onion Movie è un film costruito su una lunga sequela di sketch più o meno brevi, finti spot, finti trailer, finti servizi televisivi. A fare da "frame", l’anziano anchorman di The Onion che, tra una notizia farlocca e l’altra, se la deve vedere con l’ingerenza dei nuovi proprietari del network – una multinazionale che vuole usare le news per lanciare un nuovo film con Steven Seagal intitolato Cockpuncher, il cui trailer spopola in tv – esattamente come sta spopolando su Youtube nel "mondo vero" in questo periodo.

Quello che conta è che, se anche Cockpuncher fa la parte del leone e non solo da trait d’union, grazie a un Seagal bolsissimo ma dotato di un’incredibile autoironia, anche quasi tutto il resto di The Onion Movie fa semplicemente sperticare dalle risate. Inutile o forse impossibile elencare le gag più riuscite, dal video-corso d’addestramento per terroristi islamici al cameo equo-solidale di Michael Bolton, dall’impresa di Dave Kostman addetta a disincastrare peni dai pertugi allo spot subliminale di una crociera per soli gay, e in cima a tutto il segmento "Insipirational Portrait" su un giocatore di hockey privo di arti, e soprattutto la Melissa Cherry di Sarah McElligott, una simil-Britney Spears che, intervistata, si mostra del tutto inconsapevole delle chiare metafore sessuali presenti nei suoi testi (e nei suoi video).

Il film è capace anche di inaspettate finezze, come quando dopo 20 minuti due critici cinematografici si mettono discutere quanto visto finora (solo per essere interrotti da un giovane identificato come "the masses" che li invita a sparire e a passare oltre), ma è nell’assoluta e pura anarchia, non intesa per forza come political uncorrectness ma più che altro come totale disinteresse nei confronti di ogni logica narrativa, oltre che nel ritmo furioso che spezza le sequenze subito dopo la punchline per far spazio alla successiva (una cosa a cui non siamo più abituati), che sta la forza del film – e il finale-hellzapoppin’ in cui tutti i personaggi degli sketch vengono riproposti con una pretestualità tanto immotivata quanto divertente, ne è la prova più concreta.

Davvero un soffio d’aria fresca per un genere, la commedia demenziale americana, che sembrava del tutto assopito o defunto, tradito nella sua forma più popolare da gente come Seltzer e Friedberg e tramandato semmai tra le righe dei film di Apatowlandia, e che in questa forma – vecchia appunto di trent’anni ma ancora perfettamente calzante – ritrova davvero una spassosa seconda giovinezza.

Come già accennato, il film negli USA è uscito direttamente in DVD: eccolo. Da noi sarebbe vendibilissimo: probabilmente è questione di giorni, prima che se ne accorgano. Cominciate a immaginarvi il titolo italiano più brutto di sempre.

Superhero, Craig Mazin 2008

Superhero (Superhero movie)
di Craig Mazin, 2008

Mettiamola così: un poco ancora ci speravo. Tale è il disgusto per lo status quo del cinema demenziale americano, rappresentato in gran parte dagli incassi vertiginosi degli orridi film di Seltzer e Friedberg, che mi sarei accontentato di qualunque cosa. Ed effettivamente, durante la visione di Superhero movie, parodia dello Spiderman raimiano (e di altri supereroi, ma solo di passaggio), qualche svogliata risata l’ho buttata, e ho apprezzato quantomeno qualche sforzo creativo. Inventarsi un cattivo ex novo, per esempio.

Ma ci vuol poco a capire che è tutta una questione relativa: Superhero movie è purtroppo un filmaccio di poco conto, ben poco divertente e ancora peggio ancorato a una comicità fatta di gente che va a sbattere contro cose, liquidi corporei (anche se le due gag migliori hanno a che fare con urina e flatulenze), riferimenti completamente casuali alla ricerca dell’up-to date (Tom Cruise su Youtube), che – forse per via di un target anagrafico un po’ più ampio dovuto alla presenza di Leslie Nielsen – almeno ha la decenza di non piegarsi del tutto al predominio culturale della reality television (vien da benedire l’assenza di riferimenti ad American Idol), ma che non ha nulla a che fare con la capacità di parodie del passato – anche non troppo lontano: Scary movie 3, per dirne una – di riflettere, o di provare a riflettere, sui meccanismi del racconto di genere nel cinema americano, e che butta via un notevole minutaggio in gag insopportabili e tutte uguali su Stephen Hawking.

Insomma, il fatto che sia migliore, molto migliore, di Meet the Spartans e Epic movie non deve trarre in inganno. A far quello, tutto sommato, son capaci tutti.

Sara Paxton è davvero bellina. Leslie Nielsen invece ha 82 anni: basta.

[addio]

E’ morto Dino Risi | vid

[la chiamavano istigazione]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Les chansons d’amour, Christophe Honoré 2007

Les chansons d’amour
di Christophe Honoré, 2007

Delta Charlie Delta, sur la fréquence de la police
Delta Charlie Delta, la chanson de la mort qui glisse

Non nasconde un profondo affetto nei confronti del cinema francese del passato, il regista bretone: la struttura tripartita (le départ, l’absence, le retour) viene direttamente dai Parapluies di Jacques Demy, così come alcune precise scelte registiche (il personaggio di Julie che si muove su un tapis roulant), ma tutto l’apparato iconografico e narrativo (il ménage à trois, la tragedia improvvisa, e via elencando) affonda le sue radici nel terrano originario della Nouvelle vague. Ma Honoré ha l’intelligenza e il talento di sfruttare l’humus su cui è cresciuto, non limitandosi a succhiarne la linfa in uno sterile omaggio.

Così, attraverso le canzoni di Alex Beaupain (che appare nel film in una sequenza cruciale, proprio nel ruolo di un cantante in un locale), che non sono solo bellissime ma possiedono un’immediatezza emozionale fuori dal comune (fin dall’attacco dell’incredibile De bonnes raisons), e quindi perfette per lo scopo che si prefiggono, Honoré riesce a raccontare una storia che sta in piedi da sé – quella di una scoperta di sé che passa attraverso la perdita e la solitudine, quella di un sacrificio necessario per una catarsi personale che si porta dietro, con un sorriso e una canzone, l’odore tangibile di un volto fantasma – e che trapassa lo sterno fino al cuore senza bisogno di troppe spiegazioni.

I contributi maggiori vengono da un cast partecipe e affascinante (Louis Garrel è probabilmente l’uomo più bello di questo pianeta, su Ludivine Sagnier è meglio che taccia, ma anche gli altri sono davvero tutti eccellenti) e soprattutto da una regia che non lascia niente al caso, che è precisissima eppure estremamente carnale, addirittura vibrante: forse la convinzione così palese e sfrontata che un movimento di macchina possa ancora avere, di per sé, una portata emozionale basta a far sì che questo accada.

O forse è semplicemente un bellissimo film.

E comunque, studio editoriale is the new officina meccanica.*


Tra le altre cose, Premio Speciale della Giuria all’ultimo Torino International GLBT Film Festival.

Il film, dopo la presentazione a Cannes 2007, è uscito in Francia più di un anno fa: da noi invece non c’è ancora traccia di una distribuzione. Peccato. Consolatevi con il DVD edizione UK (poco chiaro se su quella francese ci siano i sottotitoli inglesi o meno), che è gararantito Artificial Eye: non è economicissimo ma è un buon acquisto.

*questa è sua.