The hurt locker, di Kathryn Bigelow
Venezia 65, Concorso
Kathryn Bigelow, dopo aver sfoggiato le migliori intenzioni di questo mondo adattando un reportage di Mark Boal (quindi un’esperienza meno "mediata"), e promettendo un film che osserva e riferisce piuttosto che un film che polemizza e filosofeggia, fa semplicemente un film di guerra. Una guerra che forse non conosciamo ancora bene, ma che tutto sommato ricorda altre guerre. E che quindi non ha molto da dire: posto l’assunto narrativo (le vicende di una squadra di artificieri) il film non fa alcun passo avanti. Si tiene vicinissimo ai suoi personaggi, ma dimenticando di ritrarli. Azzecca almeno una sequenza magistrale (quella dell’assedio) ma poi si riassesta su un livello medio che – spiace dirlo, ma solo per la sua collocazione – è quello di tutto il film. Un film medio, dunque, senza particolari doti se non quella di osservare la realtà con un distacco (che se pure manca di autocritica almeno non sfocia nel solito criptopatriottismo del cazzo), che farà la gioia di un vostro sabato sera pizza e dvd.
No, dài, sabato sera pizza e dvd no…
Domenica, ecco, domenica sera è meglio.
De sabbato vorei sentimme ‘n po’ più vivo, senza esaggera’, ma mmagari me ne vado ar cinema, ecco… La domenica sera sì, quella è proprio da cervello sur commodino vicino ar bicchiere colla dentiera e stato di coma neurovegetativo livello 5 (quello che ti fa credere che Die Hard su Italia1 sia una prima visione) davanti ar catodico…
Fin dai minuti iniziali la Bigelow catapulta lo spettatore sul campo di battaglia, nel bel mezzo di una missione al centro di Baghdad. La guerra in questo angolo di mondo è diventata un aspetto della quotidianità, ormai ci si convive, la si osserva freddamente dalle finestre e dai terrazzi. Il deserto, il silenzio e le macerie circostanti rendono il territorio spettrale, estraneo al resto del mondo, simile ad un paesaggio lunare sul quale gli artificieri (vestiti non a caso come astronauti) si muovono con cautela. Si recupera spesso un senso di morte che rimanda al visionario Full Metal Jacket di Kubrick, seppure la Bigelow prediliga un taglio (registico e narrativo) più realistico, costruendo solidissime sequenze d’azione tali da rendere lo spettatore “embedded”, direttamente sul campo, con tanto di meticolosi particolari e innumerevoli punti di vista (si stimano infatti più di duecento ore di girato prima della fase di montaggio). Il ritmo è solidissimo, i dettagli magistrali, le sanguigne riprese sono frutto di una macchina da presa violenta e brutale che inchioda allo schermo. Eppure non è l’ordinario cinema d’azione. L’obiettivo della Bigelow, magnificamente centrato, è piuttosto quello di ricreare un senso di perfetto realismo. La tensione si avverte in ogni momento e non cessa mai di alimentare ansia e angoscia. Accade però che non sempre, dopo una crescendo impeccabilmente costruito, la Bigelow giunga al punto di rottura. La sete di spettacolarità dello spettatore viene infatti frustrata, lasciando il posto ad un’azione che a volte implode su se stessa, piombando in un momentaneo nulla. È questo che rende la pellicola realistica, ambigua e imprevedibile come la vita, determinata solo da un angosciante e spaventoso “lancio di dadi” che casualmente decide: vita o morte.
Progressivamente la Bigelow abbandona il gruppo, concentrandosi sul personaggio di William James, perfetto prototipo di soldato, uomo deciso e temprato, che affronta senza remore ogni missione pericolosa. Egli è trattato a lungo come un modello di eroe da elogiare e come una figura su cui basare un’apologia del coraggio tutto americano. Eppure anche stavolta la Bigelow discende nell’ambiguità, costruisce esternamente il suo personaggio seguendo fedelmente il prototipo del perfetto militare a stelle e strisce (con l’ausilio anche di soluzioni registiche da rozzo film action hollywoodiano, come nel finale), ma nel frattempo lo scardina dall’interno, evitando la retorica, lasciando emergere sottilmente e sottointesa un’immagine desolante. La guerra forgia uomini incorruttibili, prima terrorizzandoli (si vive sulla difensiva, ogni civile deve tenersi a cento metri di distanza), poi logorandoli nella ripetitività quotidiana (la narrazione è un altro degli elementi inappagati del film) e infine rendendoli spietate macchine da guerra cui viene lavata via l’identità (bellissima e crudele la sequenza della doccia). Essi sono pedine spersonalizzate con l’uniforme come nuova pelle. Illusoriamente si credono immortali, pronte a sfidare in un delirio di onnipotenza il caso, la morte, il destino. Tutto si distrugge in questo luogo oltre i confini della Terra, lasciando solo una irrinunciabile droga a dare quell’adrenalina necessaria per sentirsi vivi: la guerra. Si entra così in una realtà virtuale, un gioco di ruolo. Si esce in battaglia e ci si posiziona, si attacca e ci si difende. Si fa fuoco. Si combatte. Si perde sangue. Si cade. Si muore.
“Grazie per aver giocato”. Game over.
imho un film indecente, mediocre e pure sbagliato dal punto di vista tattico. l’unica sequenza valida è quella tra i cecchini.
btw la moderazione dei commenti è FTL.
Mi aspetto un ottimo film, come del resto era quel “K-19″ che non è piaciuto a nessuno. Sciagurati.
“farà la gioia di un vostro sabato sera pizza e dvd.”
tiamotì (cit. U.Tozzi)
chi è che ha scritto il commento numero 2, Giona A. Nazzaro?
La Bigelow è un personaggio molto interessante, primo perchè sulla guerra ha le sue opinioni politiche (democratiche) e poi fa un film “repubblicano” (cosa che ci sta tutta, invero), e poi perchè incarna il sogno erotico nascosto del macho: un uomo con le tette e la fica.
ma guarda un pò !!!