Funny people
di Judd Apatow, 2009
Tra le intenzioni e le ambizioni di questa terza regia del prolifico produttore e sceneggiatore, che ha segnato come nessun altro la commedia americana di questo decennio, e i suoi risultati, c’è una distanza profonda, direi abissale. Quello che doveva essere, dichiaratamente e in ogni suo passaggio, il vero primo film d’autore di Apatow, o meglio la summa più spiccatamente artistica di un percorso che fino a oggi aveva prediletto l’anima commerciale lasciando semmai ai critici e ai blogger le sovrainterpretazioni, si è rivelato un sonoro fallimento.
Chiaramente, che Apatow fosse un regista di poco conto avevamo già potuto vederlo con i suoi due precedenti film, 40 anni vergine e Knocked up, entrambi amatissimi dai media statunitensi nonché dal pubblico, per quanto decisamente meno riusciti dei film che Apatow stesso ha patrocinato negli anni, facendoli dirigere ad altri più capaci di cui non stiamo nemmeno a ripetere i nomi. Questa volta però il suo film è così palesemente mastodontico, pesante e indigeribile, che anche la critica in patria ha cominciato a volgergli le spalle.
Dopotutto, il disinteresse del pubblico – o meglio ancora, il sovvertimento davvero estremo delle sue aspettative in un genere normalmente canonico come la commedia (anche se "drammatica"), è un punto cruciale di questo film, caratterizzato infatti da un’andatura ondivaga e da una sorta di doppio percorso narrativo che lo spezza nettamente in due. Facendone quasi due opere separate, e amplificando oltremodo la durata già interminabile delle due ore e mezza (circa, a seconda che si tratti della versione theatrical o unrated). Ma una volta conclusa la prima parte, quella più interessante per come mescola (anche se nel modo più paraculo possibile) il dramma alla comicità, la seconda diviene quasi completamente pleonastica.
Rinunciando a tirare per le lunghe in questo modo tutta la manfrina del triangolo, stirata all’inverosibile nella seconda metà pur di farci star dentro più umorismo possibile basato su Eric Bana con l’accento australiano, forse Apatow avrebbe fatto un film meno originale e stimolante, ma probabilmente ne avrebbe tratto un film più riuscito. Non saremo certo noi a dire a un regista come avrebbe dovuto fare il suo film: ma in quel modo sarebbe stato un film soltanto inutile – così com’è è un film lungo, palloso e a tratti pure un pochetto imbarazzante.
Ambizioso, si diceva. Perché questo è un film in cui Apatow vuole fare un sacco di cose, con l’ansia di chi non avrà un’altra possibilità: raccontare con piglio semi-autobiografico la vita quotidiana degli stand-up comedian; parlare della vita e della morte, e parlare del modo in cui si raccontano la vita e la morte al cinema; raccontare un buddy movie allontanandosi dalla moda del bromance e avvicinandosi al più classico mentore vs allievo; prendere un po’ per il culo a random l’establishment hollywoodiano e televisivo; prendere Janusz Kaminski e dirgli sparami quelle luci bianche cazzo, fammi un po’ di dramma qui; mettere in scena la solita noiosissima rimpatriata di amici, da Andy Dick a Sarah Silverman, senza doversi preoccupare di giustificarla perché tanto fanno tutti la parte di loro stessi; dare un’altra (…) possibilità alla vena "seria" del suo amico del cuore Adam Sandler.
Quest’ultimo è stato esaltato anche da coloro che hanno odiato il film (sempre in patria, si intende: da noi è uscito ma non se l’è cagato nessuno) e il suo George Simmons è effettivamente un personaggio meravigliosamente sgradevole e impenitente, così come la sua performance è riuscita, almeno nel suo lato drammatico. Peccato che non faccia ridere, non quanto Seth Rogen almeno. E peccato che tutte queste intenzioni, buone o meno, pur di scartare la melassa affoghino comunque nella noia. E peccato, infine, che le cose che funzionano meglio siano le scenette separate (o "separabili"), come quella di Rogen e Sandler che sfottono il medico teutonico per il suo accento. In questi microambiti funziona tutto: la scrittura, la recitazione, si ride, anche parecchio. Ma quando il film vuole andare da un’altra parte, non ci riesce manco per sbaglio. Oppure non ci prova?
Mi spiego: alla fine Funny People, con il senno di poi, oltre che essere un pacco micidiale, dà anche la spiacevole sensazione che tutta la questione delle ambizioni fosse un po’ un abbaglio. Che il miscuglio bizzarro e squilibrato di dramma e commedia non fosse altro che un pretesto, che la pretesa provocazione linguistica non fosse altro che gente che infila a caso in un dramedy qualunque battute sul cazzo e sulle palle, che in fondo tutto lo stravolgimento non fosse altro che la scusa per rincicciare dei divertenti monologhi di Sandler, di Rogen, della loro simpatica combriccola. E allora, dico io, ridateci Kamikazen.
Nota: qui si è vista l’edizione in lingua originale, e di quella si parla nel post. Questo è un film talmente basato sulla comicità verbale e suoi dialoghi che lo considero impossibile, o estremamente difficile, da giudicare se visto doppiato in italiano. Insomma, fate conto che se l’avete visto in italiano, per quanto mi riguarda, avete visto un altro film. Probabilmente peggiore.