Doomsday, Neil Marshall 2008
Doomsday
di Neil Marshall, 2008
Il momento in cui credo di aver inquadrato questo film, e che mi ha permesso di godermelo appieno nonostante sia magari un passetto indietro nella carriera del regista di Newcastle dopo l’eccezionale The descent, avviene dopo qualche minuto. Alla protagonista viene presentato il team con cui oltrepasserà il "muro" alla ricerca di superstiti. E in un film le cui principali fonti d’ispirazione sono 1997 Fuga da New York e la trilogia di Mad Max, i due fucilieri si chiamano Carpenter e Miller. Al di là della "facilità" dell’omaggio, a quel punto, l’antifona era chiara: caro Neil Marshall, se ti vuoi divertire come un deficiente non sarò certo io a impedirtelo. Anzi, adesso mi sdraio e vedo cosa sei in grado di fare.
Visto così, come un divertissement cinefilo che riprende temi e suggestioni di una valanga di film post-apocalittici come i succitati e gli zombi di Danny Boyle, passando per Excalibur di Boorman e per I guerrieri della notte, Doomsday è un film che difficilmente delude. Non solo perché dichiara il suo essere apertamente derivativo in modo ironico e a tratti divertito (tutta la trovata dell’occhio e della benda di Eden, il delirante inseguimento finale), ma anche perché gestisce tutte queste influenze con una mano fermissima, senza prendersi troppo sul serio (vedi le scelte musicali: c’è anche un pezzo dei Fine Young Cannibals, per dire), aiutato in questo da un montaggio frammentato e complesso (curato dallo stesso regista con Andrew MacRitchie), spesso ai limiti del confusionario ma che dà un’impronta di personalità molto forte alle molte sequenze d’azione.
Certamente il film non è cibo per tutte le bocche. Laddove con The descent Marshall aveva costruito un horror terrificante ma a suo modo molto asciutto e "serio", che riusciva in qualche modo – grazie all’artificio del buio ma anche a una specie di autocensura – a scampare dai soliti problemi di rappresentazione del mostruoso, qui il regista non si ferma letteralmente davanti a niente, mettendo in campo qualunque cosa gli passasse per la mente, senza avere mai paura di diventare ridicolo o trash. Facendo perno senz’altro su un’idea narrativa molto brillante – ovvero che per arginare il contagio ricostruiscano un nuovo Vallo di Adriano, facendo della Scozia una sorta di bolla temporale – ma sequenze come quella del cannibalismo collettivo o il numero davvero impressionante di decapitazioni (con le quali dopo un po’ si mette a giocare con un invidiabile senso del macabro) non sono cose che si vedono tutti i giorni.
Doomsday in fondo è un gioco, ma è un gioco ben riuscito. Uno di quei film che ti puoi divertire moltissimo a raccontare il giorno dopo ("sei lì che vedi Interceptor e poi a un certo punto, tac!, quello ti diventa un film medievale!") ma anche vederlo di per sé può dare le sue belle soddisfazioni.
Nei cinema dal 29 Agosto 2008.
Esiste una versione theatrical e una unrated: se volete gustarvi la seconda, il DVD americano è già disponibile e le contiene entrambe.
The love guru, Marco Schnabel 2008
The love guru
di Marco Schnabel, 2008
C’è stato un periodo in cui Mike Myers, nonostante non sia propriamente il più gradevole dei comici anglosassoni, mi stava comunque discretamente simpatico. Dopotutto, con Wayne’s world ci siamo cresciuti in molti, lo stile di Myers anticipava per alcuni aspetti molte tendenze degli anni a venire, e i film di Austin Powers, nonostante fossero completamente privi di ritmo (non so voi, io ero solito dare la colpa a Jay Roach) facevano ridere – anche se forse tre capitoli erano davvero raschiare il fondo del barile.
Dopo molti anni di assenza passati sostanzialmente a doppiare l’orco della Dreamworks e a viverci di rendita, l’attore anglo-canadese torna con un film "à la Meyers". Il suo nuovo personaggio è un guru dell’amore che sogna di andare da Oprah e che attende di perdere la verginità. Che il film non fosse particolarmente riuscito si poteva capire già di partenza, dal concept e dai trailer, ma che un comico altrove assai brillante sia riuscito a tirare fuori una roba così scoordinata, sbrindellata, piena di battute sulle caccole, sui nani e sulle scoregge, e basata quasi esclusivamente su un accento buffo che dovrebbe far rabbrividire qualunque fan di Peter Sellers (e vi includiamo lo stesso Myers), è davvero sorprendente.
Myers mostra quindi un livello avanzato di bollitura, facendo rimpiangere persino le cose peggiori di Goldmember, e Justin Timberlake con i baffoni e il cazzo grosso fa ridere giusto per un mezzo minuto. Le poche sorprese le regala invece il cast di contorno, con una nutrita presenza di cameo (spassoso quello di un cicciosissimo Val Kilmer) e di corrispondenti del Daily Show: ma se John Oliver fa il suo mestiere senza guizzi e se sull’apparizione Samantha Bee stavo probabilmente sonnecchiando, a travolgere e a rendere immediatamente necessaria la visione, ovviamente telecomando alla mano, è il commentatore sportivo Jay Kell interpretato dal leggendario Stephen Colbert. Talmente divertente da meritare un film tutto per sé, mentre tutto intorno a lui frana, tra le decine di inspiegabili lungaggini messe lì per arrivare a un minutaggio decoroso.
Ma anche se vi andasse di provarci lo stesso, mi chiedo quale sia il senso di vedere in sala e doppiato nella nostra lingua un film la cui comicità, se si escludono le cose più "fisiche" affidate soprattutto a Verne Troyer (il Mini-me della saga di Austin Powers), è basata su calembour e su polisemie – ed è quindi sostanzialmente verbale. Per intenderci, il meccanismo è sempre lo stesso: Myers dice una cosa che è apparentemente sensata di per sé, poi rende chiaro che pronunciandola in un certo modo vuol dire qualcos’altro (spesso qualcosa di estremamente triviale), e a quel punto si mette a ridere, e gli altri personaggi ridono con lui, rapiti. Non so se la cosa vi ispiri. Quello che è certo è che Mike Myers avrebbe bisogno di una iniezioncina di umiltà, oppure, per carità, qualcuno gli dica che questa roba, così com’è, fa schifo.
Nei cinema dal 1 Agosto 2008
Il cavaliere oscuro, Christopher Nolan 2008
Il cavaliere oscuro (The dark knight)
di Christopher Nolan, 2008
Certe volte, quando ti casca addosso un film così, non te ne accorgi. Semplicemente, non eri preparato. Nessuno te l’aveva detto. Ti arriva alle spalle, e fa il rumore improvviso, spaventoso e affascinante di un fulmine in una tersa giornata d’estate. Certe altre volte, invece, come in questo caso, non c’era proprio nulla che non ti dicesse che sarebbe potuto (o dovuto) accadere. Tutto punta in quella direzione, per settimane, per mesi, e davanti a te quella sera, quella notte, buia, c’è la strada vuota e libera, e allora ti senti pronto, come on, I want you do it, come on, hit me, hit me, lo vedi, arriva, ma il contatto, il tonfo vero e proprio, quello che ti scaglia a terra, è una cosa a cui non si può essere preparati. Non si può esserlo fino in fondo, preparati a un film così. Ed è la cosa stupenda, impagabile, dell’esserne travolti.
Certe volte, quando ti sei abituato a vedere film, parlarne, scriverne, a discernerli o ad accettarli, a sezionarli o a categorizzarli, in fondo te li lasci scivolare addosso, come gocce di pioggia su una corazza robusta. Il cavaliere oscuro è uno di quei rari casi in cui, mentre vi stai assistendo, ti rendi conto che qualcosa si sta spaccando, in quella corazza. Che sta penetrando, bruciando, elettrizzando. Non solo te, ma tutto ciò che vi sta intorno. Dispiace quasi, per tutti i film con i quali Il cavaliere oscuro condivide un inesauribile, popolarissimo ed eclettico macro-genere, e nei confronti dei quali si era stabilito un rapporto di simpatia, amicizia o complicità, ma questo è un uragano che tutto travolge, che fa piazza pulita, che spazza via anche il grigiume delle distinzioni, e con esse cambia radicalmente, almeno in potenza – e proprio dal momento in cui ottiene questo frastornante successo – la faccia stessa del comic book movie. Ed era un momento che aspettavamo, credo, da sempre.
Ma se anche Il cavaliere oscuro dovesse rimanere un unicum, poco cambierebbe del suo inestimabile valore, del suo vigore, della sua ineccepibile poderosa violenza. Dove violenza significa prima di tutto restituire allo spettatore il piacere di uno spettacolo totale. Dove nemmeno il tappeto sonoro di James Newton Howard e Hans Zimmer è una mera colonna sonora, ma una delle più grandi applicazioni di un’idea di sonoro nel cinema recente, costruita spesso su una ricerca del suono perturbante che non ha nulla a che vedere con le abitudini del cinema mainstream, e che insieme a un montaggio che reinventa l’essenzialità come marca espressiva non lasciando mai un minuto di respiro tra una sequenza e l’altra, trasforma alcune sequenze – soprattutto i grandissimi duetti tra Heath Ledger e gli altri personaggi – in un’esperienza cinematografica vibrante, e fisica. Parlo di mangiarsi le unghie fino alle falangi, Parlo di tremare, di sudare. Di piangere per una lettera donata, appoggiata su un vassoio, da lì sollevata, e infine bruciata con un accendigas. Sorridere sapendo che se the only justice in an unfair world is chance, in un mondo a cui è stato dato in dono il caos in un pacchetto, tutto è destinato comunque a esplodere, prima o poi. Lasciando dietro di sé, al massimo, i martiri immolati di una speranza menzognera. E la luce che illumina la collettività non è più, come in altri film simili, la speranza ad essa legata – ma al contrario, l’ultimo dei barlumi di un’umanità pronta a scomparire, ad annientarsi, in quello stesso cupo caos.
Affrontare Il cavaliere oscuro mette comunque in difficoltà, perché ti rendi conto immediatamente che le solite parole non bastano. Quelle di elogio della mostruosa, indicibile, uberumana performance di Heath Ledger, e di tutto il cast con lui. Di come Chris Nolan sia riuscito a trovare un equilibrio definitive tra le due anime del suo cinema, schizofrenico e fenomenale come gli splendidi, corposi personaggi di questo film. Di come Il cavaliere oscuro abbia ben poco del comic book movie, ma sembri piuttosto, come molti hanno detto, l’ultimo thriller metropolitano possibile, un film complesso e adulto, nonostante le impennate e nonostante le maschere, che risente più della lezione di Michael Mann che di Tim Burton. Del fatto che quella macchina da presa che volteggia tra i palazzi fa del pipistrello un simbolo decadente, mentre la protagonista è proprio la città – una città che è impersonificata e resa carne, con il suo caos e il suo caso, il suo dolore e il suo disperato eroismo, e la sua fioca speranza. Gli occhi che ci guardano, e che ci parlano, fin dalla prima inquadratura, sono le mille e mille finestre di Gotham City. Pronte a scoppiare.
Tutte queste parole le rimandiamo un attimo, le mettiamo da parte, le consumeremo tra una birra e l’altra scambiandoci colpi di gomito con un entusiasmo irreale e revitalizzante. Quante sono, le cose che vorrei dire. E quante, ci sarebbero da dire. Ma ora, qui, ci fermiamo.
[porca. puttana.]
"This is what happens when an unstoppable force meets an immovable object"
Post in attesa, presumo.
Funny Games, Michael Haneke 2007
Funny games
di Michael Haneke, 2007
Mi rendo conto che è estate, che la voglia di mettersi a leggere i blog di cinema è scemata, che se si passa da queste parti è per vedere se un film sia venuto bene o meno – o meglio, se sia piaciuto o meno a chi ne scrive. Ma in questo caso, fate pure un passetto indietro: questo è Funny Games. Chi lo guarda sa benissimo che cosa si trova davanti. Sa benissimo com’è, take per take, e sa benissimo se – e quanto – gradirà. E in vista di ciò, ogni considerazione ulteriore diventa improvvisamente extrafilmica.
Insomma, per quanto mi riguarda, credo che per dare un giudizio al film del 2007 dovrei ricalcare un ipotetico giudizio al (gigantesco) film del 1997. Va da sé, non ne ho alcuna voglia. Mi preme semmai sottolineare, me ne sono accorto soltanto durante la visione e ne parlo ignorando come al solito qualunque dato paratestuale (leggi interviste), come quella di Haneke non sia stata affatto una scelta facile, ma al contrario una presa di posizione di grandissima forza espressiva di per sé – al di là dell’innegabile bellezza e rarità dell’opera che ne è scaturita. Perché tra le discussioni su cosa sia uguale e cosa sia diverso, quello che spesso sfugge e che Haneke fa in prima battuta con questo suo secondo Funny Games è riprendere possesso di qualcosa che, nell’applicazione pedissequa della riproducibilità, si era quasi del tutto perduto: l’assoluta singolarità dell’opera.
Haneke, proprio attraverso questo film, incredibile e poderoso quanto l’originale – se non che proprio dell’originalità viene privato, e va ammesso, ciò diminuisce di gran lunga l’impatto espressivo – ribadisce che ogni film è fondamentalmente immutabile. Ricorda al pubblico che nel cinema, o almeno nel suo cinema, nessun movimento di macchina, composizione del quadro, nessuna singola scelta ritmica e timica, niente di tutto ciò è subordinato né casuale all’interno dell’opera definita. Riprendendo l’idea di film come partitura già applicata da Gus Van Sant in Psycho, Haneke non fa che suonare un’altra volta il suo Funny Games – e se l’orchestra differente darà una nuova personalità al film, aggiungendo magari una differente inquietudine dovuta alla "bellezza" del cast americano – unica grande sostanziale "modifica" – il pentagramma resterà immutato.
Il regista austriaco ci ricorda insomma che la grandezza di un film rimane anche nella sua assoluta e spesso dimenticata unicità. E lo fa proprio, paradossalmente, negandogli quella stessa unicità. Sdoppiandosi invece con un furore, un coraggio e una coerenza che lasciano senza fiato, quasi quanto quegli spari fuoricampo, quelle uova a terra, quel gioco buffo di acqua e fuoco che apre le danze di morte di Peter e Paul. Inquietandoci, e spaventandoci, come fosse ancora la prima volta.
Hellboy II – The golden army, Guillermo del Toro 2008
Hellboy II – The golden army
di Guillermo del Toro, 2008
Ci interessa solo fino a un certo punto che nei quattro anni che sono passati da un film assai divertente ma riuscito a metà come Hellboy, grazie al successo dell’enorme Labirinto del Fauno, Del Toro abbia acquisito un maggior "potere contrattuale", per potersene uscire con un film davvero bello e sorprendente come questo Hellboy II. Quello che ci interessa di più è invece vedere come ormai le forme del cinema di Del Toro si siano cristallizzate e siano estremamente riconoscibili, deformando le tavole di Mignola fino a renderle, in toto, deltoriane. L’interminabile, favolosa sequenza hensoniana del Mercato dei Troll nascosto sotto il ponte di Brooklyn credo che parli da sé.
A questo punto il compito di ciascuno è decidere se questo stile piaccia o meno, se a ciascuno vada di ritenerlo già maniera o, appunto, una firma forte, e ferma. Va da sé, che qui s’è della seconda banda: Hellboy II è un film formidabile e formidabilmente migliore del precedente, proprio per il suo vivere separato dal suo contesto, divenuto (non se n’abbiano a male i fan di Mignola) quasi pretestuale. Per un’autonomia intellettuale e artistica che è tutta farina del sacco del regista messicano, e che si esprime peraltro con una libertà divertita e leggiadra che rende Hellboy II il vero "outsider" del cinema-fumetto all’interno di una stagione già felice per il "genere". Ma non si pensi che il regista si pieghi ai suoi stessi vezzi: come i più grandi registi di intrattenimento sanno fare, dove la priorità è sempre lo spettacolo, la personalità dell’autore e le regole (anche schematiche e a volte frettolose, perché no) del cinema-fumetto si sanno mescolare alla perfezione, senza fare a pugni.
Le scene entro le quali questa amalgama si esprime sono effettivamente quelle che vengono citate più spesso: e al di là dell’ottima realizzazione delle scene d’azione (come il combattimento contro la divinità elementale con il neonato in braccio, semi-citazione di Hard boiled), a colpire sono soprattutto alcune derive tipiche del regista. Che siano grottesche (quella del bambino-tumore è la quote dell’anno, senza alcun rivale) o poetiche (la strada di Manhattan che diventa un giardino) o assolutamente inaspettate come la scena, meravigliosae ormai celebre, in cui i due eroi si soffermano sdraiati sugli scalini, parlando di delusioni d’amore, ubriacandosi, canticchiando un canzone di Barry Manilow che poi esci e non ti togli più dalla testa.
Can’t smile without you.
[nel cinema sopra il quale si svolge la lunga sequenza del dio elementale proiettano See you next wednesday. Chi conosce e ama il cinema di John Landis l’avrà già sicuramente notato, ma non potevo esimermi dal segnalarlo]
[disclaimer]
Un paio di cosette, di passaggio. Sono stato avvertito da più fronti che il blog è temporaneamente sparito, per qualche ora. Abituali e perdonabili scherzetti di splinder, prontamente risolti. Se capitasse anche a voi, scrivetemi che vi spiego come si fa. Qualcuno si era pure spaventato, forse anche a causa della recente scarsezza di contenuti. In realtà questa carenza è dovuta alla carenza di visioni stesse: ad attendermi c’è una coda interminabile di film che passerò l’estate a recuperare, da The living and the dead a Funny Games US. Però al momento, mi scuso in anticipo, questo blog sarà ancora un po’ pigro, per qualche giorno: sto infatti facendo una specie di bizzarra settimana di ferie a Bologna, a due anni dal mio abbandono. Chiedetemelo, quanto sono pazzo a passare delle ferie nella città più calda del centro-nord? Eppure, mi ci sono voluti solo tre giorni per reinnamorarmene, alla follia. Quindi, se siete da queste parti, contattatemi. Oppure ci si vede questa sera al concerto dei Camera Obscura, o in giro a qualche laurea a cui mi sarò spudoratamente imbucato, o alla proiezione collettiva di Hellboy II che si terrà da qualche parte mercoledì sera e alla quale tu, mio giovane amico, sei automaticamente invitato. Ma poi torno, eh. Baci e abbracci.
E venne il giorno, M. Night Shyamalan 2008
E venne il giorno (The happening)
di M. Night Shyamalan, 2008
Il cinema di Shyamalan sembra essere destinato a sollevare sempre qualche polemica, oppure qualche polemica di troppo: è nella natura della sua strana filmografia passata diventare oggetto di diatribe fratricide, rissose molestie, vespai. Son cose che fanno solo bene, si intende. Ovviamente, il caso di The happening appare diverso ai miei occhi. La sensazione è che questo suo ultimo film sia quello in cui il regista del Puducherry ha abbassato di più il tiro – caso strano, se si considera che il penultimo, Lady in the water, era esattamente il contrario: il suo film più personale e rischioso.
Si tratta insomma davvero di un film di poco conto, se visto alla luce delle sue opere precedenti, che presentavano una ricerca formale del tutto differente e una spavalderia nella messa in scena che qui è annichilita da una regia inattuale e inadatta, e soprattutto da una direzione d’attori che fa acqua da tutte le parti – in particolare Leguizamo e Zooey Deschanel, che sembra essersi dimenticata del tutto all’improvviso come si recita, mentre Mark Wahlberg fa funzionare bene il suo collaudato sguardo imbabolato. Ma nel suo essere un film assolutamente innocuo (credo che irritarsi per un film così dichiaratamente “B” lasci il tempo che trova), The happening riesce non solo a divertire, nel suo piccolo, ma a toccare, a bocconi, la radice della questione, che ha a che fare più con il sistema del cinema catastrofico e apocalittico, che con un eventuale Messaggio Ecologista – come al solito, del tutto pretestuale e secondario rispetto alla riflessione sui meccanismi (ancora fiabeschi) del racconto, e prima di tutto al racconto stesso.
Un film pigro, quindi. Pigro, e molto goffo. Tangenzialmente ridicolo, e buffo a tratti, più che davvero angosciante, ma che azzecca alcune sequenze (per esempio l’ormai notissimo, stupendo incipit, e tutto il prefinale delle baracche – ma non sono le uniche) con una naturalità e con una schiettezza che lo risollevano all’improvviso, che fanno rimpiangere la possibilità di un film differente, più ragionato, forse più “serio”, di sicuro meno grottesco, ma che allo stesso tempo ci impediscono di disprezzarlo fino in fondo – al di là dei suoi, stavolta davvero inequivocabili, limiti.
The Chaser, Na Hong-jin 2007
The chaser (Chugyeogja)
di Na Hong-jin, 2008
A questo film si è già fatto accenno qualche mese fa, in un cappello introduttivo sullo stato del cinema coreano "nuovo" in un contesto che si presenta come assai poco favorevole per la coltivazione, anche commerciale, dei nuovi talenti. The chaser, invece, ha fatto il botto: merito anche di un passaparola davvero notevole, visti i tempi, che però, per una volta, sembra faticare a varcare i confini del continente asiatico: demerito del film in sé, oppure è l’occidente a essere meno ricettivo nei confronti del cinema di Seoul?
Il discorso ci interessa fino a un certo punto, trovandoci di fronte a un film simile: perché se The chaser non segna nessun tipo di svolta o rivoluzione, marchiando il territorio persino meno dell’altro "esordio eccellente" della stagione (ovvero Epitaph), e se non è ai livelli di un modello come può essere Memories of murder, si può dire che l’opera prima del trentaquattrenne Na Hong-jin sia un esempio abbastanza esemplare dell’enorme potenziale espressivo e della vitalità narrativa dei giovani registi coreani. Che in questi caso si esprime attraverso un thriller fatto di corse, rapimenti, percosse, solitudini, disperazione, e un senso di ambiguità morale che abbina l’inanità delle istituzioni a un più profondo e radicato senso di impotenza di fronte all’assurdità della vita e della morte. E soprattutto a un’indole pessimista nei confronti delle responsabilità individuali.
Il talento di Na per le sequenze d’azione, incredibilmente "concrete" pur svolgendosi la maggior parte delle volte all’interno di scenari quasi iperrealisti – memorabili gli inseguimenti a piedi tra gli stretti vicoli di accaldate periferie, semideserte o semiabbandonate – fa il paio con questa sensazione di rassegnazione e disillusione cosmica che avvolge il mondo, (i personaggi lottano inutilmente con le unghie contro un destino nero che sembra sempre comunque già scritto), e l’uso sapiente ma spietato della violenza, unito alla performance gigantesca di Kim Yoon-seok nel ruolo di un protettore in corsa contro il tempo e contro il proprio senso di colpa, fanno di The Chaser qualcosa di più di un film semplicemente interessante. Uno dei thriller "metropolitani" migliori degli ultimi tempi, e una discesa inquietante negli abissi umani, e nei sempre più feroci e beffardi giochi del Caso. Senza dubbio, una firma da tenere d’occhio.
Il DVD coreano Regione 3 costa una ventina di euro. Fossi in voi ci farei un pensierino.
[plink plink plonk]
Tre film del 2007, tre del 2006, uno del 2005, e uno solo del 2008.
Si chiama Estate. Nel nuovo episodio di Friday Prejudice.