2009

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Classificone: i migliori film del 2009

[il classificone 2009]

[la lista si riferisce alla distribuzione italiana nell’anno solare, e quindi include soltanto film usciti nelle sale italiane di prima visione tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2009]

1. Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino
2. Up di Pete Docter e Bob Peterson
3. Ponyo sulla scogliera di Hayao Miyazaki

4. Coraline e la porta magica di Henry Selick
5. Lasciami entrare di Tomas Alfredson
6. Watchmen di Zach Snyder
7. Il nastro bianco di Michael Haneke
8. A Serious Man di Joel e Ethan Coen
9. Revolutionary Road di Sam Mendes
10. Drag me to hell di Sam Raimi

11. Vincere di Marco Bellocchio
12. The Wrestler di Darren Aronofsky
13. District 9 di Neill Blomkamp
14. Gran Torino di Clint Eastwood
15. Star Trek di JJ Abrams
16. Moon di Duncan Jones
17. Two lovers di James Gray
18. Nel Paese delle Creature Selvagge di Spike Jonze
19. Adventureland di Greg Mottola
20. Milk di Gus Van Sant
21. Piovono polpette di Phil Lord e Chris Miller
22. Basta che funzioni di Woody Allen
23. Frost/Nixon di Ron Howard
24. Nemico pubblico di Michael Mann
25. Ghost Town di David Koepp

Menzione d’onore:

Dieci inverni di Valerio Mieli
La battaglia dei tre regni di John Woo
Una notte da leoni di Todd Phillips

I 10 migliori film del 2009 non (ancora?) distribuiti in Italia.

1. Thirst di Park Chan-wook
2. Mother di Bong Joon-ho
3. Observe and report di Jody Hill
4. Tokyo Sonata di Kurosawa Kiyoshi
5. Frequently Asked Questions about Time Travel di Gareth Carrivick
6. Zombieland di Ruben Fleischer
7. In the loop di Armando Iannucci
8. Away we go di Sam Mendes
9. World’s Greatest Dad di Bobcat Goldthwait
10. The house of the devil di Ti West

Mettetevi il cuore in pace: nessuna classifica sarà mai la vostra classifica.
Questa, per esempio, è solo la mia.

Buon anno a tutti.

Friday Prejudice #201 (e buone feste)

[buone feste a tutti]

Toh, c’è il nuovo episodio di Friday Prejudice. E i miei auguri.

Brittany Murphy R.I.P.

[goodbye]

Brittany Murphy se n’è andata per un attacco cardiaco. Aveva 32 anni.

Friday Prejudice #200

[i'm beyoncé, i'm no kelly rowland]

L’episodio numero 200 di Friday Prejudice. E scusate il ritardo.

Dieci inverni, Valerio Mieli 2009

Dieci inverni
di Valerio Mieli, 2009

Questo è stato un anno molto debole per il cinema italiano. Probabilmente mi sono perso qualcosa, sicuramente non ho avuto fiducia progetti di cui qualcuno, da qualche parte, ha parlato bene, la fiducia sufficiente a recarmi al cinema, a "rischiare". E quindi, a parte l’eccellente eccezione del film di Marco Bellocchio, ho dovuto aspettare proprio gli ultimi giorni dell’anno per vedere un bel film italiano.

Meglio tardi che mai. E sono doppiamente contento che sia accaduto con un’opera prima: l’esordio di Valerio Mieli, qui regista e sceneggiatore, evita sia la spocchia da primo della classe che le ingenuità da neodiplomato, optando per una struttura semplice ma intelligente, che grazie alla sua immediata intelligibilità (fin dal titolo) si mette da parte ponendo in primo piano il lavoro dei due (bravissimi) attori protagonisti e l’ambientazione in una strana Venezia di frontiera (ottima anche la fotografia di Marco Onorato), quella degli studenti e delle piazze vuote, città di passaggio, glaciale e accogliente, spesso abbandonata come una città fantasma.

Ma per quanto possa sembrare una cosa semplice semplice, Dieci inverni ha in realtà le sue ambizioni: è un film che accoglie la sfida di raccontare un intero decennio della vita, quello che porta ai trent’anni, quello in cui si fanno le scelte più stupide e le più importanti ma che viene spesso accantonato – oppure raccontato in modo assai differente. Mieli mostra talento, sincerità, naturalezza, persino un’ironia non banale: vince la sfida, e conquista senza scampo.

Vengeance, Johnnie To 2009

Vengeance
di Johnnie To, 2009

Alzi la mani chi aveva rabbrividito all’idea che il regista di The Mission avrebbe girato un film recitato principalmente in inglese. Sinceramente, io no, ero tranquillo: Johnnie To è uno dei maestri indiscussi del cinema odierno e non è certo uno sciocco. Infatti il suo Vengeance è un film decisamente personale e identificabile, ma nemmeno per un secondo corre il rischio di sembrare un "Johnnie To for dummies" né tantomeno il suo stoicismo sanguinario muta di fronte ai dilemmi di un differente pubblico.

Ambientato tra Macau e Hong Kong, co-prodotto dai francesi, recitato in tre lingue e sceneggiato dal fedele compare Wai Ka-Fai a partire da un palese richiamo a Melville (il protagonista si chiama Francis Costello mica per caso), Vengeance si muove infatti in territori piuttosto riconoscibili, raccontando in verticale la vendetta che dà il titolo al film e in orizzontale una storia di amicizia dove il codice d’onore e la fedeltà virile sono l’unica vera lingua unificatrice, riuscendo – anche grazie a una durata più lunga del solito – a fare qualche passo oltre il consueto heroic bloodshed e a riflettere in modo maturo e compiuto sulla morale e sulla memoria.

Ma non lasciando certo per strada la spettacolarità tecnica e soprattutto la perfezione scenografica che è uno dei punti vitali del cinema di To: la sequenza in cui Costello perde i suoi compagni tra la folla sotto la pioggia, per esempio, oppure quella della violenta sparatoria nel campo, sono esempi di puro, grandissimo cinema, e non sono i soli. Anche se il cuore del regista hongkonghese pulsa persino più forte altrove – quando i killer cucinano, vanno a tavola, mangiano, si studiano, ridono, si sfidano, si conoscono, si riconoscono, attendono.

La cosa che fa la differenza, rispetto al solito, è semmai la performance di Johnny Hallyday – ma è una differenza positiva: la rockstar francese ha una presenza scenica magnifica, riempie lo schermo e la città con i suoi 66 anni e i suoi occhi di ghiaccio. Al suo fianco non mancano però ovviamente volti noti e fondamentali come Anthony Wong, Simon Yam e Lam Suet.

Difficile esprimere davvero quanto il film sia bello, coinvolgente, intenso e insieme chirurgico, preciso e impeccabile: chiunque abbia visto un film di To sa di cosa sto parlando, sa cosa aspettarsi, e resterà probabilmente soddisfatto – mi auguro. Tutti gli altri dovrebbero solo muoversi e cominciare a recuperare il tempo perduto.

Il film ha vinto pochi giorni fa il Leone Nero come miglior film al Noir In Festival di Courmayeur. Non c’è ancora una data italiana ma il film è nel listino 2010 di Fandango. Cominciate a incrociare le dita. E pregate altresì che non doppino tutte le lingue in italiano. Se siete frettolosi, il film è già acquistabile in DVD edizione francese (purtroppo senza sottotitoli inglesi) e anche nella più economica edizione di Hong Kong, che però è Regione 3. Fate voi.

Bandslam, Todd Graff 2009

Bandslam
di Todd Graff, 2009

A volte è salutare saper andare oltre le apparenze: è il caso di Bandslam, che nonostante la pubblicistica (e lo scaltro sottitolo italiano High School Band, che richiama spudoratamente alla trilogia con cui condivide poco se non l’attrice protagonista), pur non essendo certo la commedia più bella dell’anno, è diverso dalla media – e a suo modo e nel suo contesto, è davvero un filmino sorprendente. Insomma, diciamolo con franchezza: magari fosse tutto così, il cinema per gli adolescenti. Se gli si mette accanto una delle opere recenti che gli assomiglia di più, ovvero l’aberrante I Love You Beth Cooper, il film di Todd Graff sembra quasi Quarto potere.

Dà un aiuto il fatto che l’universo musicale di riferimento faccia leva su una sensibilità meno bamboccesca: il protagonista del film è il solito ragazzo con problemi di socializzazione vittima delle angherie dei bulli, ma stavolta è un fanatico di indie rock, con tanto di poster dei Bloc Party nella cameretta, il cd di Dear catastrophe waitress in bella vista sul comò, una particolare ossessione per David Bowie, e via dicendo. La stessa divisione in classi sociali nella sua high school, a suo dire, è riconducibile ai gusti musicali: lui è l’unico (se si esclude un ragazzo emo con cui non vuole aver nulla a che fare) a sapere chi siano i Velvet Underground.

Quindi: Bandslam ci è piaciuto di più perché pur essendo un altro film sul "sogno che si avvera" ci parla di un sogno che può toccare tangenzialmente il nostro immaginario – sicuramente più che diventare una ballerina di hip hop? Oppure è semplicemente più riuscito, ben scritto e ben realizzato della media? Butto il sasso e ritiro subito la mano, perché propendo senza dubbio per questa seconda ipotesi: Graff racconta una storia semplice semplice basata su elementi riconoscibili, ma sapendosi confrontare alla perfezione con la tradizione dei film di John Hughes (richiamato spesso dalla soddisfatta stampa americana) e riuscendo a utilizzare nel modo migliore il bravo semi-esordiente Gaelan Connell come specchio ideale di una coercizione sociale che, nel mondo dei licei, sembra ripetersi di decennio in decennio, di stato in stato, inesorabilmente.

Ma soprattutto mettendo (quasi) sempre in primo piano la musica, davanti a tutto: non solo il film ha una colonna sonora ben più bella che paracula (si apre con Rebel rebel, chiude con What light dei Wilco, ci infila pure un Nick Drake: polemizzami questo) e riesce a non far cantare robaccia inascoltabile né a Vanessa Hudgens né ad Aly Michalka, entrambe venute su dalla scuderia Disney – e peraltro entrambe più capaci, al di là della fotogenia e della voce, di quanto io volessi ammettere. Dando l’impressione, chi sa se onesta fino in fondo (ma chi se ne importa), di credere davvero al potere salvifico della musichina nei confronti di una generazione confusa, noiosa, banale e imbabolata.

Tanto che alla fine gli si concede pure che la scelta della realizzazione definitiva sia affidata a un pezzo ska. Oh, sempre meglio di Miley Cyrus.

Extract, Mike Judge 2009

Extract
di Mike Judge, 2009

Nota: in occasione della visione di Extract ho approfittato per recuperare i precedenti film (live action) diretti da Mike Judge, che ancora mi mancavano.

Office Space (1999) -  Il primo lungometraggio con attori in carne e ossa dell’autore di Beavis and Butt-head è ispirato in realtà proprio a un corto d’animazione dallo stesso nome che aveva dato vita, qualche anno più tardi, alla serie di corti d’animazione Milton. Una satira del mondo del lavoro ambientata in una compagnia di software: il protagonista è alle prese con un lavoro alienante in un cubicolo, ma dopo aver scoperto che la sua negligenza (causata da un’ipnoterapia andata male) ha effetti positivi sulla sua carriera decide di ideare un piano per derubare la compagnia. Cugino minore dei Clerks di Kevin Smith e radicalmente inserito nel decennio in cui è stato prodotto, Office space è forse un po’ invecchiato ma ancora abbastanza divertente. Se non altro è molto interessante come documento storico di un decennio che ormai sembra lontano anni luce: la paura del millenium bug, camicie ridicole, Jennifer Aniston, queste cose.

Idiocracy (2006)
- Da principio sembra quasi un rip-off di Futurama, con il protagonista criogenizzato suo malgrado e spedito 500 anni nel futuro, ma il secondo film di Mike Judge persegue poi in realtà un obiettivo ben preciso – una satira grafica e anche piuttosto grezza che ironizza senza mezzi termini sul futuro di una nazione (più che di un pianeta) lasciata in mano agli esemplari più imbecilli del popolo americano per l’incapacità delle sue "menti migliori" di riprodursi allo stesso ritmo. L’inizio, con la spiegazione scientifica di questo rischio, è spassosissimo, così come molte invenzioni, tutte tarate all’eccesso, in una via di mezzo tra un umorismo da sketch televisivo e tutta una parte che sembra uscita Fuga da Los Angeles di Carpenter. Il film però, nel suo complesso, spreca molte delle sue opportunità: poteva essere una delle commedie più caustiche e originali sull’America di oggi, invece invece fatica ad arrivare alla fine. E dura meno di un’ora e mezza. E alla fine, mh, boh. Però, fatemelo dire, Maya Rudolph è davvero stupenda.

Extract (2009) – L’ultimo lavoro di Mike Judge non si sposta molto da alcune ossessioni di Judge, ereditando da Office space l’interesse per le relazioni nel mondo del lavoro in una sorta di lotta di classe all’acqua di rose, ma abbandona quasi del tutto la satira surreale e quasi cartoonesca dei precedenti per una storia più tradizionale di personaggi e attori. Posto che qualunque film con Mila Kunis e Kristen Wiig valga di per sé 90 minuti del nostro prezioso tempo, anche Extract è abbastanza deboluccio come risultati: ma la semplicità e il quasi-realismo del contesto e del soggetto permettono quantomeno a Judge di concentrarsi di più sulla sceneggiatura, effettivamente brillante e ricca di ottimi dialoghi, e sulla direzione degli attori, primo tra tutti Jason Bateman. Mentre Ben Affleck sembra uno che lo fa solo per il LOL. E non lo escluderei.

Extract non ha ancora una data d’uscita italiana.

Friday Prejudice #199

[amata amanda]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

A serious man, Ethan e Joel Coen 2009

A serious man
di Ethan e Joel Coen, 2009

"I don’t want Santana’s Abraxas!"

Dopo un quarto di secolo di onorata carriera, e dopo essere diventati prima i beniamini dei cinefili, poi dei festival europei, poi degli Oscar e infine anche del grande pubblico, quello che paga il biglietto, difficilmente qualcosa poteva prepararci a ciò che i fratelli Coen hanno realizzato con A serious man, uno dei loro film più ambiziosi, stratificati e complessi.

Ma non per questo, paradossalmente, meno accessibile di altri loro capolavori: la grandezza di A serious man, una caratteristica non certo nuova nel cinema dei due fratelli, risiede principalmente nella sua capacità di lasciare stupefatti e sconcertati a prescindere dalla comprensione profonda dell’opera. E non soltanto perché il film è di una bellezza visiva frastornante, anche grazie alla fotografia del grande Roger Deakins. Ma anche perché, come alcuni dei migliori registi americani, i Coen non lavorano soltanto su percorsi narrativi coerenti, lineari e stabili, oppure su riferimenti letterari e biblici, o su ammiccamenti tematici, ma anche sulla giustapposizione di elementi subcoscienti.

In tal senso, è facile uscire storditi da un film simile, che accosta caratteristiche spiccate, più riconoscibili e "imitate", del loro cinema (la progressione della discesa all’inferno, gli improvvisi cambi di registro, le sequenze oniriche) a una narrazione che sembra prediligere proprio l’immutabilità al trauma – almeno fino allo sberleffo finale. E insomma, ci si rende conto subito di averlo amato ma senza aver capito fino in fonda cosa sia accaduto. Oppure se sia accaduto qualcosa. Ma allo stesso tempo i temi portanti emergono immediatamente al di sopra della confusione, e il florilegio di ricordi, immagini e suggestioni penetra con una forza immediata rendendo quasi trasparente l’ennesima meditazione dei Coen sull’uomo e il divino, sul determinismo e la trascendenza, sulla fede e sul fato.

Tutti temi non proprio leggerissimi ma che i due registi riescono a gestire con un umorismo e una maturità, questa volta, scopertamente yiddish. A partire dall’incredibile novella dell’incipit, inventata di sana pianta dai due: quasi un corto a sé stante, che permette di gettare le basi per il destino nefasto di Larry Gopnik e che è anche una delle trovate migliori del film. Che ci permette, o forse ci chiede, di essere guardato anche nella perfezione dei suoi singoli componenti: dopotutto i Coen sono sempre stati anche dei virtuosi del racconto visivo in forma breve, e A serious man non fa eccezione. In tal senso, al di là dei sogni che fungono da unico sfogo possibile per le pulsioni primarie del protagonista, la sequenza dei denti del non-ebreo è una delle più incredibili che i Coen abbiano mai girato, un racconto nel racconto che si avvita su se stesso, in una spirale di enunciatori da far girare la testa, una roba che andrebbe fatta studiare nelle università.

Il film è inoltre ricchissimo di spunti, spesso ironici e spassosi, disseminati dai Coen quasi come per mettere alla prova la pazienza e la comprensione di noi spettatori, ma anche per fornire loro chiavi di lettura ulteriori, sempre con il sorriso sulle labbra. Qualcosa può scappare di mano, a una prima visione: dal canto mio, la recita di Somebody to love dei Jefferson Airplane nell’ufficio del rabbino mi era scioccamente sfuggita.

Mentre so bene che Abraxas non è soltanto il titolo di un disco di Carlos Santana.

Mother, Bong Joon-ho 2009

Mother (Madeo)
di Bong Joon-ho, 2009

Nella vita, è bello avere delle certezze. Nel cinema, sono pochissime. Il regista quarantenne Bong Joon-ho è una di queste: e il suo quarto film lo riconferma come uno dei più grandi registi asiatici in attività, nonché uno dei più rigorosi e coraggiosi autori del cinema contemporaneo tout court.

La scelta di girare un film come Mother, costruito sul rapporto tra una madre e il figlio disturbato, dopo l’impressionante successo commerciale e critico del blockbuster con il mostro grosso, poteva sembrare controproducente. In realtà, come spesso accade, era solo apparenza dovuta alla troppa distanza: Mother è tutt’altro che una concessione da festival, bensì un film che si inserisce alla perfezione nel percorso di Bong, altissimo cinema d’autore con le unghie infilate nella carne del cinema di genere, che lo reinnesta là dove Memories of murder l’aveva lasciato, ma senza rinnegare in alcun modo la lucidità dell’affresco famigliare di The host.

Senza dubbio nel novero dei film più belli e dolorosi di quest’anno, Mother è forse anche l’opera più dura e intransigente dell’autore coreano: nel raccontare la storia di una madre che cerca in tutti i modi di dimostrare l’innnocenza del figlio di fronte all’accusa di un orribile crimine, Bong trae una riflessione su giustizia, verità e memoria, che ha la sua forza nel ribaltamento prospettico ed empatico, nella performance difficilissima e straordinaria della 68enne Kim Hye-ja, e in una narrazione tesa e implacabile in cui non mancano alcuni degli elementi essenziali del suo cinema, come l’impietoso affresco della provincia e la frustrazione applicata ai meccanismi di detection.

Senza dimenticare che Bong Joon-ho è anche uno dei più eccellenti metteur en scène in circolazione: anche grazie al contributo del direttore della fotografia Hong Kyung-Pyo, Mother è un film visivamente stupendo e in cui ha un ruolo principale l’uso virtuoso ma millimetrico e preciso dei movimenti di macchina, un aspetto che aumenta ancora di più la sensazione di ineluttabilità e intransigenza di una sconvolgente parabola morale, sul confine tra l’amore e la follia.

Il film non è ancora uscito in Italia e non mi risulta abbia una data d’uscita o una distribuzione.

Purtroppo tra le nostre certezze non c’è solo la grandezza del cinema di Bong Joon-ho, ma anche la cecità della distribuzione italiana che, dopo una breve infatuazione per il cinema di Seoul e dintorni, nonostante l’ormai immancabile partecipazione ai maggiori festival del mondo, il successo di una rassegna come il Far East Film di Udine e gli scaffali delle videoteche piene di film coreani, ha ricominciato a ignorare bellamente per la distribuzione in sala anche gli autori più celebri e celebrati come Park Chan-wook, Kim Ki-duk e, appunto, Bong Joon-ho.

2012, Roland Emmerich 2009

2012
di Roland Emmerich, 2009

L’ho ammesso con una certa franchezza: il nuovo film di Roland Emmerich mi ispirava quantomeno curiosità, e sono partito senza troppi pregiudizi, conscio di quel che si trattava e di ciò che mi sarei potuto aspettare. Peccato che il film si sia rivelato una tale catastrofica puttanata da oscurare le buone intenzioni – sia mie che della gente che ha investito questa roba. Peraltro, guadagnandoci di brutto.

Scritto di nuovo a quattro mani con Harald Kloser, con il quale Emmerich aveva già realizzato l’orripilante 10,000 BC, 2012 (nessuna sopresa) è caratterizzato da una sceneggiatura bambinesca basata su una sorta di imbarazzante impianto corale, tra intrecci romantici e daddy issues, con dialoghi che mescolano i soliti monologhi motivazionali del cazzo, demagogia spiccia e catchprase da poveretti. D’altra parte, la progressione narrativa è a prova di decerebrato, e ogni sequenza (una identica all’altra, una accanto all’altra: aumenta soltanto il mezzo di trasporto e/o la quantità del disastro) è costruita sull’oliato meccanismo del "salvi per un pelo".

Cinema di puro incontrollabile divertimento, vorrebbe essere – ma il divertimento sembra essere solo quello, comprensibilmente morboso, dei suoi autori nel far andare a pezzi questo o quello: difficile definire tale l’esperienza dello spettatore, messo davanti a centosessanta minuti di questa robaccia, con John Cusack e Chiwetel Ejiofor costretti a bofonchiare per mantenere un briciolo di dignità. E gli effetti speciali? A volte impressionanti, a volte francamente posticci: se quello cercate, quello troverete. Dopotutto Emmerich non sottomette la tecnologia alle tematiche umaniste, come uno Spielberg – le luci del film sono puntate sugli effetti speciali, dietro i crolli e le devastazioni non c’è altro.

Chiamatelo onesto, io lo chiamo due palle così.

Jennifer’s body, Karyn Kusama 2009

Jennifer’s Body
di Karyn Kusama, 2009

L’elemento più sorprendente di Jennifer’s body, forse l’unico di tutto il film, è l’impari lotta tra la stupenda Amanda Seyfried e Megan Fox – in cui è quest’ultima però, contro ogni previsione, a essere sconfitta su tutti i fronti. Non solo la prima è qui, lo dico sinceramente, più bella della seconda (oltre che più brava, capace, mimetica: la Fox è condannata a sembrare una fica imbabolata anche quando dovrebbe sembrare sfatta e imbruttita) ma l’intero film, dichiaramente fin dall’incipit, è incentrato sulla prima con la seconda a fare da perno tematico, da oggetto del desiderio (come suggerito da titolo), più che da elemento dinamico. In tal senso Jennifer’s body è una reificazione di Megan Fox ancora più spinta di quella effettuata in How to lose friends. A proposito di progetti ben scelti.

Per il resto, Jennifer’s Body è infatti una sciocchezzuola che fa affidamento soprattutto, oltre che sulle doti delle due protagoniste, sulla riconoscibilissima sceneggiatura di Diablo Cody. Che è insieme la cosa migliore e peggiore del film: riesce infatti a innestare qua e là briciolette d’animo, qualche spunto ironico, e un pizzico di wit in quello che è un horror adolescenziale di poco conto con due protagoniste di indubbio carisma che a un certo punto limonano. Ma allo stesso tempo non fa che rincorrere il suo stesso mito con il solito solito carico di improbabile slang e neologismi a bella posta, dietro ai quali però fa anche bella scena di sé un plot stupidello e pretestuale nonché uno dei moventi narrativi più idioti che io abbia mai visto sullo schermo.

Probabilmente la Cody ha solo bisogno di un regista come si deve: difficile trovarne uno qualunque in questo film. Dopo aver diretto Æon Flux, il più brutto film del 2005, Karyn Kusama (ancora impacciata, nonostante sembri cavarsela meglio nei manicomi che tra i corridoi del liceo) forse è ancora convinta di essere una poetessa del cinema al femminile, ma intanto è diventata quella che dirige film "altrui", scritti da sceneggiatori più famosi di lei. E un po’ se lo merita.

Nei cinema dal 10 dicembre 2009

Ink, Jamin Winans 2009

Ink
di Jamin Winans, 2009

Ci vuole un bel coraggio, a fare un film fantastico negli Stati Uniti con soli 250 mila dollari: e Jamin Winans, al suo secondo film, ne ha da vendere. Non è l’unica dote che possiede: è spavaldo, capace, talentuoso. Tanto da riuscire, con questa storia circolare e inquietante sullo sfondo di battaglia tra guerrieri portatori di sogni e minacciosi creatori di incubi, a diventare uno dei più particolari casi distributivi di fine decennio.

Il film infatti, dopo il giro consueto dei festival di genere dallo scorso gennaio, non ha trovato una distribuzione. Così Winans e soci hanno pensato di venderlo autonomamente in dvd sul sito ufficiale, ben contenti che il passaparola e i torrent si occupassero del resto. Risultato: decine di migliaia di scaricamenti in poche ore, e il film scartato dai produttori è diventata testata d’angolo*. Dopotutto, un oggetto così piccolo e bizzarro ha trovato sulla rete il suo target ideale: con riferimenti che sembrano andare dal Sandman di Neil Gaiman al Dark City di Alex Proyas, con una sovrapposizione dei piani temporali che sembra uscita da un Terry Gilliam, con un gusto per l’azione figlio di questo decennio sotto a cui pulsa un’indole da fiaba "analogica", Ink è uno dei film più autenticamente e fieramente indipendenti dell’anno.

I suoi limiti, alla fine, rientrano più che altro delle sue caratteristiche produttive: la fotografia digitale a volte troppo patinata e rielaborata, oppure (soprattutto, per quanto mi riguarda) l’assenza dell’audio in presa diretta, per esempio, sono scelte probabilmente obbligate ma che danno al film una sensazione di fastidiosa artificialità. Ma Winans riscatta trasformando molti di questi stessi limiti in opportunità, e alla fine questo suo complesso immaginario onirico, derivativo nei suoi componenti ma originalissimo nella composizione, viene riportato sullo schermo con coerenza narrativa e un gusto maturo per l’invenzione visiva.

Con tutta probabilità, un film e un regista di cui sentiremo ancora parlare.

*per i dettagli, rimando al post su TorrentFreak.

Friday Prejudice #198

[datemi una c, datemi una o, eccetera]

Coen, Moon, Whoo! Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Piovono Polpette, Phil Lord e Chris Miller 2009

Piovono polpette (Cloudy with a chance of meatballs)
di Phil Lord e Chris Miller, 2009

Non provo una cieca fiducia nei film d’animazione digitale non-Pixar. O almeno, provo una naturale diffidenza. Che può essere superata, però, semplicemente, producendo un buon film. La Sony Pictures Animation, dopo il tremendo esordio del dreamworksiano Open season, era già riuscita a colpirmi positivamente con Surf’s up, che provava a percorrere strade nuove trasportando il mockumentary nel cinema d’animazione.

Tratto da un libro illustrato pubblicato nel 1978, celeberrimo negli Stati Uniti, il film di Lord e Miler è un caso meno limite – ma è anche e indubbiamente il più compiuto risultato di casa Sony ad oggi. Se è infatti vero che in tutto l’impianto narrativo non c’è una virgola di novità (la dinamica padre-figlio su cui è costruito il soggetto è quanto di più radicato ci sia) Meatballs ha una personalità molto forte, una scrittura più che adeguata alla ricchezza visiva e, prima di tutto, è uno spasso indicibile. Tra personaggi quasi burtoniani (il sindaco che ingrassa e l’ex bambino prodigio sono eccezionali) e uno spirito sanamente goliardico e citazionista, il film è un’operina moderna e coloratissima che ammicca con un’occhio alla cultura pop televisiva e cinematografica, e con l’altro al fascino manicheista del libro della buonanotte.

Ma ciò che conquista più di tutto, al di là del surreale e poetico incipit con la presentazione del contesto e del personaggio di Flint, è la quantità e la qualità delle invensioni visive che culminano nella furia distruttiva di tutta la seconda parte. Tra tornado di spaghetti e infernali tunnel di burro di arachidi, lo slancio visionario degli animatori, chiamati a lavorare su ogni possibile variante di "cibo mutante" (compreso un esercito di polli arrosto quasi inquietante) si scatena davvero senza tregua al ritmo da film catastrofico, riuscendo a smuovere le acque dense del sistema-animazione americano.

Saremo anche lontani dalla summa artistica degli ultimi film della Pixar, ma cosa importa: Meatballs è davvero una gran bella sorpresa, per chiunque abbia mai sognato di passare un romantico pomeriggio in un palazzo di gelatina.


Nei cinema dal 23 dicembre 2009

Funny People, Judd Apatow 2009

Funny people
di Judd Apatow, 2009

Tra le intenzioni e le ambizioni di questa terza regia del prolifico produttore e sceneggiatore, che ha segnato come nessun altro la commedia americana di questo decennio, e i suoi risultati, c’è una distanza profonda, direi abissale. Quello che doveva essere, dichiaratamente e in ogni suo passaggio, il vero primo film d’autore di Apatow, o meglio la summa più spiccatamente artistica di un percorso che fino a oggi aveva prediletto l’anima commerciale lasciando semmai ai critici e ai blogger le sovrainterpretazioni, si è rivelato un sonoro fallimento.

Chiaramente, che Apatow fosse un regista di poco conto avevamo già potuto vederlo con i suoi due precedenti film, 40 anni vergine e Knocked up, entrambi amatissimi dai media statunitensi nonché dal pubblico, per quanto decisamente meno riusciti dei film che Apatow stesso ha patrocinato negli anni, facendoli dirigere ad altri più capaci di cui non stiamo nemmeno a ripetere i nomi. Questa volta però il suo film è così palesemente mastodontico, pesante e indigeribile, che anche la critica in patria ha cominciato a volgergli le spalle.

Dopotutto, il disinteresse del pubblico – o meglio ancora, il sovvertimento davvero estremo delle sue aspettative in un genere normalmente canonico come la commedia (anche se "drammatica"), è un punto cruciale di questo film, caratterizzato infatti da un’andatura ondivaga e da una sorta di doppio percorso narrativo che lo spezza nettamente in due. Facendone quasi due opere separate, e amplificando oltremodo la durata già interminabile delle due ore e mezza (circa, a seconda che si tratti della versione theatrical o unrated). Ma una volta conclusa la prima parte, quella più interessante per come mescola (anche se nel modo più paraculo possibile) il dramma alla comicità, la seconda diviene quasi completamente pleonastica.

Rinunciando a tirare per le lunghe in questo modo tutta la manfrina del triangolo, stirata all’inverosibile nella seconda metà pur di farci star dentro più umorismo possibile basato su Eric Bana con l’accento australiano, forse Apatow avrebbe fatto un film meno originale e stimolante, ma probabilmente ne avrebbe tratto un film più riuscito. Non saremo certo noi a dire a un regista come avrebbe dovuto fare il suo film: ma in quel modo sarebbe stato un film soltanto inutile – così com’è è un film lungo, palloso e a tratti pure un pochetto imbarazzante.

Ambizioso, si diceva. Perché questo è un film in cui Apatow vuole fare un sacco di cose, con l’ansia di chi non avrà un’altra possibilità: raccontare con piglio semi-autobiografico la vita quotidiana degli stand-up comedian; parlare della vita e della morte, e parlare del modo in cui si raccontano la vita e la morte al cinema; raccontare un buddy movie allontanandosi dalla moda del bromance e avvicinandosi al più classico mentore vs allievo; prendere un po’ per il culo a random l’establishment hollywoodiano e televisivo; prendere Janusz Kaminski e dirgli sparami quelle luci bianche cazzo, fammi un po’ di dramma qui; mettere in scena la solita noiosissima rimpatriata di amici, da Andy Dick a Sarah Silverman, senza doversi preoccupare di giustificarla perché tanto fanno tutti la parte di loro stessi; dare un’altra (…) possibilità alla vena "seria" del suo amico del cuore Adam Sandler.

Quest’ultimo è stato esaltato anche da coloro che hanno odiato il film (sempre in patria, si intende: da noi è uscito ma non se l’è cagato nessuno) e il suo George Simmons è effettivamente un personaggio meravigliosamente sgradevole e impenitente, così come la sua performance è riuscita, almeno nel suo lato drammatico. Peccato che non faccia ridere, non quanto Seth Rogen almeno. E peccato che tutte queste intenzioni, buone o meno, pur di scartare la melassa affoghino comunque nella noia. E peccato, infine, che le cose che funzionano meglio siano le scenette separate (o "separabili"), come quella di Rogen e Sandler che sfottono il medico teutonico per il suo accento. In questi microambiti funziona tutto: la scrittura, la recitazione, si ride, anche parecchio. Ma quando il film vuole andare da un’altra parte, non ci riesce manco per sbaglio. Oppure non ci prova?

Mi spiego: alla fine Funny People, con il senno di poi, oltre che essere un pacco micidiale, dà anche la spiacevole sensazione che tutta la questione delle ambizioni fosse un po’ un abbaglio. Che il miscuglio bizzarro e squilibrato di dramma e commedia non fosse altro che un pretesto, che la pretesa provocazione linguistica non fosse altro che gente che infila a caso in un dramedy qualunque battute sul cazzo e sulle palle, che in fondo tutto lo stravolgimento non fosse altro che la scusa per rincicciare dei divertenti monologhi di Sandler, di Rogen, della loro simpatica combriccola. E allora, dico io, ridateci Kamikazen.

Nota: qui si è vista l’edizione in lingua originale, e di quella si parla nel post. Questo è un film talmente basato sulla comicità verbale e suoi dialoghi che lo considero impossibile, o estremamente difficile, da giudicare se visto doppiato in italiano. Insomma, fate conto che se l’avete visto in italiano, per quanto mi riguarda, avete visto un altro film. Probabilmente peggiore.

Valentino – L’ultimo imperatore, Matt Tyrnauer 2009

Valentino – L’ultimo imperatore (Valentino: The Last Emperor)
di Matt Tyrnauer, 2009

Per apprezzare il documentario dedicato allo stilista italiano è necessario interiorizzarne la regola di base: che si tratta di un lavoro per sua natura agiografico e celebrativo. Non è necessariamente un male di per sé, ma è un fattore che chiede a gran voce di essere accettato: la figura di Valentino non viene mai messa in discussione né sminuita, nemmeno da dettagli del tutto personali (il suo essere parecchio isterico) che anzi confluiscono in un ritratto completamente soggiogato al fascino del suo mestiere, della sua vita, della sua importanza storica.

Ma il lavoro di Tyrnauer riesce a distinguersi, nonostante tutto. Anzi, è proprio in questa devozione acritica che il film funziona meglio. E se la parte del "dietro le quinte", tra squilibri individuali e professionali e sartine incazzate, può essere affascinante e interessante, è nella dimensione personale e umana di Valentino che si giocano le armi migliori – e il cuore del documentario non è tanto la festa per i 45 anni di carriera ma più propriamente la storia d’amore tra Garavani e Giancarlo Giammetti, il respiro romantico e malinconico della loro quotidianità.

Dopotutto, in un film che vuole parlare (e che lo fa compiutamente) della fine di un’era, della fine del romanticismo e dell’artigianato della moda, divorato dagli interessi industriali e dalle regole del denaro, anche quella tra Valentino e Giancarlo suona come l’ultima storia d’amore possibile, una storia romantica e decadente. Un amore e un mondo che si rispecchiano l’un l’altro e che svaniscono – non con un sospiro, ma tra i fuochi d’artificio. E che forse, suggeriscono i titoli, tutto sommato troveranno sempre un modo per rientrare dalla porta posteriore.

Friday Prejudice #197

[cinquecento, coi tuoi problemi d'avviamento]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Humpday, Lynn Shelton 2009

Humpday
di Lynn Shelton, 2009

Non so per quanto ancora durerà la moda del mumblecore* nel cinema indipendente statunitense anche perché, se le star del movimento come Mark Duplass e Greta Gerwig hanno cominciato a espandere i loro confini (per dire, saranno entrambi in Greenberg di Noah Baumbach, la seconda come co-protagonista accanto a Ben Stiller), gli stessi film più rappresentativi di questo modo di fare cinema sono decisamente "cresciuti". Questo film, presentato alla Quinzaine di Cannes dopo essere stato a Sundance 2009 (quindi ne parliamo comunque troppo tardi) dove ha vinto un premio speciale della giuria, è un buon esempio.

Humpday è un film meno ingenuo di alcuni suoi "precedenti" e molto più maturo di quanto il suo soggetto voglia farci credere, oltre che palesemente più "pensato" – anche in relazione al contesto in cui è stato prodotto. Estremizzazione del buddy movie che contiene infatti al suo interno (come già faceva Baghead) anche una sonora dose di autoironia nei confronti del circuito che ha lanciato la moda stessa, ha come protagonista una coppia di amici, dichiaratamente etero, che decide di girare un porno gay indipendente in una stanza d’albergo per un festival a tema chiamato Humpfest. Uno soltanto perché non ha mai concluso niente nella vita, l’altro perché vuole dimostrare (al suo amico e soprattutto a se stesso) di non essersi "seduto" con il matrimonio. Tutto lì. Oppure no?

Il film è sceneggiato e diretto da Lynn Shelton, che si ritaglia un piccolo ruolo, e che mostra un talento notevole nell’uno e nell’altro compito: caratterizzato da dialoghi sagaci e da una costruzione narrativa tesa e in crescendo che sfocia (senza sfociare) nella memorabile sequenza conclusiva, con una soluzione finale osservata con malcelata malinconia e non senza impietoso sarcasmo, Humpday non è solo uno spasso indicibile ma ha il pregio di andare a guardare apertamente e con insistenza dietro le tendine del quotidiano. Scavando con le unghiette dentro ossessioni borghesi, senza risparmiare però anche piccole ipocrisie della cultura alternativa.

Ma Humpday non sarebbe la stessa cosa senza le performance perfette dei due protagonisti – il già citato habituè del mumblecore Mark Duplass e Joshua Leonard, niente meno che il Josh di The Blair Witch Project.

Il film non sembra avere distribuzione italiana, ma i diritti dovrebbero essere nelle mani della Archibald Enterprise Film. Speriamo che ne facciano buon uso.

*post precedenti: Quiet City, Hannah takes the stairs, In search of a midnight kiss, Baghead.