ottobre 2008

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Friday Prejudice #144

[bentornata, oh divina divina]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice, YAWN

Vicky Cristina Barcelona, Woody Allen 2008

Vicky Cristina Barcelona
di Woody Allen, 2008

Un giorno della fine di Ottobre del duemilaotto, intorno alle 11 del mattino, Kekkoz cominciò a scrivere un post su Vicky Cristina Barcelona. Avendo deciso che era giunto il momento di prendere una posizione sul film, mentre fuori dalle finestre del suo ufficio il cielo tempestuoso si schiariva lasciando spazio a un malinconico azzurro autunnale, Kekkoz cominciò a scrivere la settima di quella che sarebbe divenuta presto una sequela di righe. Un carattere dietro l’altro, le sue dita correvano veloci sulla tastiera, e dopo nove righe, anzi alla fine della decima, si avvicinò per lui il momento della fine del primo paragrafo. Guardò il primo paragrafo che si concludeva, e lo trovò molto bello. Decise di fotografarlo.

Iniziò il secondo paragrafo con un tempo coniugato al passato remoto, e una terza persona singolare che, in realtà, non parlava di una persona esterna, ma non era che un gioco retorico per sfottere affettuosamente la scelta della voce fuori campo nell’ultimo film di Woody Allen, Vicky Cristina Barcelona, di cui il post non aveva ancora parlato affatto – nonostante si fosse già avvicinata la sesta riga del secondo paragrafo, ed essa fosse già scomparsa per far spazio a una settima che, anch’essa, sembrava proprio volersi eclissare a breve. Anzi, si era eclissata. Kekkoz rilesse il paragrafo e mezzo che aveva prodotto in quei pochi minuti. Ne apprezzò la correttezza sintattica, la vacua arguzia, ne corresse i refusi, lo fotografò. Sorseggiò la deliziosa acqua che la bellissima città di Milano, con il suo Duomo gotico e i molti negozi di moda, gli aveva offerto tramite una magica fonte tramite l’inserimento di una monetina, qualche minuto prima, e ruttò. Già che c’era, scattò qualche fotografia, a cazzo.

Dopo aver concluso il paragrafo centrale con una parolaccia, Kekkoz iniziò il terzo paragrafo, quello che generalmente tira i remi in barca e che conclude la faccenda, l’unico che generalmente la gente legge, ma si accorse che il paragrafo era già ormai iniziato da quasi quattro righe. Divertito dalla buffa contingenza, decise di farla finita, e stava concludere il suo post su Vicky Cristina Barcelona con il più classico e banale dei segni di interpunzione, quando effettivamente lo fece.

(ovviamente questo post è uno scherzo, ma non ho resistito) (il film in realtà non mi è dispiaciuto affatto: per chi lo volesse, un giudizio sommario è nei commenti)

Kung fu panda, Mark Osborne e John Stevenson 2008

Kung Fu Panda
di Mark Osborne e John Stevenson, 2008

Che non scorra buon sangue tra la Dreamworks Animation e il sottoscritto è cosa ben nota a chi sia passato da queste parti più di una volta o due. Dopo tutta l’infamia diretta agli studios di Shark tale e Madagascar, sono contento di poter fare un passo indietro, così come la DW sembra averne fatto uno in avanti. Perché Kung fu panda non era un progetto così facile.

Non tanto per via del crossover culturale – simile a quello già affrontato a testa alta dalla Disney dieci anni fa con Mulan – ma perché fin dal titolo si prefigurava la solita inevitabile puttanata furbetta à la Katzenberg. Invece Kung Fu Panda possiede la dote della riduzione ai minimi termini (i due sceneggiatori vengono da King of the hill, e fanno il loro porco lavoro), è disneyano nel senso migliore del temine, ineccepibile sotto il profilo tecnico, il solito insopportabile cast di attori famosi ha un inaspettato understatement (Jack Black, per dire, è gigione quanto il suo personaggio richiede, non un pelo di più), e soprattutto limita del tutto gli sculettamenti, gli ammiccamenti maliziosi, i soliti riferimenti alla peggio pop culture. Ed è anche davvero divertente, pieno com’è di complesse scene di combattimento tra animali – che nel peggiore dei casi non stufano, e nel migliore lasciano a bocca aperta.

Difficile cantare vittoria, comunque: sarò pure io che la vedo nera, ma a brevissimo uscirà il sequel dell’orrido Madagascar, e nei prossimi anni vedremo come minimo altri due Shrek "ufficiali", più uno spin-off, per non parlare del sospetto Monsters & Aliens (sembra davvero un clone tardivo), un film messo in mano ai due autori di Lilo & Stitch, e altre cosette simili. Kung Fu Panda rischia insomma di rimanere una piacevole eccezione.

Tropic thunder, Ben Stiller 2008

Tropic Thunder
di Ben Stiller, 2008

Sarebbe un errore ritenere che la stupidità e l’intelligenza non possano coesistere nella stessa opera cinematografica, che siano insomma due nemesi autoesclusive. Tonnellate di cinema demenziale apparterrebbero in tal modo alla categoria del paradosso, per non parlare della qualità degli elementi più riusciti. E se Tropic thunder è un film stupido, irresistibilmente stupido – basti pensare alla trivialità dei pedali che riesce a schiacciare per causare risate: peraltro riuscendoci un’alta percentuale di volte – è davvero impossibile non notare la raffinatezza con cui il film è pensato e realizzato. E la spregiudicata e intelligente stratificazione con cui riesce a rendere omaggio alla fabbrica dei sogni, e a demolire le sue basi dall’interno, la sua avidità e la vanità intrinseca entro cui l’industria del cinema è radicata, con esplosioni beffarde e deflagranti. Tropic thunder può fare quindi l’impressione di un radical chic che scoreggia, o di una barzelletta sconcia raccontata da un nobile miliardario tra le mura della sua tenuta: sta al pubblico accettare o meno il gioco, come già nel caso del film precedente di Stiller, Zoolander. Di cui Tropic Thunder è degno proseguitore: anzi, riesce spesso e volentieri a superare il suo cultissimo fratello maggiore. L’unica cosa certa infatti, in questo gioco di riconoscimenti e di contratti reciproci tra schermo e spettatore, è quella che sta davanti agli occhi, e che è davvero difficile negare: prima di tutto, dei production values favolosi (almeno per una commedia); poi, una sceneggiatura che non perde un colpo e che si discosta dai famosi tempi lunghi di Judd Apatow riaccelerando tutto d’un colpo la commedia americana: esordio come co-sceneggiatore dell’attore lynchano Justin Theroux; infine, un cast smisurato e incredibile, di cui tutti parlano da mesi, ma che fa meraviglie persino più di quanto ci sia aspettasse. E se è impossibile non citare il Kirk Lazarus di Robert Downey Jr., la vera sorpresa (circa: ormai se ne parlava da tempo, ovunque) è il Les Grossman di Tom Cruise: si sarà pure fottuto il cervello, ma con quattro mossette e una presenza scenica monumentale, Cruise ruba la scena a tutti.

Nota: il doppiaggio italiano fa meno danni di quel che temessi, appunto, perché il film è talmente riuscito sotto profili non-verbali da non risultare mai (troppo) maltrattato, e l’adattamento almeno rinuncia a inventarsi uno slang, come venne fatto in Zoolander (figoso, anyone?) nonostante si prenda comunque qualche libertà nel "forzare la mano" sui dialoghi. Molto sacrificato, come previsto, il personaggio di Robert Downey Jr.: non essendo la sua una macchietta "traducibile", in alcun modo, l’edizione italiana si limita a un vocione e a qualche "man!" ogni tanto. Ma poteva andare peggio, che so, potevano farlo parlare come Mammy di Via col vento. Vi invito caldamente a recuperare successivamente un’edizione originale, per potere godere appieno della sua meravigliosa meta-mimesi.

Redbelt, David Mamet 2008

Redbelt
di David Mamet, 2008

Sarà un bene o sarà un male, che un singolo personaggio riesca a "fare" un film che normalmente sarebbe potuto passare inosservato? In questo caso, a sollevare un film sportivo (o "d’ambiente sportivo") costruito sul classicissimo sviluppo triadico ascesa-caduta-riscatto? Non so bene, ma senza dubbio bisogna ringraziare Chiwetel Ejiofor: il suo Mike Terry è davvero una delle figure più belle del cinema americano recente. Un vero e proprio samurai urbano, ultimo e incrollabile araldo di una coerenza morale e di una purezza di spirito che l’avidità umana sembra aver spazzato via – e che è rimasta solo nei grandi maestri, nelle cinture rosse che di fronte a lui chinano il capo.

Certo, Mamet ha scritto un personaggio che intorno a Ejiofor calza alla perfezione – e la sceneggiatura fa dell’impeccabilità la sua arma migliore, cogliendone persino dove possa aver peccato di originalità o di credibilità. Ma è il trentaquattrenne attore inglese, che già diversi anni fa spiccava decisamente in Piccoli affari sporchi di Stephen Frears e che si sta facendo strada con ruoli sempre più importanti, a dimostrare una volta per tutte di che pasta è fatto. E cioè, non solo uno dei maschi più manzi del pianeta Terra, ma anche un attore di straordinaria sensibilità e profondità. Redbelt è un gran bel film, ma lo è, prima di tutto, grazie a lui.

Silenzio di tomba, brividi sulla schiena, e qualche campana che suona nella scena in cui Ejiofor "esorcizza" Emily Mortimer – magistrale per scrittura e interpretazioni, e obiettivamente tra le cose più emozionanti viste sullo schermo quest’anno. Se questo non è amor, Chiwetel, stab me with the knife.

Friday Prejudice #143

[vi dico come finisce: è stato stocazzo]

L’episodio 143 di Friday Prejudice, per dire.

Agente Smart – Casino totale, Peter Segal 2008

Agente Smart – Casino totale (Get Smart)
di Peter Segal, 2008

Su quanto io sia imbestialito, da tempo, con la carriera cinematografica di Steve Carell, credo di averlo detto fin troppe volte. Posso dire che Get Smart, pur non lasciandomi particolarmente entusiasta, riesce almeno nell’impresa di riappacificarmi – parzialmente – con l’attore americano. Che calza perfettamente nei panni di Maxwell Smart, creatura di Mel Brooks e Buck Henry che negli anni ’60 aveva il volto di Don Adams.

Prima di tutto perché gli permettono di sfogare del tutto il suo stile personale, costruito sul contrasto tra l’impostazione vocale e corporea impettita e improvvisi slanci di ira barra entusiasmo, con un misto di imbarazzo e spavalderia che riesce saggiamente a non spingere sul primo, più facile, tasto – evitando quindi l’effetto-replica del suo Michael Scott di The office o, peggio ancora, la più facile delle "apologie dello sfigato". Cosa che Maxwell Smart non è, grazie al cielo: la medesima differenza, oserei dire, che esiste tra il Fantozzi di Neri Parenti e quello di Luciano Salce.

Tutto intorno a lui, un filmetto piacevole e molto divertente, che d’accordo, non va da nessuna parte e forse nemmeno parte per andarci, ma almeno non fa l’errore di farsi cannibalizzare dal suo protagonista, azzeccando le "spalle" Masi Oka e Nate Torrence e piazzandogli accanto una Anne Hathaway talmente perfetta da impedire a me stesso di sostenere il contrario. E oppone al reboot del cinema spionistico attuale, di cui sono epitomi il Casino Royale di Martin Campbell e soprattutto la sublime serie Chuck sulla NBC, una prospettiva retrò, o vecchiotta che dir si voglia, che investe sia i modelli narrativi sia i meccanismi della risata.

Un cinemino da scaffale del negozio di modernariato, e come tale, tanto polveroso quanto rassicurante.

La classe, Laurent Cantet 2008

La classe – Entre les murs (Entre les murs)
di Laurent Cantet, 2008

La cosa che rende così speciale – e amato – Entre les murs, film che ha amichevolmente scippato a due meritevolissimi film italiani la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, oltre alla freschezza e alla riuscita di una sfida effettivamente difficilissima, è forse il modo in cui si giostra tra i diversi linguaggi audiovisivi. Pur sembrando a prima vista un’opera facilmente inquadrabile, e magari assimilabile ad altre ambientate nelle classi scolastiche (come La scuola di Luchetti, con il quale ha somiglianze del tutto superficiali ma assai interessanti) il film di Cantet è infatti tutt’altro. Prima di tutto, come si sa, è progettato più come un laboratorio teatrale che come un film vero e proprio. Inoltre, a livello produttivo sembrerebbe ammiccare al mondo del documentario più che a quello della fiction. Ma proprio di fiction, purissima, si tratta, e inoltre il risultato ha una compattezza e una lucidità impressionanti, grazie alle quali si trasmette in modo immediato, anche se complesso e a volte impietosamente diretto, un’immagine di un conflitto sociale inedito.

Quello che si svolge, verticalmente, tra due generazioni vicine eppure incapaci di ascoltarsi. E quello che si svolge, orizzontalmente, tra i diversi volti e accenti della classe, in una periferia in cui l’integrazione c’è, o dovrebbe esserci, ma appare sempre più come un sogno o un’illusione, lo specchietto per le allodole turistiche delle comunicazioni ministeriali – quando basta una bocciatura per ritrovare, a 13 anni, la fine della speranza in un cambiamento, la strada di una casa lontana e inospitale. Un conflitto di cui i ragazzi sembrano essere quasi più consci che i loro professori, confinati all’angolo e senza più un vero "potere" a marginare il loro potere dissacrante, che è anche quello di una maggioranza abituata a essere silenziosa. E senza più nulla, nulla da insegnare – né, in definitiva, nulla da imparare.

Un conflitto che si svolge, nel coerentissimo affresco di Cantet, sempre e comunque tra le quattro mura. Al di fuori delle quali, il mondo è accennato soltanto dai riflessi riscontrati nella vita scolastica – è qualcosa che non esiste, è quasi antimateria. E’ un controcampo negato, ma per il quale, ugualmente, ci preoccupiamo e soffriamo insieme a François Bégaudeau, alla sua classe terza, a un’aula vuota e incasinata dove, l’anno successivo, si ripeterà tutto da capo, di nuovo. Senza più un senso.

Zohan, Dennis Dugan 2008

Zohan (You don’t mess with the Zohan)
di Dennis Dugan, 2008

Far ridere non è una cosa da poco. Far ridere in modo intelligente e maturo tanto meno, ovvio. Ma a volte ci si può accontentare di una risata più grassa, o dai contorni meno smussati. E per fare ciò, insegna la storia della commedia cosiddetta "demenziale", a volte è possibile anche venire a patti con i limiti del proprio gusto, o del proprio buon gusto. Dunque, Zohan, che è un film sciocco quando non idiota, con un protagonista repellente, storicamente superficiale e superficialmente conciliatorio, può rispondere ad altro che non alla sua capacità di far ridere?

Probabilmente no, ecco. Ma importa poco, visto che di questa capacità ne ha da vendere: un film volgare, triviale, scemo, d’accordo, ma anche sanamente svergognato, ed energicamente puerile. Adam Sandler azzecca una mimica, una parlata, e un’indole sporciacciona ed eroicamente ignorante, e le porta alle estreme conseguenze: il resto lo fa la curiosa sceneggiatura, in cui l’apporto di Judd Apatow si sente, e va ben oltre la solita onnipresente fallofilia. E nonostante il film sia lungo, lunghissimo, direi pure troppo lungo, le gag sono tirate assai meno per le lunghe, rispetto alla media – il che significa di conseguenza che ce n’è una maggiore quantità, e (aggiungo io) che sono tendenzialmente più efficaci.

Assolutamente impensabile e assurdo vedere un film del genere, che vive i suoi momenti migliori proprio sulla comicità verbale, in una lingua che non sia quella in cui è stato concepito, e girato. E io che lo dico pure come se fosse un’eccezione.

Donkey Xote, Jose Pozo 2007

Donkey Xote
di Jose Pozo, 2007

Immagino che per uno studio d’animazione europeo (come l’iberica Filmax, che ha prodotto il film insieme agli italiani Lumiq) sia grande, e inevitabile, la tentazione di andare al di fuori delle applicazioni quotidiane, nell’ampia gamma che va dalla pubblicità ai cortometraggi, sfidando magari i campioni d’incasso d’oltreoceano con le loro stesse armi. Ma i risultati sono, nella maggior parte dei casi, fallimentari.

Non fa eccezione questa co-produzione tra Italia e Spagna, artisticamente molto più vicina alla seconda che a noi. Un Don Chisciotte raccontato dalla prospettiva equina: se l’idea non era del tutto malvagia, anche a costo di volgarizzare in modo becero e del tutto incontrollato l’opera di Cervantes, il risultato lascia del tutto a desiderare. E prima di tutto perché cerca di funzionare, da parassita, sulla base di simpatie pregresse – cibandosi fin dalla prima inquadratura dei resti di Shrek. Rucio non è che una replica malriuscita dell’insopportabile ciuco della Dreamworks? Passi replicare i personaggi, ma perché replicare i peggiori?

Con tutta la simpatia che l’operazione può suscitare, Donkey Xote è semplicemente un brutto film, e un film che vorrebbe far ridere a tutti i costi e non lo fa. Ma nemmeno sorridere. Ci si estende, al massimo, da un quieto fastidio al ben più fastidioso imbarazzo.

Nelle sale dal 31 Ottobre 2008

Friday Prejudice #142

[mani in alto, bitch]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice, orsù.

Cous cous, Abdellatif Kechiche 2007

Cous cous (La graine et le mulet)
di Abdellatif Kechiche, 2007

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2007, il film di Kechiche è l’opera che, secondo molti, avrebbe dovuto uscirne vincitrice – mentre come sappiamo dovette accontentarsi di diversi premi secondari, mentre quello principale andò a Lust, caution di Ang Lee. E l’alone di entusiasmo critico che circonda da allora il film, e che l’ha portato a vincere una miriade di premi, tra cui 4 César, non è per nulla ingiustificato.

La graine et le mulet è infatti un film straordinario. E nel senso letterale del termine: così come costruisce l’impressione di un’opera ordinaria, dal profilo europeo e dal sapore mediterraneo, sa poi prendere strade del tutto inaspettate, sorpassando e travolgendo le aspettative del pubblico. Te ne accorgi quasi subito, con quelle chiacchierate lunghe, lunghissime interminabili, intorno al tavolo – che, nella prima parte, funzionano quasi come un ripensamento della metodologia di presentazione dei personaggi. O nel modo in cui si palesa sullo schermo Rym – mangiando cous cous con le mani, succhiandosi le dita. Ma potrebbe essere tutto qui.

E invece, senza paura di dare fiducia a chi assiste (una cosa rara in un cinema come quello europeo che spesso dà l’impressione di sentirsi intellettualmente superiore allo spettatore) attraverso alcune libertà espressive e sintattiche, con una narrazione che si fa via via più serrata, si arriva a una seconda parte incredibile, di grande compattezza narrativa nonostante il numero di personaggi coinvolti, in cui si crea una tensione quasi palpabile da cui è davvero difficile fuggire. Fino a un quarto d’ora finale che lascia senza fiato, e a una chiusa improvvisa e crudele – o forse semplicemente inevitabile, per come è fatta la vita, e quel beffardo equilibrio che tiene insieme il mondo.

Assolutamente impressionante la prova d’attrice della giovane esordiente Hafsia Herzi, premiata a destra e a manca, più per il suo dialogo con la madre davanti alla finestra che per la sua sensualissima danza (annunciata dai poster spoilerosi). Da veri brividi sulla schiena, invece, sia per la performance in sé sia per la scelta testarda e coraggiosa di mantenerlo integrale e senza stacchi, il monologo urlato, quasi insostenibile, di Alice Houri.

WALL·E, Andrew Stanton 2008

WALL·E
di Andrew Stanton, 2008

Non c’è gusto, con la Pixar. Davvero, è troppo facile. Entri in sala convinto di vedere un capolavoro? Lo è. Verrebbe quasi voglia di scrivere la parodia di una stroncatura, per dare vita a un post sostanzialmente inutile qual è questo. Perché è inutile che io vi dica che WALL·E è un capolavoro, lo sapete già tutti benissimo. Sia voi che fate tanto gli strettini, sia voialtri che vi riempite la bocca di questa parola. E anche in senso negativo, per esempio "non è un capolavoro, ma non è male". Ma chiaro, che non è un capolavoro. Quasi niente lo è. Di capolavori, ne escono pochini. Questo è uno, per dire.

La Pixar vi ha fregati, ancora una volta, ci ha fregati tutti. E stavolta voglio proprio vedere cos’avete da dire, di fronte a un film che – stavolta davvero – è più un punto d’arrivo che una conferma, che è la sintesi perfetta di pulsione artistica e dinamiche industriali, di perfezione narrativa e di coraggio sperimentale, di favola pura e di distopia visionaria come non se ne vedevano da anni. La dimostrazione che questa sintesi esiste, eccome. E si propaga in ogni singola inquadratura, fin dall’inquietante incipit in cui l’atmosfera con i suoi satelliti morti viene penetrata dalla macchina da presa, a rivelare un mondo abbandonato, color terriccio, in cui i detriti della nostra civiltà divengono gigantesche torri di babele, ma senza più lingue da parlare né, quasi, un cielo da toccare.

Ma quello che sapevamo di WALL·E, a memoria, da mesi, finisce dopo una mezz’ora. E lì—–*

Un film talmente bello e perfetto da sembrare il risultato di un patto col diavolo. E non c’è che dire, WALL·E val bene un’anima o due.

Nelle sale dal 17 Ottobre 2008

*in questo punto ci potrebbero stare almeno due o tre lunghi paragrafi in cui si chiacchiera tenendo conto di quello che accade dopo mezz’ora di film, ma ho deciso di cavarmi dall’impiccio invocando il demone dello spoiler alert: spero non me ne vogliate.

Stuck, Stuart Gordon 2007

Stuck
di Stuart Gordon, 2007

Tre anni fa alla Mostra del Cinema vedemmo ricomparire davanti a noi Stuart Gordon, indimenticato regista di Re-animator, che negli anni ’90, come alcuni suoi noti "vicini di banco", si era perso per strada a causa di progetti a lui poco affini o semplicemente malriusciti. E lo fece con Edmond, un film piccolo ma sorprendente divenuto in breve tempo un piccolo oggetto di culto, forse a prescindere dai suoi meriti oggettivi.

Stuck è però la conferma che Stuart Gordon è vivo e lotta con noi: non fa nulla di più che sviluppare un assunto narrativo creato ad arte, ma lo fa con la precisione di chi il cinema di genere lo mastica, lo respira e lo sputa da sempre, e non ha paura dell’invasione incessante del brutto cinema di genere straight-to-dvd. Perché Stuck sarà un piccolo film: ma è cinema, eccome. E in un certo senso, il suo sforzo di rendere coesa e interessante una storiella bizzarra che sembra uscita dalle pagine del vecchio Splatter (un impiegato disoccupato che rimane incastrato nel parabrezza di un’infermiera, che si rivela assai poco buona e ancor meno samaritana) non è che una spiccata forma d’ambizione. E nemmeno delle più involute.

E Gordon riesce, apparentemente senza sforzi, a tratteggiare un altro riuscito ritratto di alienazione urbana – in definitiva, anche piuttosto estremo. Oltre, ovviamente, a farci divertire come degli idioti.

Il dvd USA è già in mercato, quello per la nostra regione non ancora – ma entro tot dovrebbe uscire quantomeno un’edizione francese. Non è prevista al momento, che io sappia, alcuna data d’uscita in Italia: tenete conto che Edmond ci ha messo un anno e mezzo abbondante. Fate i vostri conti.

The mist, Frank Darabont 2007

The mist
di Frank Darabont, 2007

C’era un periodo in cui i film tratti da Stephen King spuntavano come funghi. Con una notevole dose di approssimazione, si può dire che King è stato per gli anni ’80 quello che Philip Dick divenne poi per gli anni a cavallo tra i due secoli. In un certo senso, forse, anche perché i tratti più riconoscibili della sua letteratura (per esempio la contestualizzazione dell’epifania soprannaturale all’interno di ambiente di provincia, marginale si può dire, leggi Castle Rock et similia) sembrava adattarsi alla perfezione alle contraddizioni del decennio reaganiano. King era, insomma, una fonte inesauribile di spunti. Che non si sono infatti esauriti, se non nell’interesse che meno autori hanno dimostrato per il loro recupero. Tra cui Darabont, bravissimo sceneggiatore e regista capace, che già altre volte si era confrontato con lo scrittore, con risultati altalenanti.

Chiedersi se King può vivere ancora oggi sugli schermi di genere del cinema americano è la stessa cosa, circa, che chiedersi se gli Stati Uniti d’America siano cambiati o meno, in questi anni. In meglio, o in peggio. La cosa più stupefacente del film di Darabont, invece, è il modo in cui sopperisce ai suoi limiti produttivi facendo quello che il miglior cinema di genere ha sempre fatto in questo senso – ovvero parlando chiaro, e portando il proprio discorso fino in fondo. In questo caso, trovando tra le pieghe di un racconto che altri registi (Carpenter in primis, omaggiato tramite la vistosa apparizione della locandina di The thing nell’inquadratura iniziale) avrebbero adattato in tutt’altro modo, una strada quasi del tutto personale per parlare, con una chiarezza cristallina che viene portata agli estremi e diventa persino violenza espressiva, della mentalità americana. Utilizzando (ancora) le spietate dinamiche di comunità (con una resa narrativa della claustrofobia sociale che spaventa ben più di quattro scorpioni alieni), e soprattutto i temi di natura vs cultura, e della paura – o meglio, del terrore di ciò che non si riesce a vedere né a comprendere, che sfocia, con un’immediatezza terrificante proprio perché votata a un realismo inatteso e ripagante, nel misticismo.

Già in questo suo aver reso così straordinariamente attuale un racconto di un quarto di secolo fa, Darabont ha vinto la sua sfida. E in più, ci ha regalato un film ben riuscito, che gioca scaltramente con la tradizione del cinema "b" permettendosi di non lasciare alcuno spazio a false speranze, e mostrandosi persino sadico (di sicuro più della media) nel suo rapporto con i personaggi e con le simbologie, individuali e sociali, che si portano appresso. Davvero tosto.

[post in attesa]

Friday Prejudice #141

[fràidei prègiudiss]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online, right now.

(sì, scusate, la foto non c’entra nulla e l’ho già postata sul tumblr, ma mi fa troppo ridere)

Mamma mia!, Phillida Llyod 2008

Mamma mia!
di Phyllida Lloyd, 2008

Ci sono cose che in un film faccio veramente fatica ad accettare. E il film tratto dall’omonimo spettacolo teatrale, ispirato a sua volta alle canzoni degli ABBA, ne è una buona antologia. Perché una cosa è la difficoltà di una regia, magari inesperta, a trovare un’idea, un progetto da portare a termine, o almeno una strada da intraprendere. Si può perdonare, la disattenzione. Certo, magari a patto di trovarsi di fronte a un film riuscito, o quantomeno divertente – cosa che Mamma mia! non è.

Altra cosa invece è che della regia, di una qualunque regia, si senta la totale assenza. Mamma mia! è un film in cui sembra succedere tutto a casaccio. E probabilmente è proprio così. Basta vedere il modo in cui sono organizzate le scene musicali, di una legnosità sconcertante – e non parlo solo del profilmico, che è imbarazzante approssivamente quanto atteso da copione, e che fa persino meno danni del previsto. Parlo della messa in scena, della direzione degli attori, e di tutto ciò che competerebbe ad un regista, e che qui è completamente messo da parte. Inesistente. Nella convinzione errata, mostruosamente quanto banalmente errata, che una ventina di canzoni e il carisma di quattro attori possano bastare a sé stessi.

Ma diamine, queste sono lezioni che la produzione di un musical per il grande schermo dovrebbe aver ormai imparato – come ha fatto la maggior parte di esse: non tutto ciò che funziona sul palco funziona sullo schermo. Il testo va ripensato, non basta cambiare gli attori e metterci quattro nomi di grido, magari giocando furbescamente sul loro essere del tutto inadatti al ruolo musicale, e illuminare tutto con un’orripilante fotografia da cartolina. Non è una questione di valore aggiunto: sono testi diversi, che lavorano con linguaggi diversi. Il climax di questo approccio malato al testo d’origine è Meryl Streep che canta The winner takes it all sulla roccia: immobile come uno stoccafisso, con due o tre movimenti di macchina, e Pierce Brosnan che sta lì e se la ascolta tutta.

L’edizione italiana ce la mette tutta per inasprire una pillola già amara, ma il problema non è il doppiaggio, ma sta alla radice, ed è un problema di progetto, di concetto. Oltre che di risultati, va da sé: due palle così. Ma chi lo vuole vedere un film in cui per metà secca del tempo – e non credo di esagerare – tutto ciò che vediamo sullo schermo sono personaggi che si danno il benvenuto e si salutano urlando?

Menzione d’onore per il petto di Amanda Seyfried. E io che non credevo più nel potenziale sessuale del costume intero. Stolto.

Friday Prejudice #140

[meet me on my vast veranda]

C’è anche questo popò di ragazza nel nuovo episodio di Friday Prejudice.

Il matrimonio di Lorna, Jean-Pierre & Luc Dardenne 2008

Il matrimonio di Lorna (Le silence de Lorna)
di Jean-Pierre & Luc Dardenne, 2008

Euro. La prima inquadratura di Le silence de Lorna mostra la protagonista mentre conta dei soldi. E’ di fronte a un ufficio bancario. Parla con il commesso di un prestito che potrà fare, perché sta per diventare belga. La ragazza ha un accento straniero, dell’Est Europa – giustamente conservato nell’edizione italiana. Questo è solo un esempio, e uno dei pochi affrontabili con tale distacco, della maestria dei Dardenne. Roba da manuale, si potrebbe dire: eppure in pochi secondi non veniamo soltanto inseriti in un contesto (sappiamo che la protagonista è straniera, che è si sposata per il visto, che ci troviamo in Belgio, che c’è in gioco una somma di denaro), ma ci troviamo immediatamente di fronte a una figura che sarà il nucleo semantico di tutto il film: il denaro – e più precisamente l’Euro. Nonostante gli individui siano sempre al centro della loro riflessione, mai come in questo caso infatti il cinema dei Dardenne è inserito in un contesto sociale più ampio ed espanso, che si concentra non solo i rapporti tra i personaggi e tra i personaggi e l’ambiente, ma anche tra gli ambienti stessi, regalando un’immagine dei "confini umani", e – appunto – della loro mercificazione, che mette i brividi.

Il secondo colpo da maestri dei due registi è lo scarto ellittico che accade a metà film. Un vero e proprio singhiozzo narrativo, che fa il rumore straniante e surreale di un vinile che salta per un colpo di tosse (o un colpo al cuore), e da cui si dipana una seconda parte che, discendendo nell’inferno personale di Lorna, non lascia più alcuno scampo – ai suoi personaggi e allo spettatore. E al di là dell’effettiva e impressionante precisione con cui è concepito e realizzato questo film, crudele e spietato come in passato (forse di più) e a tratti persino più rigoroso, è impossibile prescindere dall’impatto emotivo che suscita la performance della ventinovenne Arta Dobroshi. Un’attrice semi-esordiente che riesce con la sua interpretazione (e con il suo ruolo: va detto, a onore di una sceneggiatura impeccabile come un dramma sociale e implacabile come un noir) a fornire un totale ribaltamento dei meccanismi empatici che sono in gioco generalmente con film simili – prima nella dimostrazione di un’amore improvviso e letteralmente impellente che travolge l’impossibilità della felicità che si leggeva nel suo sguardo in tutta la prima metà del film, sia nella sua graduale e tragica perdita di consapevolezza.