febbraio 2009

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Milk, Gus Van Sant 2008

Milk
di Gus Van Sant, 2008

Ci sono cose di un film che puoi sapere anche senza bisogno di vederlo, il film. Che gli attori sono tutti bravi. Che assomigliano ai personaggi che interpretano. Che un tal film ha un impianto molto più tradizionale rispetto a una filmografia di un regista altrove assai più criptico. Quali temi affronta il film. Quale storia racconta il film. L’importanza della tal storia. Del tal tema. Sotto le luci più differenti. Queste sono cose di cui si può scrivere e discutere a priori – e quindi, lo dico estremizzando, a volte hanno poco a che fare con il film.

Poi ci sono cose di un film che puoi sapere solo guardandolo, il film. E allora ti rendi conto che Milk è bellissimo per come si pone di fronte alla storia (e alla Storia), e ai limiti e ai rischi stessi di un film del genere. Gus Van Sant non ha abdicato, almeno non del tutto, a un cinema piatto e tradizionale come quello che è uso applicare ai biopic statunitensi. La sua regia è ancora vigile, attenta, e più umile, capace di utilizzare la bravura tecnica (eccome) a servizio della narrazione, di nascondere i piani-sequenza dietro l’intimità di un gesto d’amore. Il suo modo di riprendere le cose non è mai banale, né da un punto di vista visivo (il taglio che lui e il direttore della fotografia Harris Savides danno alle inquadrature non è per nulla scontato) né narrativo – si veda la scelta di mescolare con sapienza la finzione con l’utilizzo dei materiali d’archivio. Come se certi volti e certe parole, che ancora fanno paura, fossero impossibili da replicare: meglio ricordare, ogni tanto, che è "tutto vero"?

Per quanto debba sottostare a delle regole ben precise, con un atteggiamento opposto a quello a cui i suoi film più recenti, linguisticamente liberissimi e assolutamente unici nel panorama americano, ci avevano abituato (e che potrebbe lasciare insoddisfatti alcuni dei fan più accaniti del Van Sant più sperimentale e tarriano) Gus Van Sant si riconferma un’ulteriore volta come uno degli sguardi più fieramente indipendenti del cinema americano. A prescindere, e non è cosa da poco, dalla storia (bellissima, esemplare, e tragicamente commovente) che il suo film racconta.

JCVD, Mabrouk El Mechri 2008

JCVD
di Mabrouk El Mechri, 2008

JCVD è un film il cui fascino è impossibile negare, se si è cresciuti in qualche modo, volenti o nolenti, con il cinema di Jean-Claude Van Damme – che nel frattempo passava sullo schermo delle nostre televisioni. Anche solo perché la sceneggiatura è stracolma di riferimenti e ammiccamenti ai fan (il dialogo su quell’ingrato di John Woo è un buon esempio), quelli che hanno sempre immaginato una carriera "parallela" per l’attore belga – quella stessa che malinconicamente l’attore, nei panni di se stesso, si vede sfuggire dalle mani.

Allo stesso tempo però il film è esattamente l’opposto del cinema di Van Damme: si tratta infatti di un prodotto definitivamente autoriale – a volte ironicamente, a volte meno. Inizia con un lunghissimo e programmatico piano-sequenza, è costruito con una struttura a incastro di scuola tarantiniana, ed è pieno di scherzi metafilmici che culminano in una lunga sequenza quasi-onirica in cui il nostro si esibisce in un formidabile e interminabile monologo senza stacchi, da teatro dell’assurdo – sospeso tra la vita vera e il set, tra il personaggio e l’attore.

JCVD però possiede un’intelligenza che è vivaddio più rilevante della sua divertita smania di sfoggiarla, e che permette di superare lo scoglio di quello che potrebbe sembrare un giochetto autoriflessivo dal fiato un po’ corto. Ed invece è un film divertente, assolutamente irresistibile nell’alternare i toni tragici a quelli ironici, nel divertirsi con il pubblico mescolando in modo virtuosistico le diverse istanze di realtà, nell’alternare l’impianto serratissimo della sceneggiatura al gusto per l’improvvisazione.

E soprattutto, colpisce il coraggio di Mechri e di Van Damme stesso nel rappresentare questo bizzarro intruglio di meta-fiction e serissimo autobiografismo (la custodia del figlio, i problemi con la droga, il desiderio inespresso di voltare pagina) senza accenni di facile sberleffo ma anzi con una profondità inattesa – che l’interpretazione indimenticabile del protagonista aiuta a rendere ancora più incisiva.

W., Oliver Stone 2008

W.
di Oliver Stone, 2008

Non parla a favore del nuovo film di Oliver Stone il fatto che sia estremamente più interessante tutto il percorso che l’ha portato a essere proiettato in prima serata su La7 invece che in sala, piuttosto che il film in sé. Dice molto dello stato delle cose, di come da una parte ci sia ormai una paura diffusa di scottarsi le mani a prescindere dal calore effettivo dell’opera in questione (qui assai limitato, per esempoio), e di come dall’altra parte ogni cosa che faccia in cotal modo paura, anche in un’ottica provinciale e fantozziana come quella del dibattito a presenza del regista che ha preceduto il film in tv, possa diventare un bianco lenzuolone da sbandierare con la pretesa dell’evento che non c’era. O peggio, di un’indipendenza che non esiste. Oppure, meglio, che esiste – ma che non cambia molto le cose. Né del panorama televisivo né, tantomeno, di quello politico.

Su W. invece non c’è così tanto da dire – ed è il motivo, forse, per cui se n’è parlato molto più prima, che poi. Un film medio, forse mediocre o forse semplicemente dimenticabile, che ha indubbiamente i suoi punti di forza: Josh Brolin, il tono politicamente ammiccante ma non aggressivo (come molti avrebbero voluto: ma a che pro?), l’idea straniante di fare della vita di GWB una sorta di commedia grottesca con tocchi dalle pretese surrealiste (non solo il finale, ma anche la scena della camminata nel campo, citazione apertissima di Il discreto fascino della borghesia di Bunuel, per tacere del feroce salatino), Josh Brolin, Josh Brolin, Josh Brolin, e la correttezza con cui sono riportati alcuni momenti essenziali della carriera dell’ormai ex presidente.

Ma se dal punto di vista storico W. ribadisce molte cose già arcinote in una prospettiva candida che ha fatto inferocire gli spettatori più ferventi (la riduzione al martirio intellettuale del ruolo di Colin Powell è un esempio calzante) e che a volte si limita all’imitazione pedissequa e inutile à la Pingitore (l’imperdonabile Condie Rice di Thandie Newton), il film che rimane sotto le polveri del bignamino politico, che di per sé, come ogni bignami, è buono giusto per chi negli ultimi 10 anni ha dormito o ha visto solo i telegiornali locali e/o il TG4, è davvero una cosetta da poco.

Per fortuna che Josh Brolin c’è.

Il dubbio, John Patrick Shanley 2008

Il dubbio (Doubt)
di John Patrick Shanley, 2008

Se c’è una cosa che ho sempre pensato non giovasse al cinema, è il teatro. Intendiamoci, non ho nulla contro il teatro in sé, e non c’entra più di tanto il fatto che io non lo mastichi né lo frequenti – la considerazione essenziale è però che il teatro e il cinema vivono di linguaggi ed esigenze differenti, sotto ogni aspetto, e in tal modo andrebbero considerati da chi il teatro e il cinema lo fa. Detto questo, Il dubbio è all’apparenza un caso abbastanza esemplare di film che prende la direzione sbagliata, in questo senso: il testo teatrale viene fondamentalmente replicato, e dal suo stesso autore.

Ma la bravura di Shanley sta proprio nell’evitare che il suo Dubbio diventi mero teatro filmato. Come? Paradossalmente, proprio misurando la sua regia, infilando qua e là dei timidi ma efficaci momenti di cinema (Meryl Streep tra le foglie trascinate dal vento) e giocando molto sul senso di oppressione portato delle (ottime) scenografie d’interno, sul rigore inquietante della fotografia, sul contrasto tra gli sguardi – tra quello della compassata e insicura ferocia di una gigantesca e gotica Meryl Streep e quello dell’innocenza, violata, della sempre più brava Amy Adams. In questo modo, mettendosi solo apparentemente da parte ma lavorando sodo ai margini della pellicola, riesce ad evitare il disastro – o meglio, piuttosto, il nostro completo disinteresse nei confronti del film.

Che invece è tutto sommato un’opera stimolante e interessante, che ti accende il cervello e mette in funzione quell’affascinante meccanismo razionale che dà il titolo al film stesso. Se non altro perché il testo di partenza, ammettiamolo anche se non può e non deve bastare a se stesso, è davvero una bomba – ci sono almeno due lunghi dialoghi da pelle d’oca, e non serve che io dica quali. E perché i quattro attori sono davvero formidabili – anche doppiati, non potendone fare a meno: tanto basta un mezzo sguardo, un gesto, una lacrima.