Pineapple Express, David Gordon Green 2008
Pineapple Express*
di David Gordon Green, 2008
Come ci sia finito il regista di George Washington e All the real girls a dirigere una stoner comedy, è materia di discussione ormai da parecchio tempo – e sono sicuro che molti fan dell’autore saranno delusi a prescindere da questa svolta nella sua carriera. La vera sorpresa – ma fino a un certo punto – è che Pineapple express è effettivamente un gran bel film: una volenterosa summa creativa dello stoner film come sottogenere (che l’uso della cannabis non sia un pretesto narrativo lo dimostra lo spassoso incipit con il solito Bill Hader) a cui viene aggiunta una dignità artistica che altrove poteva difettare.
Ma anche il frutto definitivo del lavoro svolto dal produttore Judd Apatow sulla commedia demenziale dai tempi di Anchorman – e tra i risultati migliori della sua prolifica factory. Ponendosi come seguito ideale del già riuscito Superbad, anch’esso scritto – e altrettanto bene – dal talentuoso Seth Rogen insieme a Evan Goldberg, e basato sulle medesime dinamiche da buddy movie, lo supera spesso e volentieri per la tenuta del racconto, per il modo inaudito con cui vengono costruiti i rapporti tra i personaggi – tra cui spiccano due cattivi inusuali il cui misto di crudeltà e assurdità ricorda i bei tempi di Tutto in una notte di John Landis – e per la presenza irresistibilmente naif di James Franco.
Impossibile citare a casaccio da decine di dialoghi spassosi e brillantissimi, costruiti (come da manuale apatowiano) sul rilancio e sull’insistenza più che sul singolo aforisma: ma aggiungono energia alla formula, non la trasformano nella solita collezione di scenette e frasi da ripetere a cena con gli amici. Permettendo così a Pineapple express di diventare uno dei film più divertenti della stagione. E assai meno stupido di quanto pensiate.
Nei cinema dal 28 Novembre 2008
*nota: il film esce nelle sale italiane con lo sfortunato titolo Strafumati, che prosegue la tremenda stragegia distributiva che Sony Pictures Italia aveva già tratteggiato con Suxbad, e sempre a danno di Judd Apatow e amici suoi. Un titolo talmente imbarazzante e brutto, che, se permettete, preferisco scriverlo solo qui sotto in piccolo.
La giusta distanza, Carlo Mazzacurati 2008
La giusta distanza
di Carlo Mazzacurati, 2008
Uscito ormai un anno fa nelle nostre sale, il dodicesimo film di Carlo Mazzacurati parla di diversità e adattamento, di inclusione ed esclusione all’interno di una piccola comunità nella pianura veneta ma, a differenza delle pieghe sociali che altri film italiani avrebbero potuto esaminare, e in curiosa concomitanza con il coevo La ragazza del lago di Molaioli, La giusta distanza viene "sporcato" (benevolmente) da una sorta di trama gialla – che interviene però oltre la metà film.
Un film che coccola non senza una certa scaltrezza il pubblico italiano, fornendo scenari riconoscibili quando non comunissimi, al confine con la macchietta: il commerciante arricchito e un po’ puttaniere, il bel ragazzo sempliciotto, l’unico immigrato che il paese ha accettato ma che guarda ancora con sospetto e pregiudizio. Ma nel raccontare questa terra solitaria e assurda, disperata e assorta, che ben conosce, il regista padovano mostra esplicitamente di voler seguire il procedimento che mette in bocca a Bentivoglio come "giusta distanza", che permetterà – oltre che al regista stesso di confezionare un film assolutamente riuscito – al giovane Giovanni di risolvere il caso
Ne deriva un taglio ancor più profondo e doloroso: Mazzacurati guarda alla periferia ora con l’affetto e l’empatia che sono necessarie a comprenderla, ora con lo spietato distacco che ha il rumore di una fuga e il sapore di una condanna – ancor più dolente, perché è la distanza giusta, ma una distanza che proviene da un abbraccio. Una condanna che riguarda tutti: colpevoli, ognuno del proprio delitto (foss’anche nei confronti di sé stessi), o innocenti. Una condanna scritta con l’infelicità ancor prima che con il sangue, e un’infelicità di fronte a cui l’unica soluzione è: scappare. Chi lascia la strada vecchia per la nuova, fa bene.
The strangers, Bryan Bertino 2008
The Strangers
di Bryan Bertino, 2008
Quella di Bryan Bertino, regista oggi trentunenne, è davvero una storia curiosa: fino a poco tempo fa era un tecnico delle luci, laureato in cinema all’Università del Texas con l’hobby della sceneggiatura. Uno di quei rari casi di sceneggiatore che ce la fa. Nel tempo libero infatti Bertino scrive sceneggiature, e una di queste (quella di The strangers) riesce ad arrivare sulla scrivania della Universal. Ma la fortuna non finisce qui: il film dovrebbe essere diretto da Mark Romanek, ma quest’ultimo chiede troppi soldi. Così, i distributori della Rogue decidono di affidare la regia all’inesperto ma promettente Bertino.
La storia è ancora più curiosa trovandosi di fronte al film: che a dispetto delle premesse non sembra affatto l’opera prima di un giovane gaffer approdato violentemente alla regia. Bertino è anzi senza dubbio un grande conoscitore della materia, e il suo The strangers, pur scontando le grandi ingenuità che una storia del genere non può accantonare – si tratta di un tipico thriller d’assedio, ridotto completamente all’osso: una casa isolata, due vittime, n carnefici – raggiunge l’obiettivo primario (quello di spaventare) con una facilità sorprendente.
Certo, gli 87 minuti, ahinoi, si sentono: la tensione non infatti è sempre all’altezza della prima massacrante mezz’ora (con un uso del sonoro davvero da manuale, sia nei più tradizionali spaventi che nei contrasti musicali: per esempio, l’uso di Sprout and the Bean di Joanna Newsom) e una volta che le carte sono state scoperte non rimane troppo da dire. Ma lo sguardo di Bertino sulle reazioni umane, da una parte, e sull’horror psicologico stesso dall’altra (con le insistenti domande dei due protagonisti, destinate a non trovare risposta perché non c’è), è intelligente, dissacrante, cinico, e – una volta tanto – più autenticamente crudele che simpaticamente beffardo.
Dietro la maschera da bambola si nasconde la stupenda modella australiana Gemma Ward. Va bene, ma la prossima volta ce la fate vedere?
Il film dovrebbe uscire in Italia il 2 Gennaio 2009.
Costato 10 milioni di dollari, ne ha guadagnati 75: inevitabile il sequel, in uscita nel 2010.
Let the right one in, Tomas Alfredson 2008
Let the right one in (Låt den rätte komma in)
di Tomas Alfredson, 2008
Non è un segreto: molte delle cose scritte da queste parti, che vi piacciano o meno, non sono frutto di particolari ragionamenti o riflessioni. Le ragioni sono molteplici, ma la principale è la più ovvia: ho sempre pochissimo tempo, e spesso e volentieri la voglia è altrettanta. Poi, una tantum, appare un film per il quale vorrei tirare fuori un cartello come Wile Coyote, o luminose insegne provvisorie al neon che urlino va bene però adesso fermatevi e leggete questo. Per una volta, mi sono interrogato persino su quale fosse il momento ideale per scrivere affiché il post su Let the right one in non passasse del tutto inosservato (forse il martedì mattina?) ma poi, come si può evincere da questo primo fallimentare paragrafo, mi sono reso conto che non avevo proprio idea di cosa diavolo dire.
No, davvero. Ricominciamo.
Se la vitalità del cinema nordico non è certo una sorpresa per chi sa guardarsi un po’ in giro, l’apparizione di un film romantico sui vampiri di nazionalità svedese potrebbe esserlo. In realtà, chiunque segua i più letti siti e blog di cinema in lingua inglese – alcuni dei quali hanno fatto della promozione del film una sorta di deliberata e doverosa crociata – ha sentito parlare di Let the right one in ormai fino allo sfinimento. Infatti, fin dalla sua premiere al festival internazionale di Göteborg da dove si è portato a casa miglior film e miglior fotografia, il film di Tomas Alfredson non ha mai smesso di vincere premi principali un po’ ovunque: Tribeca, Neuchâtel, Edimburgo, Woodstock, il Fantasia di Montreal, il Fantastic Fest di Austin, persino il coreano PiFan. Qual è la ragione di questo successo? Semplice: Let the right one in è un film meraviglioso.
E ci ho messo due paragrafi a dirlo. Sarà una cosa lunga. Dunque.
Per raccontare il film di Alfredson userò le parole che sto usando per invogliare tutte le persone che conosco a recuperarlo, a vederlo, oppure anche semplicemente ad aspettarlo: "è una storia d’amore tra due dodicenni: Oskar è tormentato dai suoi compagni bulli, Eli è un vampiro". Raccontato così, però, il film rischia di essere confuso con una cosa alla Angela Sommer-Bodenburg o, peggio ancora, alla Stephenie Meyer – disguido aggravato dall’avvento di Twilight in sala. Ma in realtà, Let the right one in è quanto di più lontano dal cinema per ragazzi nonostante i protagonisti siano preadolescenti, e non fa per nulla leva sull’appeal un po’ modaiolo che il cinema dei vampiri ha recuperato negli ultimi tempi – e di cui la buona serie True Blood è un’esempio calzante.
E oltre a essere un’esperienza visiva assolutamente entusiasmante e ipnotica, tutta giocata – da manuale – sul contrasto tra il bianco delle distese di neve e ghiaccio della periferia di Stoccolma e il colore acceso del sangue, e su un ritmo pacatissimo e quieto fino all’inquietudine spezzato alcune pennellate di violenza che sconvolgono proprio per il loro rifuggire del tutto l’affiliazione a un canone o a uno stile predefinito (almeno, nel campo del cinema horror), Let the right one in è davvero un viaggio affascinante, profondamente morale e a tratti decisamente disturbante, all’interno delle radici stesse della fascinazione del Male. Un film in cui i confini morali che caratterizzano il romanzo di formazione svaniscono spazzati via da una storia d’amore che mescola e intreccia scoperte come la passione, l’autodifesa, la morte.
Ma non dimentichiamo che il film, nonostante sia caratterizzato da una compattezza rara, supportata alla perfezione dalla compassatezza della messa in scena, possiede alcuni pezzi di bravura – già chiacchieratissimi – che lasciano senza parole, quando non senza fiato. Come il primo incontro tra Oskar e Eli, nel giardino di casa. Oppure come i due finali: il primo, che riesce a rileggere – non senza una buona dose di furbizia – l’utilizzo del fuoricampo e del non-mostrato nel cinema del terrore (e terrorizzando come non mai) e il secondo, l’inquadratura finale, stupenda e dolcissima, di grande intelligenza narrativa e disperatamente romantica.
In definitiva, uno dei film più belli e sconvolgenti dell’anno. Ecco tutto.
Il film è uscito in patria alla fine di Ottobre, parteciperà Fuori Concorso al Festival di Torino alla fine del mese di Novembre, e se tutto va bene dovrebbe uscire in Italia all’inizio del prossimo anno. Siete avvertiti fin d’ora.
[it's a celebration, bitches! enjoy yourselves!]
Il nuovo episodio di Friday Prejudice, ora anche barely legal.
Quantum of solace, Marc Forster 2008
Quantum of Solace
di Marc Forster, 2008
La prima cosa che si vede in Quantum of solace è il Lago di Garda, la seconda cosa sono le gallerie di Limone. Bene. Ma una volta sgomberato l’interesse ossessivo dello spettatore benacense – dopo poco Bond è già a Siena, e Dio solo sa come diavolo ci sia arrivato – ci si trova di fronte al film, purtroppo. Perché se Casino royale aveva fatto ben sperare sulla tenuta dell’era Daniel Craig, il passaggio di consegne da Martin Campbell a Marc Forster ha significato una visibile caduta qualitativa.
Il problema principale di Quantum of Solace è che non ci si capisce una beneamata mazza, perché tutti gli sforzi sono protesi a realizzare sequenze d’azione il più cazzute possibili. Quello che succede tra un inseguimento / scazzottata / sparatoria e l’altra, oltre ad agganciarsi al film precedente come farebbe il secondo capitolo di una trilogia (oh, questo film è un sequel, se non avete visto Casino Royale l’altro ieri vi auguro buona fortuna), è del tutto campato per aria. Si può uscire da un film che si chiama Quantum of Solace senza aver capito nemmeno cosa cazzo sia, non dico il solace, ma il quantum? E comunque, nonostante qualche bella intuizione visiva, anche le suddette sequenze d’azione non è facciano faville – tutte stunt e dettagli stretti: insomma, un caos ben poco organizzato.
Quantum of Solace poi rappresenta il compimento del peggior uso delle location possibile, quello che mescola basso folklore e mera pretestualità. Per capirci, il film è strutturato così: Bond arriva in un luogo del mondo, appare una scritta con il nome del luogo, immagini caratteristiche (Siena = palio, Port au prince = panni stesi), succede qualcosa di violento, poi arriva un personaggio e spiega velocemente un pezzo di trama, altra eventuale scena violenta, e via nella prossima location, e si riparte da capo. Tutto così. Che palle.
[just so you know, I can't be your friend]
(per dire che prima o poi sarebbe il caso che vi parlassi di Let the right one in)
Futurama: Bender’s Game, Dwayne Carey-Hill 2008
Futurama: Bender’s Game
di Dwayne Carey-Hill, 2008
E siamo a tre. Dopo Bender’s big score e The beast with a billion backs, arriva puntuale il terzo dei quattro film straight-to-dvd che compongono la quinta non-stagione della fenomenale serie creata da Matt Groening nel 1999. Che rende chiara una cosa, una volta per tutte: un’attesa smisurata nei confronti di questi lungometraggi può essere controproducente, visti i risultati.
Capiamoci bene: Bender’s game è assolutamente imperdibile, come le altre volte. Il discorso è sempre lo stesso, insomma: Futurama è un prodotto talmente ricco e unico nel suo genere, talmente maniacale e complesso, talmente culturalmente stratificato, da far perdonare il fatto che questo ritorno non sia stato (e non sia) (e probabilmente non sarà) tutto all’altezza di Bender’s big score. Che forse ci aveva abituato troppo bene, da principio: Bender’s game è persino, almeno a una prima distratta occhiata – alla quale ne seguiranno sicuramente altre, perché sennò si sta a secco fino a Febbraio 2009 – il più debole dei tre. E alcune gag (quella dei tre Stooges e il Wipe Castle, per dirne due) davvero non funzionano. Ma forse è solo perché qui si vanno a toccare più direttamente i nerdoni che hanno fatto la fortuna della serie, soprattutto agli appassionati di fantasy: in particolare, di Tolkien e di D&D, il cui creatore Gary Gygax, scomparso lo scorso Marzo, è omaggiato esplicitamente.
Tutti gli altri si possono accontentare, se così si può dire, del solito susseguirsi di situazioni che hanno fornito a Futurama uno dei culti più meritati dell’animazione contemporanea. La trama, notevolmente più compattata e semplificata che negli altri due film, abbassa notevolmente le ambizioni e si suddivide in due parti: dire di più sarebbe un delitto. Rivelazioni incredibili degne di una soap (soprattutto sul passato di Farnsworth e di Nibbler), irresistibili versioni "fantasizzate" dei personaggi della serie, robot picchiatelli (influenza inconscia di WALL-E?), una Amy Wong a piccole dosi ma più fica che mai (garantisco), e il solito vecchio Bender. Come si fa, a prescindere, a non amarlo?
Il DVD inglese è già disponibile, da noi esce il 26 Novembre.
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, Steven Spielberg 2008
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull)
di Steven Spielberg, 2008
Da eterno difensore dell’opera di Steven Spielberg, non solo tra le figure più fondamentali dell’industra del cinema statunitense ma regista straordinario dagli anni che chiusero l’era della New Hollywood (inutile citare i titoli immortali da lui diretti a cavallo tra gli anni ’70 e ’80) a tempi più recenti (solo in questo decennio sono uscite cose come A.I., Prova a prendermi e La guerra dei mondi), da fan e da amante del suo lavoro mi risulta difficile ammettere che il suo ritorno nella saga di Indiana Jones sia stato un buco nell’acqua. Ma è un’ammissione necessaria, e che non ammette giustificazioni di sorta.
Eppure, ce ne sarebbero: se è solo un omaggio a un cinema che fu – il quale a sua volta, guarda caso, era un omaggio a un cinema che fu stato – allora si potrebbero davvero perdonare molte cose, o alcune cose, in nome di un indefinibile e banalissimo afflato affettivo? E quante, in tal caso? La mia risposta è no, perché il quarto Indy, a quasi vent’anni dal precedente, è un film sostanzialmente sbagliato, squilibrato, noioso, ma soprattutto pigro. La sensazione che dà – e che sia andata così o meno, importa poco – è quella di un team di lavoro soffocato da un eccessivo entusiasmo iniziale, che ritrovatosi tra le mani questa robetta di poco conto – in fondo, di questo Teschio di Cristallo, ma che ci frega? – a fronte di aspettative pazzesche, ha deciso di lavorare al minimo artistico.
Così la sceneggiatura del non sempre brillante David Koepp, svogliata e dedita a un’irritante casualità, in cui tutto ciò che succede nel film lascia i personaggi completamente passivi, quasi storditi, in attesa del prossimo movimento. Così la regia, che (soprattutto nella seconda unità) si dedica qui e là a qualche virtuosismo, ma dimenticando per strada ogni credibilità – e trovandosi infine invischiata nel ridicolo involontario. Il fenomenale incipit con i ragazzi in decappottabile che stuzzicano i militari sulle strade deserte del Nevada lascia ancora più con l’amaro in bocca. In fondo, e dico forse, bastava metterci un po’ di ironia in meno e un po’ di cuore in più.