febbraio 2009

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Rovdyr (Manhunt), Patrik Syversen, 2008

Rovdyr (Manhunt)
di Patrik Syversen, 2008

Non si può dire che l’horror norvegese abbia un grande passato alle proprie spalle: Cciò nonostante, un film del 2006 chiamato Fritt Vilt (Cold prey) fece entusiasmare molti per la sua capacità di rinverdire un plot molto classico e abusato con uno stile ineccepibile e una regia solidissima.

Mentre in Norvegia è già uscito Fritt Vilt II (in arrivo sul mercato DVD inglese a fine Aprile), l’esordiente Patrik Syversen prova a dire la sua su quello che, visti i risultati, potrebbe essere una tendenza da tenere d’occhio. Anche se, lo diciamo subito, Rovdyr non è fico quanto Fritt Vilt. Non c’è infatti quasi niente che non si sia già visto in decine e decine di altri film: negli anni ’70 (richiamati anche dalla patina dell’otttima fotografia di Håvard Andre Byrkjeland) un quartetto mal assortito di ventenni in gita, ovviamente tutti bellissimi come sempre, diviene la preda di una vera e propria caccia nei boschi norvegesi. Aggiungeteci la traduzione del titolo: "rovdyr" significa "carnivori".

Eppure, nonostante la prevedibilità dell’assunto, dello svolgimento – ribaltamento prospettico compreso – e persino del solito ovvio finale beffardo, Rovdyr funziona bene: è teso e allucinato, violento e truce come gli si richiedeva, ha un’ottima cura del sonoro (e le musiche del britannico Simon Boswell), e per i suoi personaggi, per quanto accennati frettolosamente, si riesce a provare antipatia o simpatia – soprattutto nei confronti della spettacolare (in ogni senso) Henriette Bruusgaard, grazie a un buon talento nell’evitare di ricorrere (considerando la benvoluta brevità del film) a forzature di sceneggiatura.

Non è l’unico thriller/horror recente (Fritt vilt era un buon esempio, ma anche l’americano The strangers, per esempio) a mostrare come, in certi contesti, se si ha una mano robusta e nessuna pretesa di rileggere o rivoluzionare i generi, si possono percorrere strade già battute e portare a casa lo stesso un lavoro come si deve.


Statisticamente improbabile un’uscita nelle sale italiane. L’edizione inglese di Rovdyr in DVD uscirà il 30 marzo 2009. Nel frattempo, potete recuperare il DVD inglese di Fritt Vilt.

Friday Prejudice #160

[urmel!]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Giulia non esce la sera, Giuseppe Piccioni 2009

Giulia non esce la sera
di Giuseppe Piccioni, 2009

Se c’è un problema che non ha, il film di Piccioni, è il controllo delle emozioni: tutto avviene attraverso dinamiche di repressione, soffocamento, persino di reazioni come il pianto e la rabbia. Giulia è un film in cui la gente è felice, soffre, e muore in silenzio – o facendo poco rumore. In tal senso, meglio un film come Giulia che uno in cui la gente sbraita e si dimena – contando anche il ruolo centrale, palesemente metaforico – ma anche in qualche modo, che so, sinestesico? – dell’acqua.

Ma Giulia, nonostante le buone premesse e una realizzazione accurata (la fotografia del solito bravissimo Luca Bigazzi, che fa esattamente il gioco di Piccioni nell’uso delle luci e dei colori) non lascia veramente soddisfatti. Prima di tutto perché, se ne discende da quanto detto finora, è un film tanto riflessivo quanto deprimente – lo si sapeva: ma bisogna farsi trovare preparati. Inoltre, per un problema legato alla sceneggiatura, che cede alla tentazione di spiegare tutto, anche le metafore o – peggio – ciò che lo spettatore (anche da un punto di vista meramente narrativo) potrebbe immaginare da sé. Giulia è uno di quei film italiani durante la visione dei quali ci si ritrova spesso, troppo spesso, a pensare: potrebbe mai una persona dire davvero queste cose, con queste parole, con questo tono?

I due attori sono bravi (molto: Mastandrea soprattutto, che getta degli improvvisi lampi di tiepida ironia nella scena, ed è tutta farina del suo sacco), i comprimari pure, e il film tutto sommato non è deprecabile né ridicolo. Ma non si capisce dove finisca l’introspezione intima e dove inizi il guardarsi l’ombelico, il tipo di cinema insomma di cui per anni abbiamo cercato di liberarci – e se mi chiedete se adesso un film così abbia un senso e se faccia bene alla salute del cinema italiano, mi toccherà rispondervi che no, probabilmente non serve proprio a nulla. Non fa male a nessuno: e allora?

L’unica cosa indiscutibile, va da sé, è la bruttezza del titolo.

Update: mi rendo conto solo ora di non aver detto che la colonna sonora è dei Baustelle. Lo dico adesso: la colonna sonora è dei Baustelle.

I love shopping, P.J.Hogan 2009

I love shopping (Confession of a shopaholic)
di P.J.Hogan, 2009

Voi l’avete mai letto, un libro di Sophie Kinsella? Io no. Ma sono sicuro che ci sono un sacco di sue fan, tra le amabili lettrici di questo blog, e quindi vorrei liberare il campo da possibili fraintendimenti: ogni possibile avversione preconcetta del sottoscritto nei confronti della chick-lit non ha nulla a che fare con il giudizio sul film tratto dai libri della scrittrice londinese, che, state tranquille, riesce a essere una baggianata anche senza bisogno dell’autrice che arriva a dargli man forte.

Purtroppo infatti, nonostante Hogan abbia nel suo CV un film come Il matrimonio del mio miglior amico, una delle commedie leggere più riuscite del decennio scorso (o almeno, una delle poche wed-com a non essere un massacro intestinale), dimostra di aver dimenticato quasi tutto – diciamo pure tutto. Scritto da un generatore automatico di sceneggiature (probabilmente inceppato sul grado zero), basato su assunzioni bislacche e grottesche (e su una sospensione dell’incredulità buona giusta per un pubbico di alienati), recitato come un cartoon ma senza un briciolo di ironia (né tantomeno di risate), e tragicamente moralista, I love shopping è un film maledettamente idiota: un po’ perché gli piace esserlo, d’accordo, ma può essere una giustificazione.

Se siamo un gradino, o anche qualche gradino, sopra Bride wars, è merito di Isla Fisher e del suo Candido shopaholico: ce la mette davvero tutta, e riesce a risultare quasi simpatica – o meglio, la cosa meno insopportabile della baracca – nonostante alla fine sia poco più che una Amy Adams con più tette e meno talento.

The fall, Tarsem Singh 2006

The fall
di Tarsem, 2006

All’inizio del decennio Tarsem Singh, che negli anni ’90 era uno dei più premiati e talentuosi registi di videoclip nonché figura essenziale della pubblicità d’autore, esordì al cinema. Il film però non uscì come si sperava: The cell non riusciva infatti a coniugare sullo schermo il fascino visivo del regista indiano, le sue citazioni di Giger e Damien Hirst, con la sceneggiatura brutta e prevedibile di Mark Protosevich e l’indoddisfacente cast – con Jennifer Lopez in testa.

Molti anni dopo, Tarsem è tornato alla regia con un film che, per non correre rischi, si è autofinanziato, in modo coraggiosamente indipendente, girando il mondo tra splendide location, tra la Namibia e il Sud Africa, per quattro anni – per raccontare la storia di uno stuntman del cinema muto dagli istinti suicidi che, costretto in un letto d’ospedale a Los Angeles, ritrova la voglia di vivere inventando una lunga fiaba a una bambina persiana col braccio ingessato. Un film che, dopo la presentazione a Toronto nel 2006 e un lungo travaglio distributivo, ha trovato una porta aperta in molti paesi (tra cui Russia, USA, Giappone, UK, Spagna, Corea) nel corso del 2008, e che uscirà a breve anche in Belgio e Germania.

E questa volta Tarsem va a segno: la bella e compiutissima sceneggiatura scritta insieme a Dan Gilroy e Nico Soultanakis gli permette di sfruttare in modo finalmente completo e per nulla pretestuale la sua vena visionaria, riempiendo lo schermo di invenzioni visive eccezionali (non ultima una breve ma stupenda sequenza in stop motion realizzata dai fratelli Lauenstein di Balance), trasformando l’ironia in epica, e le location esotiche in luoghi magici dove tutto è possibile, e riucendo infine a far commuovere, e nemmeno poco – anche grazie all’eccezionale lavoro sui due attori (lui è Lee Pace, futuro "piemaker" in Pushing daisies, lei è la giovanissima Catinca Untaru, classe 1997), la cui performance è (pare) basata parzialmente sull’improvvisazione.

Forse è lungo qualche minuto di troppo: ma è affascinante e immaginifico, inventivo e sanamente strabordante, oltre che tenerissimo – in definitiva, un film a cui, anche per l’attesa dichiarazione d’amore finale nei confronti del cinema in ogni sua forma e manifestazione, non si riesce a non voler bene.

Ashes of time redux, Wong kar wai 1994-2008

Ashes of time redux (Dung che sai duk redux)
di Wong Kar Wai, 1994-2008

Ashes of time è una delle più grosse e paradossali frustrazioni del cinefilo "orientofilo" medio: uno dei film più acclamati e noti del cinema di Hong Kong del decennio scorso è allo stesso tempo uno dei meno visti. Il perché, è presto detto: trovare una copia decente del film era quasi impossibile, e a poco serviva la famigerata edizione hongkonghese, di scarsissima qualità.

Visto che di Ashes of time qui si è già parlato (4 anni e mezzo fa: cielo, come si invecchia in fretta), considerate questo come un mero post di servizio: è da poco reperibile l’edizione inglese di Ashes of time redux. Il risultato dell’eccellente lavoro di ripulitura (con l’aggiunta di un appropriato digital coloring) e della parziale riscrittura operata, con autocritiche forbici alla mano (sono spariti quasi 10 minuti), da Wong Kar Wai stesso, è un film di cui finalmente possiamo ammirare anche lo splendore visivo.

Un film bellissimo, intenso, acceso e contrastato, anti-spettacolare ma emozionante, in cui si riscontra non solo una rilettura autoriale del wuxiapian spinta a livelli di astrazione che nessuno ha mai più avuto il coraggio (o il talento) di raggiungere, ma anche tutta una serie di temi assolutamente essenziali nel cinema del maestro di Shanghai – prima tra tutti, ovviamente, la riflessione sempre centrale, profonda e commovente, sulla memoria, sul ricordo e sul rimpianto.

Il film è stato presentato l’anno scorso a Cannes e a Toronto, ma nonostante l’uscita theatrical in Francia, UK e USA, e nonostante la fama del suo regista anche da noi, non ha trovato posto nelle sale italiane – dove, non c’è bisogno di dirlo, l’impressionante fotografia di Cristopher Doyle avrebbe fatto la sua porcissima figura.

Il mio consiglio è quindi scontato, quasi quanto il DVD: acquistatelo.

Friday Prejudice #158

[what the bau]

Ecco qui il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Bride wars, Gary Winick 2009

Bride wars
di Gary Winick, 2009

Cosa fareste se aveste a disposizione una macchina del tempo, ovviamente dopo aver evitato di far andare a monte il matrimonio dei vostri genitori eccetera? Io ieri sera ho pensato che potrei andare nel 1977, sul set di Eraserhead, battere il dito su una spalla di Frederick Elmes tra una ripresa del calorifero e l’altra e dirgli "zio, tu tra circa trent’anni sarai il direttore della fotografia sul set di un film con Kate Hudson in ci sono non una, ma due canzoni di Duffy", così, per vedere che faccia fa.

Non lo so se Bride wars sia la più brutta commedia vaginale mai girata, certo è che non me n’è venuta in mente una peggiore. E mi ci sono messo. Nel riassumerla a un amico, oggi pomeriggio, gli ho detto "ci sono due tipe che per mezz’ora fanno aaaa, poi per un’ora fanno grrrr, e poi fanno oooo". Gli unici timidisissimi sorrisi li regala Kristen Johnston, che comunque rifà sempre lo stesso personaggio del sublime 3rd rock from the sun: il resto è un’accozzaglia davvero imbarazzante di scenette cattivelle intervallate da inutili personaggi di secondo piano e dalle stesse due insopportabili cretine che frignano per dei conflitti interiori che in confronto Topo Gigio è un tossico, il tutto scritto da due tizie anonime del cast del SNL prestate al cinema, con l’incipit rubacchiato a The wedding planner (…) e senza nemmeno il coraggio di infilarci un sottotesto lesbico – così, per dare un po’ di pepe a un film privo – beh, privo di qualunque cosa.

Non lo so, probabilmente il problema è il pene: posto che questo film è dichiaratamente dedicato al pubblico femminil e che i maschietti non possono capirlo perché non devono (immagino), mi piacerebbe che una spettatrice mi spiegasse che cosa diavolo potrebbe mai trovarci una donna in un film del genere – che, oltre a essere l’invereconda puttanata che già la devastante accoglienza USA aveva fatto presagire, le fa passare tutte come delle pazze incontrollate che appena vedono un bouquet non capiscono più un cazzo e diventano delle stronze da galera. Tutte. Perché a prescindere dal messaggio finale di amicizia vaginale universale, con la vulva che vince 100 a 1 sul pisello, se fossi una donna con un briciolo d’orgoglio, fuori da un film così ci farei i picchetti, altro che.

E lo so che l’hai girato prima di Rachel, ma non cambia niente: Anne, mia cara, adesso voglio che ci chiami tutti al telefono, uno per uno, e ti scusi. In lacrime. Altrimenti si torna alla guerra.

Inkheart, Iain Softley 2008

Inkheart – La leggenda di Cuore d’Inchiostro (Inkheart)
di Iain Softley, 2008

Non voglio spendere troppo tempo per parlare di un film le cui caratteristiche si potrebbero raccontare durante quattro o cinque piani d’ascensore, che basterebbero per includervi anche i suoi lati positivi, dove il principale è la sua totale inoffensività – e di rimando, la sua quasi totale inanità. Inkheart non serve a nessuno e non fa male a nessuno, insomma: vedete voi se questi sono dei pro o dei contro.

Dal canto mio, non mi sono arrabbiato né divertito granché, il massimo sbilanciamento che mi ha dato è stato lo sbuffo annoiato e l’apprezzamento per il décor generale. Niente di grave: non mi aspettavo di certo altro. Da un’idea così vecchiotta e abusata (la letteratura che prende vita, ancora una volta), trarre qualcosa di veramente interessante sarebbe stata una sorpresa, e non mi sembra che nessuno si sia sforzato eccessivamente per tirarla fuori – e includo nel mazzo le pigrissime performance di due pezzi da novanta come Andy Serkis e Helen Mirren. L’unico che si sbatte un po’ è Paul Bettany, il che è tutto dire. Tutto qui.

Particolarmente bizzarro ed esaltante però, per chi come me ha bazzicato la Riviera Ligure di Ponente tutta la vita, trovare pezzi di Alassio e Albenga (e non solo) sparsi qua e là per il film.

Dream, Kim Ki-duk 2008

Dream (Bi-mong)
di Kim Ki-duk, 2008

Non ho mai nascosto il mio amore incondizionato per il cinema di Kim Ki-duk, regista che negli ultimi anni ha fatto qualche passo falso, ma che ho scelto di difendere parzialmente o totalmente anche con opere altrove discusse come Soffio, discutibili come L’arco, e persino Time – che, lo ammetto, era un film sostanzialmente sbagliato. Ma questa volta è diverso: Kim non era così in forma dai tempi di Ferro 3, film con il quale quest’ultima opera ha un rapporto di fratellanza minore, evidentissimo nel finale, per esempio, o nella colonna sonora. Ma Dream è un film che non si limita alla maniera, pur rientrando alla perfezione nei canoni dell’autore coreano e recuperando molte figure note come l’autoinflizione del dolore e il paradosso narrativo (qui anche linguistico: Odagiri Jô recita infatti in giapponese, anche se la cosa si perderà del tutto in un’eventuale edizione italiana). Un’operetta surrealista, inquietante e leggiadra al tempo stesso, che nonostante qualche ingenuità (come l’uso dello sfocato e dello step frame) sfrutta i meccanismi onirici, non per redarguire o riflettere su implicazioni psicanalitiche, ma per trarre la poesia dal cuore dell’inesplicabile, dall’immagine pura, dal simbolo, dal sogno. E, soprattutto: un film insieme astratto e sanguigno, insieme concreto e incorporeo: e la bellezza del film scaturisce proprio dal contrasto tra la fisicità delle ferite e del rumore dei colpi (di corpi colpiti, battuti, caduti), e la natura eterea dei corpi, pronti a dissolversi e a reincrociarsi in un abbraccio metempsicotico che fa il rumore, bianco, di un battito d’ali.

Non è ancora prevista un’uscita italiana. Nel frattempo, si può acquistare il DVD in edizione hongkonghese (Regione 3).

Nick & Norah, Peter Sollett 2008

Nick & Norah: tutto accadde in una notte (Nick & Norah’s infinite playlist)
di Peter Sollett, 2008

Era inevitabile che un film del genere scatenasse, nel suo piccolo e nel piccolo dei blog, qualche polemica, soprattutto sul modo in cui nel film stesso viene rappresentata la sorta-di-sottocultura indie – chiamiamola così, anche solo per sintesi. Le due facce potrebbero essere riassunte, ai due poli opposti, nel post caustico di Valido, su Polaroid e nella difesa a spada tratta di Giorgio, su Junkiepop. Ora, si sa che a me piace (1) fare l’avvocato del diavolo (2) deridere quando c’è da deridere (3) dare un colpo al cerchio e uno alla botte, quando è possibile, per non ridurre il tutto a un cul de sac manicheista.

Da una parte sono dunque d’accordo sul fatto che Nick & Norah sia un film facilmente derisibile: nella sua ora e mezza scarsa, il film infila una tale sfilza di luoghi comuni sulla vita dei giovani straight edge newyorkesi e più in generale sugli adolescenti che stanno crescendo a pane e Pitchfork, appiccicati l’uno accanto all’altro in modo didascalico e pretestuoso, che, a patto di sapere vagamente di cosa si parli (e non è così scontato: anzi, francamente, non riesco a immaginare cosa potrebbero capirci gli adolescenti "normali" italiani, né tantomeno come diavolo si possa aver adattato un film simile nella nostra lingua), è davvero difficile prenderlo sul serio o guardarlo senza dire "eh vabbè però cacchio" ogni tot minuti.

Se però la sceneggiatura fa lo stesso effetto di un cinquantenne che, seppur per ammirevole tenacia etnografica, si piazza tra i ventenni e comincia a dire "Yo" e a fare namedropping di gruppi indie rock trovati tra i "similar artists" di Lastfm (e il fatto che Sollett di anni ne abbia solo 32 non cambia granché), quello che ne risulta, non è proprio un film così disgustoso. Insomma, il discorso è questo: Nick & Norah rappresenta bene questa sorta-di-generazione, la loro vita interiore, il modo in cui si rapporta ai gusti musicali? Probabilmente no – anzi: no. Ma, parlo per me: fino a che punto mi importa? Credo sia una questione di prospettive, che non annulla quindi le critiche né gli elogi – il solito maledetto soggettivismo paraculo che ci salva sempre in corner.

Il film, quindi, com’è? Ecco, il film in sé non è che sia poi così orripilante. Piacione quanto vuoi, approssimativo e frettoloso, anche nel tratteggio dei personaggi secondari (gli "amici tutti gay", l’amica sbronza marcia) ma anche leggero e garbato, ben interpretato (qui si fanno carte false per Kat Dennings, bella e brava – no, non si sentono ragioni, l’ho trovato persino un personaggio credibile), con qualche idea davvero ottima (come la "scena di sesso", tra virgolette) e persino originale nel suo inseguire in modo del tutto programmatico una vacuità – in cui, mi rendo conto, non c’è traccia di analisi sociale, perché si tratta meramente di un modo per portare a casa un filmetto adolescenziale, senz’arte né parte ma con una colonna sonora davvero notevole, infastidendo il meno possibile.

Soffocare, Clark Gregg 2008

Soffocare (Choke)
di Clark Gregg, 2008

Clark Gregg è un attore, è uno di quei caratteristi che ogni tanto spuntano nei film e tu pensi ehi guarda Jason Statham e poi guardi meglio ed è Clark Gregg. Clark Gregg ha scritto anche lo script di Le verità nascoste di Zemeckis, che era bello (il film, e pure lo script), ma punto. Poi, ad un certo punto, l’attore Clark Gregg ha deciso di adattare di suo pugno e anche di dirigere uno dei migliori romanzi di uno dei più acclamati scrittori contemporanei: Chuck Palahniuk.

Chiunque abbia letto Soffocare sa che razza di meraviglioso intruglio fosse, e immagino che molti lettori, nel leggerlo, abbiano come me pensato ma chissà che diavolo potrebbe venirne fuori di questa roba in un film, e abbiano pensato ma chissà chi diavolo potrebbe dirigere una roba simile per non farne uscire un pastrocchio insensato e grottesco. Ecco, probabilmente non avevate pensato a Clark Gregg, l’attore. Ma tutto sommato, Fight club era un’impresa ancor più ardua, eppure David Fincher ci era riuscito in modo egregio, nevvero? Ma Clark Gregg?

La cosa sorprendente non è che ne sia uscito un film per nulla insensato e grottesco, né che a farlo così per benino ci sia riuscito un attore al suo debutto dietro la macchina da presa – sono sorprese a cui siamo sempre più abituati, malgrado ogni possibile reticenza – bensì, come al solito, il modo. Da queste parti si è apertamente dalla parte della regia, nella sempiterna (e del tutto immaginaria, letteralmente) diatriba con la sceneggiatura, ma devo ammettere che Soffocare funziona alla perfezione proprio perché, usando un’iperbole, una regia, non ce l’ha.

Scritto bene, adattato ancora meglio (nel modo in cui è del tutto fedele allo spirito ficcante e insieme profondo del libro), recitato splendidamente (soprattutto da Sam Rockwell, ovviamente stupendo oltre ogni immaginazione – ma anche Kelly Macdonald e Brad William Henke sono una delizia) e reso visivamente in modo umile ma impeccabile da Tim Orr (l’eccezionale direttore della fotografia di David Gordon Green), Soffocare è infatti un film registicamente inesistente, involuto e piatto. Ma, paradossalmente, è forse proprio questa sua tremenda impersonalità a donargli questa leggerezza impalpabile, che dimezza il minutaggio percepito e che ce ne fa desiderare ancora. Non male davvero, Clark Gregg.


Nei cinema, probabilmente, dal 13 Maggio 2009

Futurama: Into the Wild Green Yonder, Peter Avanzino 2009

Futurama: Into the Wild Green Yonder
di Peter Avanzino, 2009

Ci sono almeno due motivi per non essere eccessivamente felici, dell’avvento di questo Into the Wild Green Yonder. Il primo è che questo è l’ultimo dei lungometraggi di Futurama a uscire direttamente in DVD. E quindi, che questo film segna la fine di Futurama come lo conosciamo, ovvero di una delle migliori serie animate di sempre. Ma l’avevamo pensato anche l’altra volta, e avevamo torto: non abbandoniamo le speranze.

Il secondo motivo è che Into the Wild Green Yonder conferma la parabola geometricamente discendente, probabilmente casuale ma ai miei occhi fin troppo evidente, di questo quadripartito "lungo addio": e invece di chiudere con un big bang, la serie creata da Matt Groening e David X.Cohen termina con un episodio moscetto, allungato, scritto con cura ma fin troppo inquadrato e coerente, lontano dalla geniale e cervellotica follia del capolavoro Bender’s big score, ma anche dal citazionismo divertito di The beast with a billion backs e dalla nerditudine pura di Bender’s game – e anni luce, si intende, dai fasti delle quattro stagioni televisive.

La debolezza di questo episodio finale aumenta dunque anche l’aura di malinconia che già circondava l’operazione – che si spegne però senza l’entusiasmo dei predecessori, con assai poco nerbo, e con una conclusione frettolosa che lascia l’amaro in bocca. Ma forse è un sapore che avremmo sentito in ogni caso.

Da recuperare, però, si intende: perché se ne può dir male in senso relativo, ma è sempre Futurama. E anche Into the wild green yonder riesce a ricordarci, nonostante quanto detto finora, di cosa dovremo fare a meno, d’ora in poi, e che razza di roba ci verrà a mancare. Dico: Fry, Bender, Leela, Zoidberg, Amy Wong. Adieu.

Friday Prejudice #157

[ti odio, poi ti amo, poi ti odio, poi ti odio, poi ti amo]

Ecco, v’è il nuovo episodio di Friday Prejudice.

The fist foot way, Jody Hill 2006

The fist foot way
di Jody Hill, 2006

Non sorprende affatto che questo piccolo film indipendente abbia conquistato, con il suo passaggio al Sundance nel 2006, le simpatie di Will Ferrell e Adam McKay, che ne hanno patrocinato la successiva distribuzione. Non sorprende perché il film e il suo protagonista Danny McBride hanno un approccio alla comicità che si avvicina molto allo stile lanciato dai due in film come Anchorman e Talladega Nights, sia per la comicità che scaturisce da quadretti di pura awkwardness, sia per il linguaggio e i ritmi stessi che sono alla base delle situazioni presentate.

Ma The fist foot way, nel suo essere un piccolo film con i suoi ovvi limiti produttivi (è costato appena 80 mila dollari), contiene un potenziale, espresso e inespresso, davvero favoloso – soprattutto dal punto di vista registico: Jody Hill in alcuni momenti sa sfoggiare, con un utilizzo davvero geniale di un sonoro perturbante e di un montaggio inusuale se abbinato alla classica camera a spalla, a tratti straniante, uno sguardo insieme inquietante ed empatico sul suo personaggio e sul suo amato/odiato North Carolina – facendo intravedere al di sotto della goliardata una storia umana di sconfitta e di riscossa (impossibile nei confronti della società, mai nei confronti di sé stessi) che attraverso il personaggio sgradevole di Fred Simmons e una sceneggiatura cinica e intelligente pur se tagliata con l’accetta, dice in realtà moltissimo sull’ipocrisia e soprattutto sulla frustrazione della periferia americana.

Il successo del film, divenuto ovviamente un titolo cult, ha pemesso a Danny McBride, Jody Hill (Mike nel film) e al co-sceneggiatore Ben Best (che interpreta anche Chuck "The Truck" Wallace) di diventare il nuovo trio dorato del cinema comedy americano: a giorni debutta una loro serie sulla HBO, sempre prodotta da Ferrell e McKay, mentre McBride nel 2008 è stato in Drillbit Taylor, Tropic Thunder e Pineapple Express, e Jody Hill si può già permettere una promettente opera seconda da 30 milioni di budget con Seth Rogen e Anna Faris, da lui scritta e diretta: Observe and report.

Il film in Italia non è uscito e per ora non ha alcuna intenzione di farlo. Se siete curiosi si può acquistare a una manciata di euro l’edizione inglese su Play o su Amazon.

Questo piccolo grande amore, Riccardo Donna 2009

Questo piccolo grande amore
di Riccardo Donna, 2009

Ci sono molti motivi per cui mi sono sempre tenuto a debita distanza dai film romantici adolescenziali italiani, almeno da quando questo simil-genere è diventato una specie di impressionante sacca economica che sembra non conoscere fondo, sia nell’investimento che nei risultati. Questi motivi mi sono tornati tutti su, come un bel ruttone, durante la visione di questo film. Che ha una particolarità, rispetto al filone: il disco a cui è ispirato è uscito nel 1972, il che include nel target ideale del film non solo le coppie di adolescenti di oggi, ma anche, più curiosamente, coloro i quali lo erano negli anni ’70 – insomma, i nostri genitori. Ma sfido un adulto di oggi, o anche un post-adolescente (sui più giovani non mi pronuncio: probabilmente a loro questa roba va a genio così com’è) a riconoscersi in questo film così artificioso, patinato, mocciano e – soprattutto – involontariamente ridicolo.

Perché se non è una sorpresa che QPGA, pronto e cucinato per il solito acronimo di questa fava, sia un film furiosamente brutto, lo è, invece, che sia un film così paurosamente ridicolo. Il problema nasce dal progetto: un musical senza il musical. Le canzoni del disco sono infatti in sottofondo, e cantate da Baglioni stesso – con un nuovo orripilante arrangiamento – dialogano con la storia. Perché? Perché proporre un musical al pubblico italiano è troppo rischioso, da un punto di vista commerciale: le persone che si mettono a cantare da un momento all’altro sono ridicole agli occhi della massa (chiedete in giro), e lo dimostra il fatto che spesso, quando esce un musical da noi, in fase di promozione si nasconde in parte o del tutto la sua natura musicale.

Quello che se ne ricava è una prima parte in cui i personaggi dicono delle cose, e poi stanno zitti guardandosi negli occhi – impossibile non pensare alla gag di Boris sull’espressione basita: qui c’è basita, spavalda, intensa, basta – mentre Baglioni ci canta sotto la canzone di turno. Per non parlare poi di sequenze assolutamente incredibili, in-cre-di-bi-li, come quella della manifestazione iniziale (su cui si potrebbe scrivere un intero trattatello, e invito a farlo al più presto chi fosse così coraggioso da affrontare il film), o la pazzesca sequenza onirica di Io ti prendo come mia sposa che vorrebbe emulare Across the Universe (anvedi), o il bacio sul Tevere dato su una pedana girevole coi ballerini intorno, o molte altre che comunque non renderebbero l’idea raccontate a parole, e che trasformano la prima parte in una specie di paradiso del LOL, buono più per divertirsi a deriderlo tra amici o a immaginare di ridoppiarlo (ne verrrebbe fuori qualcosa di più sensato, a priori) che per una coppia romantica a San Valentino.

Poi, nella seconda metà, passato quel momento, ci si rende conto di che razza di roba ci si pari davanti, e ci si comincia a stufare davvero. E sarà un’attesa lunga.

Ogni tanto Riccardo Donna, soprattutto all’inizio, butta lì qualche ideuzza: una controsoggettiva di lui che corre, una plongée sugli studenti che protestano, roba così. Tanto non ho niente da perdere, dice. Perché il resto è, come da copione, basso mestiere televisivo in cui il lavoro tecnico è reso meno insostenibile soltanto perché, primo, non ha paura del kitsch e, secondo, se messo accanto a una sceneggiatura agghiacciante (di Ivan Cotroneo, peraltro: perché?), che lavora appositamente sui fianchi e sugli stinchi dei luoghi comuni più beceri, con un cinismo nella ricerca ossessiva della banalità più stordente che definire fastidioso è una gentilezza che gli concedo vista la professionale pervicacia con cui ha cercato di ammazzare i miei neuroni.

The reader, Stephen Daldry 2008

The reader
di Stephen Daldry, 2008

L’ultimo film di Stephen Daldry è diviso in tre parti ben separate, così come il libro di Bernhard Schlink da cui è tratto, e in altrettandi modi è possibile leggerlo – e così è stato fatto negli ultimi mesi. In realtà, la complessità tematica è parte della forza del film stesso, provocatorio nel suo cambiare rotta proprio perché dall’ambiguità delle differenze nasce la difficoltà, affascinante e ambiziosa, di prendere una parte, di decifrare completamente un film che, per sua stessa natura, non vuol essere decifrato del tutto.

Non si tratta quindi di scegliere cosa sia, o di che cosa parli. The reader è un racconto di formazione passionale, intenso e bruciante. E allo stesso tempo è un film che riflette, nel contesto storico del senso di colpa post-Olocausto del popolo tedesco, sull’origine del male e ovviamente sui suoi caratteri contingenti (secondo William Arnold "Nazism as more a product of explicable ignorance than inexplicable evil", forse semplificando eccessivamente). E allo stesso tempo, infine, è un film assai più intimo e insieme universale, un film sul segreto, sulla vergogna – i cui dettagli non si possono esplicitare senza rivelare i fondamenti della trama, ma Rober Ebert scrive, saggiamente che "The reader isn’t about the Holocaust, it’s about not speaking when you know you should".

Se le tre parti spingono singolarmente su ciascuno dei tre tasti, The reader alla fine è però più propriamente una suite in cui questi tre movimenti giungono a una sintesi – in cui uno stesso senso di colpa, nel processo catartico (fondamentalmente inane) da collettivo si fa individuale. Ma forse è proprio questa struttura così serrata e così multiforme, questa visione così audace e pur sorretta da una struttura così solida, probabilmente, a porre un freno alle emozioni che non solo dalla storia in sé, ma dal modo coraggioso in cui è raccontata, dovrebbero scaturire a cascata. Invece, The reader a un certo punto si ferm.

Rimanendo però un film di misteriosa, inesplicabile bellezza, da guardare a mente aperta, capace com’è di torcere alternativamente il cervello e le budella, e in cui nella terza parte, finalmente, anche il cuore, malato di silenzi e morente di segreti, può avere il suo ruolo. E infine, non ci sarebbe più nemmeno bisogno di dirlo, un film che contiene una delle interpretazioni più impressionanti, coraggiose e devastanti degli ultimi tempi – tanto che avrei voluto scrivere soltanto di lei per tutte queste righe, ma non trovavo le parole – quella di Kate Winslet.

Ex, Fausto Brizzi 2009

Ex
di Fausto Brizzi, 2009

Ho già espresso parzialmente la mia opinione ieri, brevemente, su Friday Prejudice. Quindi, nessuna sorpresa: cerco di entrare un po’ più nello specifico, così da togliermi il dente e il dolore, e da poter passare a cose più importanti.

Il nuovo film di Fausto Brizzi è prima di tutto un film. Non è un barzellettiere, non è un film di Neri Parenti, è un film. Con una sceneggiatura, con una struttura, con dei personaggi, con una regia. E come tale, come film a sé stante, andrebbe giudicato, scevro da giustificazioni di carattere commerciale. E le cose che non vanno in Ex sono innumerevoli, il ritmo televisivo (la sensazione diffusa di trovarsi in uno spot o in una fiction molto curata è più passeggero e meno presente del previsto), alcune interpretazioni, Tognazzi che dice "euri", la regia di Brizzi (che ha un’ossessione per i carrelli laterali che trovo sinceramente un po’ preoccupante), e soprattutto il fatto che ogni lampo di personalità (e di cattiveria, seppur lieve) venga appiattito da una susseguente dose di ruffianeria. Il problema è che in Ex, alla fine, non ci sono cattivi: ci sono solo persone sfortunate, sfigate, al massimo arroganti o stupide, nel nome di un amor vincit omnia francamente impresentabile.

Ma Ex è anche un film che è impossibile guardare senza tenere conto del fatto che è confezionato, esplicitamente e dichiaratamente, per raggiungere i gusti un pubblico ampio. Molto ampio. In tal senso, è altrettanto impossibile ignorare di cosa si compongano i gusti stessi del pubblico di massa nel nostro paese. Come si fa a raggiungere un pubblico simile? Semplicissimo: si accontenta tutti. Anche chi viene guardato con uno scherno apparentemente originale (come la coppia di insopportabili burini che vogliono liberarsi dei figli, o il prete che ha preso l’abito perché la Gerini l’ha mollato) ha sempre una seconda occasione, non esiste un meccanismo punitivo di nessun tipo, e più che taralluccio finale, inevitabile, dispiace che gli spunti con del potenziale vengano sciaquati nel nome di una marcata e universale condiscendenza.

Però, pur non essendo una giustificazione, all’interno di questo panorama decadente e di inspiegabile successo che è quello del cinema italiano per le masse (i film natalizi, i teen-movie, i film di Veronesi, eccetera), Ex rappresenta un piccolo passo in avanti. Avere una sceneggiatura che sta in piedi, qualche attore vero, e qualche momento azzeccato, per un film così è tutto grasso che cola, ve lo dico io. E di momenti azzeccati Ex ne ha, eccome: la parte rigurdante Claudio Bisio, per esempio, è tutto sommato onesta e toccante, nella sua banalità. Anzi, mi stupisce che Brizzi sembri più a suo agio con il dramma di un vedovo che non con gli stupidotti dilemmi postadolescenziali della Capotondi. Qualche tiepida risatina, la diatriba De Luigi vs Gassman la strappa. Lo so, è poco, pochissimo. Ma è qualcosa.

Ex è un film molto accessibile e (nazional)popolare e insieme estremamente ambizioso – e parte di questa ambizione sta proprio nel suo voler essere un altro dei tanti film di cassetta ma contenere al suo interno un inedito slancio autoriale. Che, spiace dirlo, non funziona per nulla. Ma è un vantaggio, e uno svantaggio: è proprio nel suo fallire miseramente come sua vera e propria "opera prima", come progetto autoriale, che Brizzi è riuscito a fare una commedia romantica italiana sostanzialmente sopportabile.

Friday Prejudice #156

[cristiana capodondi ommmm]

Il nuovo spumeggiante episodio di Friday Prejudyaaaaaaaaawn.

E se va bene a me, buona camicia a tutti.

Frost/Nixon, Ron Howard 2008

Frost/Nixon
di Ron Howard, 2008

Quella che è riuscita a Ron Howard in questo film è un’impresa davvero eccezionale: riuscire a rendere tesa e appassionante la riproposizione di un evento televisivo, a trasformarla in un bellissimo film. Frost/Nixon racconta infatti dell’intervista che lo showman inglese David Frost fece all’ex presidente degli USA Richard Nixon nel 1977, tre anni dopo che quest’ultimo aveva rassegnato le sue dimissoni per lo scandalo Watergate, investendo nel progetto tutti i suoi soldi – e la sua intera carriera. E il film, al di là dei fatti storici e documentati che racconta, è effettivamente anche un film sul potere, deformante e amplificante, del mezzo televisivo.

Il merito di buona parte del film va all’impressionante, precisa e intelligentissima sceneggiatura di Peter Morgan, sceneggiatore di The queen e commediografo, già autore dello spettacolo teatrale da cui il film è tratto: ma è indubbiamente (e inaspettatamente) Ron Howard, che, con la mano sicura portatagli da anni e anni di mestiere, trasforma la piece in un film di tutto rispetto. E qualcosa di più Che però non sarebbe uscito così bene se non fosse per uno dei cast (e soprattutto dei casting) più mostruosi degli ultimi tempi – alla pari con il grande lavoro mimetico di Milk, e che fa sinceramente impallidire quello di W. Da un perfetto Michael Sheen, già Tony Blair per ben due volte, al mefitico Kevin Bacon, all’inedito Matthew Macfadyen biondo, fino alla coppia di esperti composta da Oliver Platt e da un eccellente Sam Rockwell.

Ma Frank Langella, in particolare, è gigantesco nella sua rappresentazione di un Nixon indimenticabile, cupo e tragico Golia della politica, sia nell’accettare la sfida di un David (appunto) che nel perderla sotto il peso dei sensi di colpa, della vecchiaia, della morte, e dell’implacabile primo piano in quattro terzi.

E poi, Rebecca Hall. Dio mio, Rebecca Hall. Quanto è bella Rebecca Hall? Rebecca Hall, dio mio.