dicembre 2008

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Il classificone 2008

[il classificone 2008]

1. WALL-E
2. Non è un paese per vecchi
3. Il cavaliere oscuro
4. Il petroliere
5. Il divo
6. Gomorra
7. Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street
8. Il treno per Darjeeling
9. Racconto di Natale
10. Rachel sta per sposarsi

11. Cous cous
12. Tutta la vita davanti
13. Il matrimonio di Lorna
14. Lo scafandro e la farfalla
15. Funny games
16. Gone baby gone
17. Hellboy II: The golden army
18. The orphanage
19. Changeling
20. Cloverfield

21. Non pensarci
22. Strafumati – Pineapple express
23. Control
24. Un bacio romantico
25. Iron man
26. Onora il padre e la madre
27. Burn after reading
28. Pranzo di Ferragosto
29. La felicità porta fortuna – Happy Go Lucky
30. Walk hard
31. Persepolis
32. La banda
33. Be kind rewind
34. Speed racer
35. Tropic Thunder

*****

Quest’anno ho deciso di mettere in questo ormai tradizionale informale resoconto di fine anno*, in cui come al solito non ci sono troppe sorprese per chi sia capitato da queste parti negli ultimi 12 mesi, soltanto 35 titoli. In pratica: quelli che, secondo i canoni della connection, hanno meritato almeno 4 quadratini rossi**. Alcuni voti sono cambiati, magari di una sfumatura, e molti sono i titoli rimasti fuori, anche meritevoli, anche molto meritevoli. Nel ringraziarvi per esserci stati, tutti, sempre, in ogni momento di questo 2008 complicato e incasinatissimo, e nel ricordare che, come sempre, questa roba del "classificone" è un brindisello tra amici di fronte a cui ogni polemica verrà implicitamente accolta dal mio poderoso whatever, vi auguro un affettuosissimo buon anno e vi do l’apputamento all’inizio del 2009. Forse.

*nota: la lista include soltanto film usciti ufficialmente nelle sale italiane tra il 1 Gennaio 2008 e il 31 Dicembre 2008
**nota: la lista esprime l’opinione del sottoscritto e NON quella della
connection

[buon natale]

Ghost town, David Koepp 2008

Ghost town
di David Koepp, 2008

"All work and no play makes Jack a vital member of society"

Questo film non rappresenta solo la fortunata prima esperienza da attore protagonista dell’attore inglese Ricky Gervais, assunto a notorietà internazionale grazie alla sua serie tv The Office, divenuto un vero e proprio franchise globale, ma anche la prima prova registica davvero riuscita di David Koepp, sceneggiatore spesso appropriato che non aveva mai convinto del tutto dietro la macchina da presa.

E invece il suo Ghost town fa completamente centro: una commedia fantastica d’altri tempi, dai toni gradevolmente fuori moda ma dalla comicità freschissima, che si sarebbe sentita più a suo agio nel panorama comedy una quindicina di anni fa, ma che è scritta e interpretata con grande scioltezza – e se sa raccontare da una parte una storia d’amore, di rinascita e riscoperta di sé, intelligente ma assai meno scaltra di quanto non si possa temere, è anche il piccolo affresco di una città (New York, che non a caso dà il titolo al film – e non a caso è osservata dall’occhio "esterno" di un protagonista britannico) che si risveglia e si scopre piena di fantasmi – quelli del rimpianto, del passato, di ciò che noi vivi non riusciamo a lasciarci alle spalle.

Un film quindi che, all’interno di modelli canonici e proprio per questo sempre spettacolarmente funzionanti, riesce a essere maturo, persino toccante: difficile rimanere indifferenti di fronte alla sequenza con Alan Ruck nel parco: personalmente, mi sono messo a piangere come una fontana. Ma ovviamente, di una commedia si tratta, e le risate ci sono – e nemmeno poche. Irresistibile il Bertram Pincus di Gervais, fusione eccellente del suo David Brent televisivo con l’archetipo misantropico dickensiano, e perfetti i comprimari – tra cui una splendente Téa Leoni che, davvero, non ricordavamo così brava e così bella. Cavoli, 42 anni e non sentirli.

L’uscita italiana del film è purtroppo bloccata nel solito assurdo limbo: incrociate le dita che non faccia la fine di Margot at the wedding e che esca in sala, prima o poi. In ogni caso, il DVD inglese esce il 2 Marzo 2009 – mentre, se avete fretta, il DVD americano esce il 27 Dicembre.

Man on wire, James Marsh 2008

Man on wire
di James Marsh, 2008

Il documentario di James Marsh ha fatto molto parlare di sé nella rete negli ultimi mesi, dalla sua uscita nelle sale statunitensi nel Luglio scorso, soprattutto per un dato del tutto particolare: secondo i paradigmi del sito Rotten Tomatoes, che raccoglie e cataloga le recensioni cinematografiche delle testate anglofone (dividendole in pomodori freschi oppure marci), Man on wire sarebbe niente meno che il film meglio accolto dalla critica di sempre: se non è l’unico film ad avere una percentuale del 100%, la differenza la fa ovviamente il numero di recensioni: 135, tutte positive, senza eccezioni.

Non c’è dubbio che questa curiosità, freddamente numerica, nasconda in realtà un’entusiasmo del tutto inedito nel panorama del cinema recente, e che fa realmente impressione: prima di tutto, perché il fatto che un film simile sia "quello" in grado di mettere d’accordo tutti la dice lunga sullo sdoganamento ormai definitivo del documentario anche presso il grande pubblico. Verrebbe quasi la tentazione di pensare che il successo smisurato del film inglese presso la critica valga simbolicamente più del film in sé. Fortunatamente, c’è il film a dimostrare il contrario – e cioè, che non sono tutti impazziti per una bolla d’aria.

Infatti Man on wire è un vero e proprio gioiello, un film dalla bellezza raramente ipnotica e realmente conturbante, che lavora sui canoni del documentario (ma anche su quelli della docufiction, in molte sequenze) senza negali i canoni né cercando in alcun modo di ribaltarli (il film è tutto sommato costruito su un’alternanza piuttosto tradizionale di interviste ai protagonisti e di immagini di repertorio – o appunto "ricostruite" – con il commento musicale delle notissime musiche di Michael Nyman), ma coltivando nel cuore di questi linguaggi un’energia insperata, e traendone una passione travolgente che fa vibrare lo schermo con un crescendo che arriva a far commuovere semplicemente proiettando sullo schermo delle fotografie – tra l’altro arcinote, ma che a quel punto del film fungono ormai da sfogo.

Il film racconta infatti dell’impresa del funambolo Philippe Petit, che nel 1974 riuscì a tirare un cavo tra le due torri di New  York e a camminarci sopra. E il film, oltre ad avere tutta la tensione di un film su una rapina in banca o su un attentato terroristico, gioca su questo contrasto tra l’illegalità del gesto – e sul procedimento, affontato proprio come tale – e sul suo effetto gioiosamente catartico, sa trasformare un "atto artistico" situazionista in un simbolo di anarchia e di libertà, slegato dai condizionamenti della logica razionale (Petit trova ridicolo che i giornalisti non facessero che chiedergli il perché), e divenuto – insieme alle torri stesse, in antitesi all’architettura prosaica che le ha sollevate – in un eterno gesto di pura contemplazione e bellezza.

Non è ancora prevista un’uscita italiana, ma uscirà senza dubbio, prima o poi. Il DVD inglese invece è in uscita nei prossimi giorni, a Santo Stefano: prenotatelo.

My name is Bruce, Bruce Campbell 2007

My name is Bruce
di Bruce Campbell, 2007

Prima di tutto, va chiarito che se non sapete chi sia Bruce Campbell potete con tutta tranquillità saltare questo post, ignorare questo film – ed eventualmente, già che ci siete, farvi un giretto in videoteca (o, ehm, simili), recuperare Bubba Ho-Tep, la trologia di Evil Dead diretta da Sam Raimi (La casa, La casa 2, L’armata delle tenebre), tenere gli occhi aperti durante la visione della trilogia di Spider-man, di Fuga da Los Angeles di Carpenter, di parecchi film di fratelli Coen. Fatto ciò, potete tornare qui.

E’ il prezzo che si richiede per potersi godere al minimo My name is Bruce – il massimo piacere è riservato a quelli che hanno visto tutti i film elencati nell’incipit, e mi tocca, ahimé, purtroppo, chiamarmi fuori – il secondo film da regista dell’ormai cinquantenne Campbell (il primo Man with the Screaming Brain è pressoché invisibile), che ha fatto il giro dei festival per un anno e mezzo – ultimo dei quali, l’approdo al Noir InFestival di Courmayeur, prima di arrivare con un’uscita limited nelle sale USA, un paio di mesi fa.

Il film ha come protagonista Campbell nella parte di se stesso – o meglio, di una dramatis persona ritratta dalla divertita sceneggiatura di Mark Verheiden come un fallito borioso, sociopatico e alcolista – che viene spinto da un giovane fan a combattere contro il demone di un generale giapponese cinese che terrorizza un minuscolo paesino della periferia rurale americana. Ovviamente, Campbell è convinto che sia tutta una messinscena, organizzata per il suo compleanno dal suo viscido agente.

Già di per sé Campbell mostra di non temere lo sberleffo e di avere autoironia da vendere – ma questo lo potevamo sospettare, affettuosamente, senza guardare il film. Quello che stupisce è che il film è effettivamente un gran divertimento: citazionista senza velleità snob, realizzato meglio di quanto si creda (addirittura molto meglio se si tiene conto della sua natura di b-movie, e c’è sempre la giustificazione dell’omaggio dietro l’angolo), è stupidotto ma possiede un garbo e mostra un rispetto nei confronti delle strutture più tradizionali del racconto che sembra miracoloso vista la demenzialità dell’assunto.

E poi, soprattutto, c’è Bruce Campbell, prevedibilmente più irresistibile davanti che dietro la mdp, che dà il meglio di sè dall’inizio alla fine, facendo a brandelli se stesso (e la vulgata di se stesso) non solo da un punto di vista intellettuale ma anche fisico: bevendo urina altrui, andando a sbattere praticamente ovunque, ma salvando infine la baracca – con una svolta dello script gustosamente meta – proprio grazie a un simulacro. Hai detto niente.

Del tutto improbabile un’uscita italiana in sala. Il DVD inglese esce il 2 Marzo 2009.

Friday Prejudice #151

[buon natale un cazzo]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice, ‘na strage.

The spirit, Frank Miller 2008

The Spirit
di Frank Miller, 2008

Dispiace dover tirare fuori ancora una volta, dopo tutti questi anni, la vecchia manfrina per cui ognuno dovrebbe stare al suo posto e fare il proprio mestiere – anche perché mi rendo conto che non è una posizione troppo di moda, è un’anticaglia prevedibile che sa di muffa, ma che viene resa quasi inevitabile, magari senza prendersi troppo sul serio, di fronte all’esordio solita dietro la macchina da presa di Frank Miller. Perché per trasformare un film le cui aspettative erano medie, o persino basse a seconda dell’umore, in una delle più cocenti delusioni della stagione e in uno dei più brutti film del momento, ce ne voleva. Mission, accomplished.

E sono certo che in molti troveranno in questo dilettantesco teatrino delle marionette tratti di un’avanguardia che a mio avviso è del tutto assente, sia perché Miller si limita a salire sul carrozzone di quell’altro film da lui co-diretto trasferendovi alcune strutture portanti (tecniche e narrative) e facendo tutto il resto alla cazzo di cane, sia perché le motivazioni dell’omaggio affettuoso, del io lo conoscevo di persona Will Eisner, della recitazione sopra le righe, della buffoneria e della clownerie come distacco critico/ironico e/o autoironico, davvero, devono trovare un limite (per esempio, fermarsi prima che il film vada del tutto in vacca come in questo caso) e comunque non possono giustificare tutto.

Non tanto per il rapporto con il leggendario fumetto di Will Eisner, nella cui rilettura Miller trova comunque una chiave interessante – assumendosi una grande responsabilità nel tracciare una linea così decisa tra le tavole del compianto autore newyorkese e le sue (soprattutto Sin City, va da sè), un atto che è insieme di grande umiltà e di inarrivabile (e del tutto milleriana) spocchia. Fin lì, anche se il suo contributo è del tutto dimenticabile rispetto al materiale originale (come l’Octopus forgiato da Miller da un paio di guanti bianchi e affidata a un gigioneggiante Samuel L. Jackson), andrebbe tutto bene. Peccato però che, appunto, il film faccia schifo.

Davvero, Miller ha confezionato un tale capriccioso fallimento da esser riuscito nel miracoloso intento di rendere antipatico Denny Colt, e di asessualizzare la sua ampia compagine femminile: che la Mendes e la Johansson si limitassero a bamboleggiare era prevedibile, ma vedere la mia amata Sarah Paulson di Studio 60 ridotta a quel ruoletto soggiogato e machista – che farà felici i fan del "cinema con il cazzo" – mi fa piangere il cuore.

E sì, la città, è la mia città, è la città, oh, la città, ho capito.

Nei cinema dal 25 Dicembre 2008

American teen, Nanette Burstein 2008

American teen
di Nanette Burstein, 2008

Le vite di cinque adolescenti di Warsaw, Indiana, nel corso dell’anno del diploma. Hannah è una ragazza "alternativa" che vuole fuggire in California e lavorare nel cinema. Colin è un simpatico giocatore di basket che deve sperare nei "meriti sportivi" per l’accesso all’Università. Megan è bionda, popolare, stronzissima. Mitch è amico di Colin, ed è bello come il sole. Jake è il tipico nerd, brufoloso, appassionato videogiocatore. La novità? Sono tutti ragazzi veri.

American teen è infatti un documentario che si pone nel territorio aperto da molta fiction televisiva (The real world in cima, per popolarità) ma che vuole programmaticamente ridurre a zero ciò che è scripted utilizzando perlopiù un metodo che si rifà all’osservazione non partecipata. Realizzato comunque con un’impressionante e certosina professionalità, ma anche con un senso del racconto che fa invidia a una sceneggiatura vera. Tutto questo per riflettere sul mondo dell’adolescenza nel contesto della scuola superiore statunitense: i luoghi comuni dei media legati all’immaginario teen (a cui fa riferimento per esempio la cover ispirata a The breakfast club) hanno una rilevanza nel mondo reale?

Sono molti i dubbi che può suscitare la visione di un film come questo, per come miscela saggiamente ma senza pudori i metodi del documentario e quelli del cinema narrativo e dello stesso teen-movie, e senza dubbio i primi sono di natura scientifica. Ma sono dubbi dei quali, come al solito, ci importa poco o niente – di fronte a un film davvero sorprendente, che attraverso un attaccamento quasi morboso ai personaggi che osserva (e il cui "lungo termine" permette di salvaguardarne la credilità) restituisce un affresco praticamente perfetto dell’età difficile per antonomasia.

E che riesce a creare attraverso una selezione accuratissima dei materiali (probabilmente interminabili) una riflessione matura e non banale, prima di tutto, sul rapporto tra la spinta alla libertà di una generazione e il contenimento emotivo della generazione precedente – un rapporto la cui reiterazione storica getta un’ombra di tensione e frustrazione su tutto il film, solo parzialmente acquietata dal tenerissimo e speranzoso finale, quando ormai ci si è affezionati a tutti, persino a quella stronza di Megan. Un film che lascia sì qualche spazio a riflessioni di tipo sociale, sulle modalità assolutamente crudeli di divisione in "caste", ma che è – soprattutto – un film sostanzialmente umanista.

Il tutto è comunque osservato da vicino, vicinissimo: e non ricordo che sia mai stato fatto qualcosa si simile – a tale minuscola distanza, e con tale tangibile sensibilità. Come guardare un’acquario – tanto più che i pesci fanno parte di "razze" ben riconoscibili, così come lo sono le sensazioni di (inevitabile) immedesimazione. Soprattutto, a giochi fatti. Quando riguardando con malinconia o sprezzo a quegli anni, si usa dire, si ride di sé e delle proprie sciocchezze. Quelle stesse sciocchezze che, nel momento in cui a qualunque età abbiamo scelto di diventare grandi, hanno fatto di noi ciò che siamo. 

Racconto di Natale, Arnaud Desplechin 2008

Racconto di Natale (Un conte de Noël)
di Arnaud Desplechin, 2008

A guardarlo da una certa distanza, il film di Desplechin sembrerebbe un altro racconto alla francese ambientato in una famiglia complicata o disfunzionale. Ma è sufficiente mettercisi davanti e guardarlo per accorgersi della sua unicità, della sua eccezionalità. Non tanto per la perfezione del cast (monumentali Mathieu Amalric e Anne Consigny) né per la sceneggiatura esemplare e misuratissima.

La cosa che colpisce di più è l’inestimabile ricchezza formale del film, il modo in cui Desplechin ha scelto di far interagire la mobilissima, luminosa e impeccabile fotografia di Eric Gautier e il furioso montaggio di Laurence Briaud, con una libertà quasi anarchica che sembrerebbe impensabile in un film così lungo, ma che ne rappresenta il tratto più distintivo – e che si appoggia alla perfezione sulla sensazione di frammentazione rappresentata da questo entropico, sgradevole e insostenibile quanto irresistibile, nucleo familiare.

Fin dal teatro delle delle silhouette che apre il film, passando per dissolvenze incrociate, iridi (tantissimi), sguardi in macchina, monologhi, visioni lupine, citazioni, schermi televisivi accesi per le feste (Dieterle, Donen, DeMille), e più in generale un modo sconvolgente e unico di fissarsi su dettagli apparentemente insignificanti per rivelarne la ricchezza – come il dettaglio di una foto che rivela una lacrima inespressa, delle note musicali lette nel silenzio della sera, o un silenzio che nasconde una verità celata.

Poi, Racconto di Natale è uno di quei film così densi e belli, un tale turbine di malinconia (ma riscaldato dal calore delle seconde occasioni, e infine dal potere del caso, della fortuna e del destino) da poter regalare a ciascuno un momento di verità, un istante di commovente epifania. Che per quanto mi riguarda è in quella cucina, di notte, nel dialogo doloroso, tardivo, necessario, tra Sylvia e Simon, a dirsi finalmente la verità – e il giorno successivo a riprendersi con la forza di un bacio la propria vita negata, tutto d’un colpo.

[post in attesa]



(così, tanto per, era un po’ che non lo facevo)

La felicità porta fortuna – Happy Go Lucky, Mike Leigh 2008

La felicità porta fortuna – Happy Go Lucky (Happy-Go-Lucky)
di Mike Leigh, 2008

Contravvenendo a chi associasse il suo cinema a una mera corrente di depressione sociologica, Mike Leigh ha girato una commedia che fa della piacevolezza imediata una delle sue armi più potenti. E non è la sola: la sceneggiatura è stupefacente (densa, ricchissima, intelligente), e la sua protagonista Sally Hawkins è una tale delizia che andresti avanti a guardarla e ad ascoltarla per altre due ore.

Ma la cosa più bella di Happy-Go-Lucky è il suo non negare affatto la "bruttezza del mondo", che si palesa di fronte al sorriso quasi imperturbabile della sua protagonista. E’ questo a renderlo un film così speciale, al di là dell’esecuzione impeccabile di tutto il resto. E seppure vi sia spazio anche nei suoi occhi per attimi di malinconia (che nel contrasto sembrano diventare dolorosi come una crisi di pianto) la forza d’animo di Poppy rappresenta un’alternativa angelica, ed estrema – un manuale di sopravvivenza per sé e per gli altri, di fronte a un mondo che continua a saper dare il peggio di sé. Ma per il quale sembra valere la pena, con tutti gli sforzi possibili (fino a mettere a repentaglio se stessi) di illuminare, di dipingere di rosa, anche solo per un istante.

O almeno, di provarci. A volte funziona, a volte no. Ma in un mondo dove la norma comune è la frustrazione, la violenza, e la follia, la vera alienazione è la felicità. Una distinzione senza mezzi termini – per poi trascinare dentro, non senza una sana dose di sarcasmo, gli altri insieme a te. You’ll never live like common people, you’ll never do whatever common people do. Sai mai che porti anche un po’ di fortuna.

[no ma spiegami quella storia di Salvatores]

Dunque, per farla brevissima la storia è questa: il portale di MSN ha organizzato un incontro tra Gabriele Salvatores e 5 blogger cinefili, che si è svolto mercoledì 10 Dicembre. C’erano Carla di Cineblog.it, Matteo di Blogosfere, Ferruccio di Attenti al cine, Sara the Hutt, e c’era il sottoscritto.

Stiamo lì seduti un’ora secca, gli facciamo 15 domande. Lui risponde, sorride, si allarga, parla, racconta: chi ha mai assistito a un’intervista o a un incontro con Salvatores, sa cosa intendo. Alla fine, tutti contenti: una cosa davvero piacevole. Soprattutto per noi, me ne rendo conto – ma forse non solo. In ogni caso, abbiamo cercato di fargli domande da appassionati di cinema. E non tanto per riempire a casaccio le colonne di un quotidiano.

Che poi sia una bella eccezione o l’inizio di qualcosa – per tutti noi che scriviamo, da anni o da mesi o da giorni, sulla rete, per pura passione – è tutto da vedere. Intanto, è un buon segno.

Lo speciale è qui, ovviamente sul portale di MSN.
(10 delle 15 domande sono segnate sulla destra, ma se avete un’ora da buttare via l’incontro si può guardare tutto intero – anche se in ordine sparso – attraverso la playlist in basso)
(adesso scusate ma devo andare a cospargermi il capo di cenere per la vergogna)

Friday Prejudice #150

[centocinquanta]

Ehi guarda chi c’è, l’episodio 150 di Friday Prejudice.

[metterci la faccia]

Gabriele Salvatores incontra i blogger. Coming soon.
(questo è soltanto un teaser, presto il video intero dell’incontro)

update: il post di Cineblog.
update: il post di Blogosfere Spettacoli.

Friday Prejudice #149

[doppia libidine]

Gioite fanciulli, è arrivato il nuovo episodio di Friday Prejudice.
E in uno dei film della settimana recita Don Johnson.

The Millionaire, Danny Boyle 2008

The Millionaire (Slumdog millionaire)
di Danny Boyle, 2008

La carriera di Danny Boyle, da qualunque parte la si guardi, è una delle più bizzarre del cinema europeo contemporaneo: uno dei pochi registi nel continente a riuscire a cambiare così radicalmente stile da un film all’altro, senza rinunciare a spiccate individualità e personalità – nel bene o nel male. Incredibile comunque pensare che la stessa persona abbia potuto girare a così breve distanza un film come Sunshine e un film come questo. Infatti con The millionaire, girato e ambientato in India e tratto da un vendutissimo romanzo del diplomatico Vikas Swarup, Boyle ha ritrovato quella stessa voglia di sperimentare, a costo di rinunciare alla "pulizia" della rappresentazione e della narrazione, che caratterizzava i suoi primi film come Trainspotting.

Il film infatti, forse anche a causa dell’influenza della troupe locale e della aiuto regista Loveleen Tandan, è girato e realizzato in modo assolutamente furioso, e a tratti dissennato – opponendo ai micidiali campo/controcampo che caratterizzano il format televisivo del Milionario una regia in cui ogni inquadratura è, e deve essere, diversa dall’altra (a suo modo ricercata anche quando grezza, sporca, imperfetta), e un montaggio che fa un uso di tecniche come ralenti e step-framing che ricorda più il primo Wong Kar-Wai che i blasonati colleghi britannici. Ma non si pensi a un cinema sperimentale e indigeribile, anzi: se c’è una cosa di cui Boyle mostra di interessarsi fino in fondo, in questo film, è raccontare una storia.

E la storia di The millionaire è una di quelle che siamo lieti di esserci fatti raccontare. Una favola sul potere del destino, o forse del caso. O più semplicemente, del culo. Ingenuo ma irresistibile. E con una struttura così volutamente complessa spalmata su due ore secche di film, non era facile. Il film è infatti costruito su tre piani temporali differenti, in montaggio parallelo: la stanza dell’interrogatorio; il set televisivo; i flashback di Jamal. Eppure, il film ha una scioltezza e una freschezza immediate, ed è totalmente, persino esasperatamente, romantico – con tutto quello che il romanticismo si porta dietro: l’eccesso melodrammatico, l’ingenuità narrativa, il didascalismo, l’effetto prima della causa. Per quanto mi riguarda, non avevo bisogno di altro.

Bella la colonna sonora curata da A. R. Rahman, e azzeccata la presenza di Paper planes di M.I.A. Ottimo il cast indiano (anche se l’edizione italiana ha tradotto tutto, sia le parti in inglese che quelle in hindi, tanto per cambiare) tra cui spicca la ventiquattrenne – spaventosamente fotogenica – Freida Pinto.

La coniglietta di casa, Fred Wolf 2008

La coniglietta di casa (The house bunny)
di Fred Wolf, 2008

"The eyes are the nipples of the face."

Bisognerebbe erigere una statua ad Anna Faris. Almeno, lo dovrebbe fare Fred Wolf e tutta la produzione di The house bunny, il nuovo film scritto dalla coppia di sceneggiatrici di Legally blonde, Kirsten Smith e Karen McCullah Lutz. Anche perché queste ultime si limitano a redigere una variazione sul tema del loro celebre film del 2001, creando non solo un nuovo traguardo di Cinema Vaginale, ma un pigrissimo bignamino di sceneggiatura: il tipico film in cui durante ogni sequenza sai perfettamente, e non puoi fare a meno di sapere, cosa succederà nella sequenza successiva.

Mi correggo: sai già tutto dal principio, con esattezza. Ehi, sequenza in cui lei si rende ridicola cercando di essere diversa da ciò che è, ci sei? Ehi, sequenza in cui le protagoniste diventano stronze e poi arriva qualcuno e glielo fa notare e si pentono immediatamente, ci sei? Ci sono. Fa parte del gioco, dopotutto: la prevedibilità in questo caso fa il paio con la rassicurazione – e non c’è niente di maligno, in fondo, a voler essere rassicurati. Sul voler essere rassicuranti, invece, avrei qualche dubbio in più. Ma quello che mi chiedo più di tutto è: la Smith e la Lutz credono davvero che le spettatrici siano così stupide da non capire il messaggio del film senza che un personaggio lo reciti a pappagallo nel finale?

Eppure, c’è un eppure: la presenza irresistibile, solare, a tratti persino geniale, di Anna Faris. La protagonista della saga di Scary Movie e di Smiley face riesce a rendere il film ben più che sopportabile. Divorandoselo. Sarà per il suo phisique du role improbabile (ha un gran bel fisico, ma di certo non da coniglietta di Playboy), per la sua abnegazione miracolosa al ruolo dell’oca senza speranza, o semplicemente perché è una delle più bravi attrici da commedia in circolazione: fatto sta, che quando la Faris è in scena ci si sganascia dalle risate, quasi sempre, quasi senza volerlo, e quasi senza sensi di colpa. Ho detto quasi.

La paraculissima colonna sonora, oltre a infilare ben due pezzi dei Ting Tings, è piena di roba inevitabile come Rihanna e le Pussycat Dolls, ma contiene anche il miglior uso possibile (forse l’unico) che si possa fare di Girlfriend di Avril Lavigne in una soundtrack. Sarà banale, ma ci sta. Curiosa, per mera aneddotica, la scelta dei membri della sorority house che ospita la protagonista: a parte Emma Stone e Kat Dennings (sentiremo parlare molto di entrambe, garantisco), c’è dentro una finalista di American Idol, una delle Cheetah Girls, e la figlia di Demi Moore e Bruce Willis.

In ogni caso, facili snobismi a parte, un film sufficientemente divertente, talmente leggero e naif da farsi perdonare più di quanto perdoneremmo altrove.

Nei cinema dal 5 Dicembre 2008

*a costo di vederlo in lingua originale. Lo so, sono noioso.

Dance of the dead, Gregg Bishop 2008

Dance of the dead
di Gregg Bishop, 2008

Un film con gli zombi ambientato durante la notte del prom, ovvero del "ballo di fine anno" dei licei americani? Un’idea che immagino sarà venuta a centinaia, migliaia di persone. Qualcuno però ha fatto il salto di qualità, e l’ha fatto davvero. E l’ha fatto sorprendentemente bene. Se pure è "impacchettato" come uno dei tanti b-movie scalcinati che riempiono gli scaffali delle videoteche e i siti di torrent, Dance of the dead è infatti molto meglio di quanto possa apparire.

Nonostante sia girato in digitale, sia interpretato da un mucchio di giovani semisconosciuti, sia diretto da un semiesordiente dall’aspetto non particolarmente sveglio, Dance of the dead è, nel suo piccolo, una delle sorprese più piacevoli di questo periodo. Almeno, nella sua categoria. Scritto e ideato in un periodo – i tardi anni ’90 – in cui gli zombi non erano così di moda (e quindi figuriamoci le horcom à la Shaun of the dead), il secondo film di Bishop ci ha messo una decina d’anni a diventare vero, e ha trovato un mercato pronto ad accoglierlo a braccia aperte. Pure troppo: il rischio è che passi del tutto inosservato, di fronte a produzioni a budget più elevato.

Ma sarebbe un peccato, perché Dance of the dead ha tutto quello che si può chiedere a un film del genere: è divertente, ha un ritmo implacabile, regala qualche piccolo spavento, è girato come dio comanda (ottima la sequenza del cimitero, con gli zombi che sbucano fuori dalle tombe come geyser) ha un cast delizioso, e – qui sta la vera differenza – è ricchissimo di personaggi, tutti ritratti con notevole arguzia. Sempre sulla base dei topoi del cinema adolescenziale (all’appello nerd, cheerleader, ragazzetti ribelli, punk anarchici, delinquenti troppo cresciuti, rane da dissezionare: ma attenzione a non scambiarla per una parodia) e senza mai prendersi troppo sul serio: ma l’evoluzione dei rapporti tra i personaggi e delle vicende amorose (compresa un’impossibile storia d’amore post-mortem quasi commovente, non dico altro) dimostra una sensibilità inaspettata e graditissima. Anche considerando i tempi ridottissimi: il film dura circa un’ora e dieci.

Infine, Bishop e lo sceneggiatore Joe Ballarini mostrano di avere quello che ogni regista dovrebbe possedere quando gira un film sugli anni delle superiori: il ricordo di quanto sono stati massacranti. Non è poco. E per chi si chiedesse se questi zombi vanno lenti o veloci, la risposta è: corrono. Eccome.

Dopo aver fatto il giro di parecchi festival di genere, dal SXSW di Austin al Frightfest di Londra, il film è uscito in una singola sala a Hollywood il 13 Ottobre, e direttamente in DVD il giorno dopo. Per la nostra regione, il DVD è uscito a fine Ottobre anche in Germania. C’è da sperare che esca anche dalle nostre parti. Prima o poi.

Changeling, Clint Eastwood 2008

Changeling
di Clint Eastwood, 2008

Non è un problema per me fare ammenda su un pregiudizio errato: non è la prima né l’ultima volta. Tuttavia, ci tengo a sottolineare come Changeling fosse un film davvero facile da sbagliare: per la scelta di una storia così emblematica, di un periodo storico così spesso rappresentato, di una star così ingombrante a fare da protagonista. Quest’equilibrio sottile, sotto al quale si nasconde altresì il rischio del ricatto, rende ancora più bello l’ultimo film del regista californiano. E per l’acuto impatto del film non è da dimenticare l’intelligenza, sperimentata già dal regista in Million dollar baby, con cui è costruita la campagna pubblicitaria – basata quasi esclusivamente sulla prima metà del film: il resto è davvero tutto da scoprire.

Grazie a questi accorgimenti e a una misura e un rigore che ormai sono notoriamente tra i suoi marchi di fabbrica più riconoscibili, Eastwood è riuscito invece a costruire un film bellissimo e profondamente sofferente, in cui gli elementi classici – tra cui la colonna sonora di Eastwood stesso, che (spiace dirlo) è pessima, ridondante e stucchevole – e l’interesse per la cura maniacale della ricostruzione storica (con un artificio davvero geniale: il cappello del 1928 e quello del 1935) si mescolano a uno sguardo del tutto attuale sulla perdita dell’innocenza di un’intera nazione, che cade con ben poca casualità proprio negli anni della grande crisi economica. Una nazione che tiene le porte ancora aperte, e che si scopre insicura, violata, e che, quasi come fosse uno stupro collettivo ribaltato, scopre il dolore della perdita. In realtà, è una ri-scoperta: lo fa ciclicamente. Questa volta, lo legge negli occhi di una madre.

Messa da parte l’ineccepibile e difficilmente discutibile bellezza del film, ho riscontrato alcune cose straordinarie in esso, non dal punto di vista qualitativo ma come elementi sostanziali del film, che valgano come elementi di riflessione. Il primo è la presenza, assolutamente inusuale e sorprendente, della Provvidenza (proprio lei) come meccanismo narrativo, resa esplicita dalle parole del pastore Gustav Briegleb, interpretato da John Malkovich. Il secondo, che gli si appaia, è la fiducia incrollabile di Eastwood nei confronti della Giustizia con l’iniziale maiuscola – nonostante lo sguardo sulla pena capitale sia tutto tranne che rasserenato e catartico. Il terzo sono un paio di caratteristiche fittizie del personaggio di Gordon Northcott: il fatto che sia rappresentato come un solitario "agente del caos" (la madre-complice sparisce nel film) e soprattutto come una minaccia esogena.

L’utimo è che Changeling è sì uno dei film più cupi e neri del regista, in cui le istituzioni della legge e dell’ordine peraltro vengono rappresentate con un quoziente di corruzione che riesce a fare impallidire la furia incontrollabile di un assassino seriale (mettendoci di fronte a qualche serio e gradito dubbio percettivo ed emozionale) ma allo stesso tempo è un film che apre un notevole spiraglio – chiaro fino all’effetto-didascalia – alla speranza, allontanandosi parzialmente dalla disillusione che caratterizzava in modo più netto altri suoi film. O meglio: forse l’unica speranza rimasta a un paese violato è forgiata con la stessa materia dell’illusione.

Death race, Paul W.S. Anderson

Death race
di Paul W.S. Anderson, 2008

Il brutto di avere due blog dagli intenti così diametralmente opposti è che qualche volta tocca ripetersi, o meglio tocca trovare due modi differenti di dire la stessa cosa. Il bello di avere due blog sostanzialmente imparentati è che quando non hai alcuna voglia di scrivere di una cosa, beh, può capitare che ne hai già scritto qualcosa dall’altra parte. Copia, incolla, fatto.

La fonte è ovviamente Friday Prejudice.

Death Race è un film scritto e diretto dall’ex talento emergente (e mai del tutto emerso) Paul W.S. Anderson, ispirato a un film supercamp del 1975 con Sylvester Stallone, diretto da Paul Bartel sotto l’egida della factory di Roger Corman. Qui Corman torna come produttore, ma la sua influenza si fa sentire soltanto nello spirito (poco genuinamente?) spudorato del film. L’ho infatti già visto, e anche se non ho ancora avuto il tempo di scriverne – lo farò presto – vi do un giudizio sommario e noioso. Cioè, che il film va anche bene, se avete proprio voglia, ma dovete avere una voglia matta, di una tamarrata elevata alla n, e basta. Jason Statham in canotta, una messicana che è una fica pazzesca ma di cui continuo a dimenticare il nome*, un sacco di sangue, sbudellamenti, smembramenti, distopie accennate, Worst Joan Allen Ever, scene in cui i personaggi vengono presentati tutti in posa fica e sono tutti sporchi e c’è un namedropping minaccioso in voice over², e soprattuto un rumore incessante di motori dall’inizio (sul logo della Universal, WTF!) fino alla fine che fa sembrare Fast and furious un film silenzioso e riflessivo ambientato in una foresta tipo quella degli Ewok. Per il resto, poca ciccia, e – da un certo punto in poi – anche parecchia noia. Il film ideale se il vostro hobby è truccare motorini.

*si chiama Natalie Martinez.