marzo 2009

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Ong Bak 2, Tony Jaa 2008

Ong bak 2
di Tony Jaa, 2008

Attendevamo con una certa apprensione Ong bak 2, non-sequel del film con Tony Jaa che nel 2003, pur con tutte le sue ingenuità, rappresentò uno dei momenti più interessanti del cinema di arti marziali di quel periodo – impressione confermata dal successivo The Protector, sempre diretto da Prachya Pinkaew. Quest’ultimo è poi andato a girare l’ottimo Chocolate, mentre Jaa, adiuvato dallo stunt coordinator Panna Rittikrai (qui sceneggiatore), ha deciso di sviluppare un progetto molto più ambizioso: realizzare quello che non è solo il suo esordio alla regia, ma un film che significhi il salto di qualità per tutto il genere – e quindi anche per l’industria dell’intrattenimento thailandese e per il suo mercato.

Come sia andata a finire, i più attenti lo sanno: Tony Jaa ha dato letteralmente di matto, rendendo le riprese impossibili alla crew (imparando dai maestri), e fuggendo infine nella giungla a piangere per settimane, rischiando di mandare tutto a puttane – prima di tutto per motivi economici, nonostante il budget fosse senza precedenti per i canoni thailandesi, ma anche artistici e psicologici. Ecco perché quando Ong bak 2 ha cominciato ad apparire sugli schermi, ci si credeva a fatica. Che esistesse davvero, dico, Ong bak 2. Ma questo è un riassuntino for dummies: la buona notizia è che, nonostante tutti i casini combinati da Jaa durante la produzione, l’attore-atleta-regista è riuscito perfettamente nel suo intento.

Ong bak 2 è infatti il film che, in assenza di una concorrenza valida o almeno, quantomeno, rilevante – eleva finalmente il contesto thailandese allo state-of-the-art del cinema di arti marziali nel cinema di oggi. E non più solo per motivi meramente acrobatici: questo aspetto, proprio quello che aveva reso così celebri i precedenti film con Jaa viene infatti messo in secondo piano (e la cosa, suppongo, troverà del malcontento) e relegato, se così si può dire, all’ultimo, spettacolare, segmento del film. I combattimenti ci sono, senz’altro: ma sono meno di quello che ci si poteva aspettare, nonché diversi (più tecnici, diciamo pure più specialistici, più legati alla narrazione, meno insistiti che in passato).

Quello che sorprende è tutto il resto. C’è, sì, ancora una vicenda vagamente pretestuale che fa perno su elementi tragico-edipici vecchiotti (ma che ci frega, in fondo: questo è cinema di corpi che danzano, il resto è fuffa ed è giusto che lo sia), ma tutto intorno, tra un combattimento e l’altro, c’è molto altro – c’è una statura tecnica inaspettata, e dei production value che sono (finalmente!) all’altezza del cinema internazionale. Ottima fotografia, scenografie curatissime, bellissimi costumi, musiche perfette, un film che è bello da vedere, che è finalmente degno di accompagnare quello che Jaa riesce a fare con il proprio corpo – e, poveri loro, con i corpi di tutti quelli che provano inutilmente a rompergli il culo.

E una grande (o almeno, relativamente grande) libertà espressiva -  chi si sarebbe potuto aspettare una sequenza di balletto così lunga, peraltro per nulla pretestuale, a metà pellicola? – che aumenta l’aura di bizzarria che già circondava uno dei progetti più assurdi ed esaltanti del cinema asiatico recente. E che, miracolo!, "ci siamo portati a casa" senza fare troppi danni. Anzi.

Cult immediato il combattimento con una sorta di demone femmina sul dorso di un elefante, anche per come interrompe per qualche minuto la tenuta "realistica" del film provocando un improvviso ed esaltante corto circuito con il cinema horror – che potrebbe, chissà, avere qualche riscontro nel sequel. Perché sì, vi avverto, ci sarà un sequel. E il finale di questo vi farà incazzare come delle bestie.

La maggior parte delle cose che ho scritto, e di quelle che avrei potuto scrivere, le ha già espresse – seppur con un pizzico di entusiasmo di troppo, a parer mio – anche Nanni Cobretti su I 400 Calci. Andate a leggervelo.

Cry of the owl, Jamie Thraves 2009

Cry of the Owl
di Jamie Thraves, 2009

Tratto da un libro di Patricia Highsmith che aveva già ispirato un film di Chabrol con lo stesso nome negli anni ’80 (da noi Il grido del gufo), il film è una coproduzione paneuropea (Regno Unito, Francia e Germania) girata in Canada nell’Ontario, ed è il secondo lungometraggo di Jamie Thraves, regista inglese di molti bellissimi videoclip musicali tra cui almeno due notissimi capolavori del genere (Just per i Radiohead e The scientist per i Coldplay).

E quando un autore di videoclip si mette alla regia di un lungometraggio, la paura è sempre quella, che rimanga intrappolato trasferendo certe convenzioni di quel genere – ma Thraves è un regista intelligente, per nulla esagitato e scomposto, e infatti si muove in direzione opposta: il film è misurato, quasi compassato, e Thraves affronta la sua vicenda "gialla" con grande professionalità e senza alcuna concessione – consegnando semmai spesso la regia nelle mani della (sua stessa, e buona) sceneggiatura. Non traendone un film assolutamente memorabile, ma costruito con garbo e con un notevole senso del tragico, della predestinazione, del coraggio e della sconfitta.

Dal canto mio, l’ho recuperato soprattutto perché mi incuriosiva vedere all’opera un cast di protagonisti così bizzarro: Paddy Considine, sempre meraviglioso anche con questo inedito accento nordamericano, e Julia Stiles, che risulta misteriosamente adatta al suo ruolo – sempre se superate il fastidio per il fatto che reciti (o che, mi vien da pensare, sia indotta a recitare) come se leggesse la lista della spesa.


Cry of the owl non ha ancora una data d’uscita nel Regno Unito, e ci sta mettendo parecchio: le riprese sono avvenute alla fine del 2007. Nel frattempo, il film sta uscendo alla chetichella direttamente in DVD in altri paesi come Brasile, Germania e Repubblica Ceca. Difficile che trovi spazio dalle nostre parti.

Martyrs, Pascal Laugier 2008

Martyrs
di Pascal Laugier, 2008

Tempo fa in rete si parlava molto più spesso (anche da queste parti: vedansi i post su Them e Inside) dello stato di salute dell’horror francese contemporaneo – di quello più estremo e violento, tendenza ri-sbocciata negli ultimi anni sugli schermi d’oltralpe, tra il grande giubilo dei fan del genere e l’invidia giustificata dei nostri compaesani. L’étoile di questa stagione era probabilmente proprio il film di Laugier, gradito da molti, e che a detta di alcuni spostava persino il baricentro del cinema horror.

In realtà, no. Ma proprio no. Martyrs tradisce le aspettative sia di chi voleva assistere a un altro robusto film del terrore, sia di chi voleva semplicemente spaventarsi come si deve. Laugier infatti, dando l’impressione di non sapere che pesci pigliare, spezzetta il film in parti facendolo ripartire daccapo ogni mezz’ora, modificando di volta in volta il baricentro narrativo: scelta originale, senza dubbio, ma che rende gran parte del film un pretesto accantonato in favore dell’ultimo segmento, e (soprattutto) lo rende un film assai indigesto – ma per i motivi sbagliati: il gore c’è, per carità, ma la noia lo batte in volata. E ve lo dice uno impressionabile.

Poi, fatto che il tutto si risolva in un’agghiacciante puttanata misticheggiante, di certo non aiuta.

Baby Mama, Michael McCullers 2008

Baby Mama
di Michael McCullers, 2008

Cosa saremmo disposti a fare pur passare un po’ di tempo con Tina Fey oltre a quello che costei ci dedica 20 minuti alla settimana? Per esempio, a vedere questo pallidissimo esordio alla regia di un ex sceneggiatore del SNL e dei film di Austin Powers. Che però non possiede metà della geniale verve comica della serie tv 30 Rock, nonostante questa Kate Holbrook sembri proprio una Liz Lemon in tono minore, e in certi momenti il film assomigli a un episodio allungato – in tutti i sensi – e molto meno divertente.

Sarà che le due attrici si limitano a interpretare, e non a produrre né a scrivere? Chissà. In ogni caso il film, che se la prende bonariamente con l’una e con l’altra parte in causa, è in realtà totalmente privo di conflitti, anche ironici, disinteressato a mettere in gioco seriamente le controparti maschili (Greg Kinnear è fin troppo perfettino, Dax Shephard sarebbe la cosa più divertente del film se non assomigliasse così tanto a Zach Braff), è rasserenato, pieno di carinerie, ingenuamente conciliatorio, e insomma: è completamente innocuo.

Friday Prejudice #164

[toh, è già giovedì]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice, un po’ prima del solito. Primo!

Synecdoche, New York, Charlie Kaufman 2008

Synecdoche, New York
di Charlie Kaufman, 2008

Sapete che c’è, non ho alcuna voglia di scrivere – come si deve – di questo film. Ma capiamoci bene, la colpa è mia, ché Synecdoche, New York è un grandissimo film.

Kaufman è riuscito finalmente nell’intento di liberarsi dai condizionamenti che altri registi hanno applicato alle sue formidabili sceneggiature (confezionando però, nella maggior parte dei casi, opere altrettando formidabili) e ha creato una creatura totalmente e profondamente kaufmaniana, un film che non si può più decrittare con i codici che utilizziamo quotidianamente di fronte allo schermo, ma che ha bisogno di alimentarsi con le nostre pulsioni, con i nostri sogni, con i paradossi che arricchiscono la nostra vita. Synecdoche, New York è un’opera magniloquente, dagli obiettivi colossali, talmente ambiziosa da contenere al suo interno anche il suo stesso fallimento, in cui il tentativo del tutto umano di reinterpretare la propria esistenza alla luce dell’Arte prende la forma, deformata, di una grottesca gigantesca matrioska di cemento e ferro. Un Bachelorette gondriano elevato alla n – un film che però trova questo portentoso equilibrio tra la cerebralità (e l’ironia) estrema dell’assunto e una capacità assolutamente micidiale di minare alle budella (il dialogo bilingue in ospedale tra Caden e Olive) e non solo alla materia grigia. Con un impianto visivo e narrativo spiccatamente simbolista (in modo a volte accennato e suggerito, altre volte reso esplicito e palese) che, invece di limitarsi a mangiarsi la coda tra pretenziose convinzioni fini a sé stesse, sa accompagnarsi a una serie di elementi di gigantesca e rarissima qualità – la fotografia, di massacrante bellezza, di Frederick Elmes, il montaggio stupefacente e anarcoide di Robert Frazen, le musiche perfette di Jon Brion, tutto ma proprio tutto il cast.

Di più, oltre a queste quattro sciocchezze, non mi sento di aggiungere, qui – paradossalmente, visto che questo è un film dopo il quale non vorrete parlare d’altro per giorni. Facciamo così: voi andate a vederlo, quando esce, oppure ve lo recuperate, poi mi mandate una email e ne parliamo. Ecco fatto.

Il film non ha ancora una data d’uscita italiana, ma immagino che prima o poi uscirà. Il DVD americano, Regione 1, è già disponibile. Quando avrete il piacere di vederlo, vi consiglio caldamente l’interessante e lunghissima analisi di Roberto Tallarita su Gli Spietati e – per una volta – questa bellissima intervista a Charlie Kaufman.

The edge of love, John Maybury 2008

The edge of love
di John Maybury, 2008

Se c’è una cosa che The edge of love mostra è che non basta il fascino della poesia in sé a fare un buon film, tantomeno celebri versi recitati in voice over mentre sullo schermo si dipana una roba che sembra, passatemi la prevedibile similitudine, una pubblicità della Chanel lunga 110 minuti. Un film "in costume" basato su un quartetto dovrebbe avere come minimo il sostegno di una sceneggiatura robusta e coraggiosa – che, manco a dirlo, non c’è: lo script di Sharman Macdonald (curiosamente, la madre di Keira Knightley) si limita a mostrare dei ribaltamenti di prospettiva tanto prevedibili e fiacchi quanto incapaci di dare sostegno a tutto il resto del film.

La preoccupazione maggiore di Maybury e della sceneggiatrice sembra quella di mostrare il minimo timore reverenziale possibile nei confronti di Dylan Thomas. In questo modo, e tra le mani di Matthew Rhys (comunque il meno peggio dei quattro) il poeta diventa semplicemente uno un po’ stronzo, donnaiolo e immaturo, mentre accanto a lui Sienna Miller trasforma la moglie borderline Caitlin in una tizia insopportabile che si agita e urla. Ovviamente, Thomas (e il quarto del sistema, un rigidissimo Cillian Murphy) è un pretesto marginale per parlare del rapporto tra le due donne, ovvero Caitlin e Vera, che è interpretata dalla mascella di Keira Knightley. Ma dal momento che non succede niente di niente per un quattro-quinti del film, è un dato preoccupante che non ce ne possa fregare di meno dei personaggi che si muovono all’interno dell’inquadratura.

Piaccia o meno lo stile morbosetto di Maybury e la fotografia patinata (e davvero stomachevole, per quanto mi riguarda) di Jonathan Freeman, è difficile negare che la parte centrale contenga alcune tra le scene e sequenze più di cattivo gusto del cinema britannico recente, tra cui una scena di sesso tra la Knightley e Murphy costruita su un uso indecente della dissolvenza incrociata e in cui le solite musiche pallosette di Badalamenti danno il definitivo colpo di grazia.

Non è ancora prevista una data italiana, nonostante sia in circolazione da parecchi mesi. Magari uscirà in estate alla chetichella, oppure direttamente in DVD. Se proprio volete vederlo, il DVD inglese costa solo una decina di euro.

Friday Prejudice #163

[Ponyo Ponyo Ponyo sakana no ko!]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

La verità è che non gli piaci abbastanza, Ken Kwapis 2009

La verità è che non gli piaci abbastanza (He’s just not that into you)
di Ken Kwapis, 2009

La verità è che La verità è che non gli piaci abbastanza non mi è piaciuto abbastanza.

Tolto il gusto di scrivere una stupidata simile tanto per il gusto di farlo, la frase sovrastante non è così imprecisa nella sua stupidaggine: ci sono un sacco di cose che avrebbero potuto far perdonare la vacuità del film, la noia che pervade i suoi 129 (!) minuti di durata, e l’irritante approssimazione con cui sono disegnati i personaggi. Qualche risata ben assestata, qualche elemento del cast. Ma la maggior verità è, appunto, che non mi è piaciuto abbastanza: e allora ciò che c’era di buono è caduto tutto nel pozzo nero dell’indifferenza.

La verità è che il film è costruito su una concezione vecchia e banalissima del conflitto tra i sessi e su una quantità esorbitante di proverbialità e luoghi comuni, con i personaggi ridotti a tipologie e categorie più che a caratteri veri e propri – e questo vale per le femminucce come per i maschietti. Ma dopotutto, non ci si poteva aspettare molto da un film tratto da un libretto motivazionale il quale a sua volta era stato ispirato da un singolo episodio (!) di Sex & the City – il che fa di questo film un esempio assolutamente inedito di cinema meta-meta-vaginale. Sono d’accordo: in giro c’è molto peggio. Ma può essere una giustificazione?

Il pezzo finisce qua. A seguire, alcune considerazioni, di natura del tutto parrocchiale, sul cast: Justin Long e Ginnifer Goodwin sono una delizia. Ecco, magari fosse stato tutto un film con Justin Long e Ginnifer Goodwin. Invece ci sono Ben Affleck e Jennifer Aniston, e il gonfissimo e demoniaco Bradley Cooper. Scarlett Johansson sfida ancora la forza della gravità nel collaudato ruolo della gatta morta, ma il suo personaggio è praticamente l’unico nella sceneggiatura a scartarsi dalla stancante e asessuata nevrosi della compagnia, fornendo un ruolo finalmente attivo e, a suo modo, irrazionale e anarchico, come quello delle persone vere. Ovviamente, non è abbastanza.

Two lovers, James Gray 2008

Two lovers
di James Gray, 2008

Adattando a suo modo Le notti bianche di Dostoevskij, James Gray è riuscito nella difficile impresa di smarcarsi dalla sensazione di avere per le mani un regista che, per quanto capriccioso con i suoi 4 film nel giro di 15 anni, sembrava poter essere legato indissolubilmente a un singolo immaginario, diciamo, gangsteristico (sui generis): era difficile insomma immaginare un film come Two lovers dopo We own the night.

Allo stesso tempo però Gray traccia una chiara linea di congiunzione con l’opera precedente: Two lovers è sì un film estremamente differente, un dramma sentimentale, minuto e intimo anche se profondamente universale, sottilmente (e crudelmente) ironico, ma che risente di un evidente tocco personale – che si vede soprattutto nei temi e nelle figure rappresentate (il rapporto con la famiglia, la frustrazione, il compromesso) ma anche nel modo in cui il film è girato: compassato e cupo, e insieme quieto e avvolgente, e infine geniale nelle tre sequenze ambientate sul tetto del palazzo, volutamente centrali nello sviluppo della trama e girate con una precisione e un rigore geometrico che fanno sembrare claustrofobico e angosciante il più "aperto" degli ambienti, e che – del tutto personalmente, e inconsciamente – mi hanno ricordato alcuni momenti de L’avventura di Antonioni.

Il lavoro di Gray sugli ambienti (soprattutto quelli chiusi: le stanze, le botteghe, i ristoranti), e sui rapporti tra i personaggi rappresentati spesso tramite l’utilizzo di metafore e di feticci, e la recitazione dei tre protagonisti, attenuata e quasi soffocata dalla nebbia dei sentimenti, a cui viene concesso uno sguardo in macchina (come se soltanto noi potessimo fornire una redenzione dalle loro necessarie sventure, e ce la chiedessero in un istante, disperatamente), permettono di trasformare un triangolo amoroso che sulla carta sembrerebbe piuttosto prevedibile (banalizzando: lei ama lui, lui ama l’altra, l’altra non ama lui) in una riflessione sull’impossibilità umana di essere felici, a tratti (come nell’inevitabile finale) emotivamente devastante.

[hype]

Thirst, Park Chan-wook, 2009
(via)

Friday Prejudice #162

[voce del verbo montrucchiare]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Gran Torino, Clint Eastwood 2008

Gran Torino
di Clint Eastwood, 2008

La cosa migliore di Eastwood, nel suo cinema degli ultimi anni, è la capacità di prendere sceneggiature altrui e farne dei film profondamente suoi, fino al midollo. E’ il caso di Gran Torino, secondo film di Eastwood a uscire nel 2008 dopo Changeling, caratterizzato da una sceneggiatura (di Nick Schenk) non particolarmente brillante, o almeno poco più che onesta e scolastica, che nelle mani del regista si trasforma in una grandissima e commovente storia di redenzione e di sacrificio, insieme intima ed epica.

Ambientato in due strade e in due case, senza orpelli formali ma con un impressionante rigore, sia morale che visivo, il film in qualche modo è l’interpretazione di Eastwood. Capitale, gigantesca, sardonica, capace di trasmettere tutto il dolore di una lunga vita nelle pieghe della bocca e la voglia di giustizia in un grugnito, la sua performance riesce a rendere indimenticabile il ritratto di un ex reduce di Corea burbero e razzista, ancor di più se guardato nella prospettiva della sua intera carriera di attore e regista.

La giovanissima esordiente Ahney Her è davvero deliziosa, sia come personaggio che come interprete: speriamo che questa sia l’occasione per trovare dei ruoli ancor più adatti a lei.

Role models, David Wain 2008

Role models
di David Wain, 2008

"Well, obviously we’re not supposed to buttfuck these kids"

Ci sono svariate ragioni per le quali Role models è più divertente della media delle (innumerevoli) commedie americane, pur condividendone in modo piuttosto risaputo sia il linguaggio comico (situato però ai confini di Apatowlandia più che al suo interno) e soprattutto la struttura da buddy-movie, in cui però A vs B viene raddoppiato in A vs C + B vs D – lo so che è una scemata, ma non ho nient’altro da dire e voglio arrivare a fine paragrafo avendo detto qualcosa di almeno apparentemente intelligente.

Verrebbe da dire che ciò che rende Role models un film così spassoso sono quasi tutti fattori contingenti da addebitare a questa o quella scena, o a quello che dice o fa questo o quel personaggio in quella scena, e non sarebbe proprio un complimento per il film. In realtà, pensandoci bene, tutto ritorna a un immaginario rappresentato, apparentemente casuale ma che, anche grazie al cast (di primo e di secondo piano) sfiora ferite aperte con una consapevolezza geek non indifferente: la fissazione di Sean William Scott per i Kiss per esempio, o l’odio di Paul Rudd per le catchphrase, ma soprattutto il fatto che metà film è ambientato o fa riferimento al mondo dei LARP (Live Action Role Playing). E il modo in cui gli elementi arrivano a mescolarsi nel finale mostra le capacità di una sceneggiatura che forse non è una mera collezione di scenette simpaticamente scorrette. Ma anche se fosse, chi se ne frega: fa ridere. E (a patto di riconoscere i riferimenti, o ancor meglio di riconoscercisi) mica poco.

Christopher Mintz-Plasse, che ci aveva fatto innamorare di sé nel ruolo di McLovin’ in Superbad, e sulla cui tomba eravamo già pronti a mettere i fiori, è invece piacevolissimo da ritrovare nel ruolo di Augie. Toh guarda, è bravo davvero. Il personaggio di Jane Lynch invece mi fa semplicemente pisciare addosso ogni volta che apre bocca.

"Me and the judge have a special relationship. I don’t wanna get too graphic but I sucked his dick for cocaine."


Nei cinema italiani (pare) dal 22 Maggio 2009

Inutile dire ancora una volta che un film simile doppiato non ha alcun senso, ma lo dico lo stesso. Per chi volesse procurarsi la versione originale, il DVD Regione 1 è già in commercio, mentre quello inglese Regione 2 (la nostra) esce l’11 maggio.

Stanley Kubrick / 7 marzo ’99 – 7 marzo ’09

Dieci anni fa moriva Stanley Kubrick.

Il mio omaggio è qui.

7 marzo 1999 – 7 marzo 2009: una proposta

[7 marzo 1999 - 7 marzo 2009]

Domani saranno trascorsi 10 anni esatti dalla morte di Stanley Kubrick, uno dei più grandi registi della storia del cinema, scomparso per un attacco di cuore nel sonno il 7 marzo 1999, a pochi giorni dal completamento del suo ultimo capolavoro Eyes wide shut.

Questa è la mia proposta per domani 7 marzo 2009: omaggiare Kubrick sui vostri blog, sui vostri tumblr, sui vostri twitter o su friendfeed, sui vostri profili di facebook, dove vi pare.

Basta un post, una frase, un’immagine, il video della vostra sequenza preferita della sua filmografia, di un trailer, oppure una foto di scena, una foto da lui scattata, una foto di lui, un fotogramma del vostro film preferito, una frase, una citazione, il racconto di dove eravate quando avete saputo della sua scomparsa, o di quando avete scoperto il suo cinema.

Per ispirarvi, c’è l’Archivio Kubrick. A domani.
   

ps: oggi è il mio compleanno. Tanti auguri a me.

Friday Prejudice #161

[W&W]

Vi lamentavate che non c’era niente al cinema? Ecco.

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online.

Due partite, Enzo Monteleone 2009

Due partite
di Enzo Monteleone, 2009

Essere tratti da un’opera teatrale non è una condanna a priori, per un film, se questo sa trovare nella forma filmica una sua, chiamiamola così, dimensione cinematografica. Non è purtroppo il caso di Due partite, tratto dalla pièce di Cristina Comencini che assomiglia più a una versione filmata dello spettacolo che non a un vero adattamento.

Intendiamoci, il film è decisamente meno insopportabile e/o imbarazzante del cinema italiano che sta girando nelle nostre sale. Ed è breve, il che non guasta. E sarebbe anche scritto bene, sebbene non vada da nessuna parte e non abbia la benché minima capacità (né la voglia) di graffiare o di dire qualcosa di davvero forte sui caratteri di dipendenza e codipendenza (contingenti? immanenti? boh) che caratterizzerebbero l’universo femminile. Ma si tratta comunque di un film che, dichiaratamente, è la riproposizione sterile di un successo da palcoscenico su cui era ancora possibile monetizzare, una replica 2D assolutamente priva di una regia che non sia direzione d’attori: a quel punto, che il testo di origine sia valido ha ben poco peso sui risultati.

Il film semmai è più che altro l’occasione per fare il punto sulla situazione dello star system femminile italiano – e anche per fare il giochino di quali funzionano e quali no, tra questa caterva di attrici. Il meglio, lo dico subito, lo danno le attrici, più giovani, della seconda parte: chi più (Pandolfi, la migliore del quartetto, e Crescentini) chi meno (Rohrwacher e Milillo) riescono a sopperire al disinteresse fotoscenografico dell’episodio moderno, che invece teneva svegli nella parte ambientata negli anni ’60 con i suoi colori pastello e il mascara di troppo. Un po’ deludenti invece, appunto, la Buy (che rifà sempre le stesse faccette nervose), la Massironi, e la Ferrari (che si limita a fare un accento ridicolo, ed è davvero indigeribile).

Ma forse sono state semplicemente ammazzate dalla presenza di Paola Cortellesi, che è di una bravura (e di una bellezza) (e di una classe) sovrumana. Talmente brava che tutta la prima metà ad un certo punto sembra soltanto funzionale a lei (quando di suo non lo sarebbe affatto), talmente brava che mi ha fatto dubitare per un po’ che questo post fosse una stroncatura.

Watchmen, Zach Snyder 2009

Watchmen
di Zack Snyder, 2009

Avvertenza importante: in questo post c’è tutta una prima lunga parte fatta di premesse. Non lo so perché, ma mi è venuto così. E non è che mi piaccia. Ma tant’è, ormai. Il mio consiglio è ovviamente di leggerlo nel sensato ordine in cui è scritto, ma so che non lo farete.

Quello di cui non parlerà questo post: non spiegherà che cos’è Watchmen, di cosa parla, che temi tratta, cosa racconta, chi è Alan Moore, chi è Dave Gibbons, cosa pensa l’uno o l’altro di questo adattamento cinematografico, non dirà perché il loro graphic novel è uno dei capolavori della letteratura del novecento, perché questo progetto era così atteso e così difficile, e nemmeno soprattutto perché chi non abbia letto il fumetto molto facilmente si potrà trovare sperduto, confuso, e in definitiva deluso di fronte al film da esso tratto.
Se l’avete letto, lo sapete già.
Se non l’avete letto, con tutto il rispetto, sono affari vostri.*

Quello su cui non si soffermerà questo post: non tratterà la materia già abbastanza discussa dell’hype, e di come un parere sbilanciato random possa costruire false aspettative distrutte in seguito da quell’orrendo litigioso demone che chiamiamo soggettività e che qualche essere malvagio vuole spesso spacciarci per incomprensione o ignoranza.
Se non volete leggere un parere sbilanciato, fermatevi qui.
Se leggete e poi però la pensate diversamente da me, con tutto il rispetto, sono affari vostri.*

Quello che questo post ignorerà, per una buona ragione: i film precedenti di Zack Snyder.
Se volete sapere cosa ne penso, ho aperto un blog apposta: e uno, e due.

Quello che non c’è in questo post: spoiler.

Quello che dovete tenere presente semmai voleste leggere questo post: chi vi scrive in questo momento non ha alcuna voglia di essere freddo o oggettivo. Per esempio: chiunque mi conosca bene o legga con assiduità questo blog sa che io aspetto qualche ora, a volte qualche giorno, per scrivere di un film, non perché voglio tirarmela o riflettere – qui non si fa mica analisi dei film – ma volendo scrivere di tutto, spesso gli arretrati si accavallano, e preferisco mantenere un ordine. Stavolta invece sono rientrato in casa e ho cominciato a scrivere, senza sapere dove sarei andato a parare, e ancora adesso non lo so bene. E mi dispiace già in partenza, per questo post, nato menomato: qualunque cosa io scriva, nonostante tutto ciò che non scriverò, non ne scriverò mai abbastanza. La spiegazione è questa, e la scrivo apposta in questo paragrafo lunghissimo che non leggerà nessuno: non credo di aver mai aspettato un film quanto ho aspettato Watchmen. L’ho aspettato in modo viscerale, ormonale, per anni, fottendomene delle etichette già pronte, dei mille motivi per cui storcere il naso, dei disappunti della prima ora. Ho camminato verso la sala emozionato, dicendo tra me e me adesso vado a vedere il film di Watchmen: ed era veramente tanto tempo che non mi succedeva. Quindi: scindere in questo post un giudizio freddo dalla caratura emozionale esorbitante dell’esperienza in sé, vista e considerata altresì la mia personale e soggettiva ricezione dell’opera d’origine, è assolutamente inutile. Inutile. Potevo aspettare, o potrei riscrivere questo post tra qualche giorno, a mente fredda. Ma davvero: a che pro?

Fine delle premesse. Veniamo al dunque?
Watchmen
è meraviglioso. Adesso vi dico il perché.

Prima, però: vi ho visti. Il paragrafo precedente l’avete cercato e l’avete letto prima di tutti gli altri. Bene.
Se non vi basta, ricominciate pure da capo, se vi va.
Se vi basta, vi capisco, io stesso avrei cercato solo quello. Potete chiudere la finestra.*

Quello che ha fatto Snyder in questo film è presto detto: ha preso un’opera grande e magniloquente che alla sua grandezza e magniloquenza si è vista aggiungere addosso nel corso degli anni l’alone pesante del culto che l’ha resa addirittura ingombrante, e ne ha fatto un film che riesce, non so spiegarmi come, ad essere sia la trascrizione quasi letterale del libro, da ogni punto di vista (parliamo di dati oggettivi: costruzione delle inquadrature, persino movimenti di macchina, ovviamente dialoghi, "Doctor, I am Pagliacci", "I’m not a comic book villain", e via dicendo), e sia, allo stesso tempo, una lettura personale, con uno stile riconoscibile ma maturato, e comunque vorticoso e fiammeggiante, che ne sottolinea e ne fa emergere ancora di più la sua inquietante attualità.

E lo fa in ogni passaggio, a partire dai titoli di testa – che, lasciatemelo dire, sono tra gli opening credits più formidabili degli ultimi anni: geniali, ironici, sintetici, perfetti fino alla commozione – ma la sua strategia si esprime in modo più evidente attraverso la colonna sonora. E’ incredibile infatti come le scelte musicali del film, che appaiano inaspettate, curiosamente azzeccate oppure (una in particolare) bizzarre e quasi irraccontabili, riescano a plasmare la materia che si supponeva fosse immutabile, e che come tale effettivamente appare a orecchie tappate, trasformando Watchmen in qualcosa di diverso, mutandone i toni – mutandolo in qualcosa che, non riesco a trattenermi, mi entusiasma.

Fino a quando arriva il momento in cui Snyder e i suoi sceneggiatori si sono confrontati con l’effettivo dilemma dell’adattamento: ma la breve deviazione narrativa con cui il film si distacca dal libro, poco prima della fine (succede: fatevene una ragione) risulta non soltanto naturale ma, a quel punto, quasi necessaria. Altro che lesa maestà. Nel mio entusiasmo pregiudiziale, quasi fanciullesco, questa era l’unica cosa che, sbagliandomi, mi faceva davvero paura – senza dubbio mi faceva molta più paura che quattro combattimenti al ralenti o la supposta cessione a dinamiche da action movie.

E sì, vi vengo incontro: Watchmen non è un action movie, e non si comporta come tale – è semmai quello che deve essere, e punto: un film lacerante ed emozionante, lungo, densissimo, impegnativo, sull’identità e sulla natura umana in cui ogni tanto la gente si picchia. E le battaglie ci sono: ma narrativamente marginali, come da copione (leggi: libro) e nonostante siano girate con hollywoodiana professionalità, non si pensi a zuccherini buttati perché le masse ingoino l’amaro ricino dei monologhi di Rorschach. Sono duelli corpo a corpo, calci, pugni, corpi pesanti contro corpi pesanti (che si fanno all’improvviso leggiadri come l’aria) (e poi ancora pesanti come l’acciaio), ferite sanguinanti, arti mozzati, sangue dannazione, sangue a fiotti.

Perché Watchmen è un film violento, inauditamente violento, soprattutto se si guarda a quei colorati costumi di latex, ai colori dominanti nei vestiti, nelle insegne al neon, nella pubblicistica persino, e sulla luminosa silenziosa superficie di Marte. Perché Watchmen, il film, è in realtà nero, cupissimo, disperato – cupo come il cielo plumbeo pieno di pioggia che ricopre New York, disperato come un pianeta già morto, e destinato all’Armageddon, un pianeta che si può salvare soltanto camminando inerti e in lacrime sui resti inceneriti dei cadaveri, piangendo per uno di loro, in ginocchio sulla neve – e per ciascuno di loro, per il resto della propria vita.

Lo so che vi piacerebbe un finale beffardo, aperto, in cui si scopre che invece il film mi aveva fatto schifo e vi stavo prendendo in giro, e invece il mio post su Watchmen non è Watchmen, vivaddio, e finisce qui.*

*si è sempre in tempo a cambiare idea.

Ip Man, Wilson Yip 2008

Ip Man
di Wilson Yip, 2008

Per quanto il nome suoni a noi sconosciuto, Ip Man è una delle più celebri figure della cultura cinese del novecento. Originario di Foshan, dove il film è infatti ambientato, conobbe fama e fortuna quando nel 1949 fuggì dal regime comunista per aprire una scuola a Hong Kong, rendendo celebre in tutto il mondo l’arte marziale in cui era specializzato e che insegnò fino alla morte nel 1972: il Wing Shun (letteralmente: Canto di Primavera). Quella, per intenderci, praticata da Bruce Lee – che infatti è stato il suo allievo per quattro anni, a metà degli anni ’50.

Ma il film di Wilson Yip, da quasi 15 anni uno dei registi più interessanti ed eclettici del cinema hongkonghese, dopo una mezz’ora in cui si introduce necessariamente il personaggio di Ip Man e la sua quieta filosofia di vita zen, racconta romanzandola un’altra storia: come Ip Man sopravvisse alla violenta invasione giapponese negli anni ’30, prima cercando un sostentamento per la sua famiglia e successivamente mettendosi in prima fila contro un generale deciso a mostrare la superiorità delle arti marziali giapponesi. Ferocemente antinipponico, il film non è solo il racconto di una figura leggendaria e dalla statura immediatamente epica – e il film riesce, soprattutto grazie alla flemma di Donnie Yen, a trasmettere questa concezione mitologica senza bisogno di troppe didascalie – ma anche una parabola profonda sull’onore e sul valore.

Ip Man si può mettere a confronto con il buon Fearless di Ronny Yu, che raccontava la storia del maestro Huo Yuanjia (1868-1910). Ma il film di Yip lo supera di gran lunga, sia per la compostezza e le qualità formali, che per la meraviglia dei combattimenti (curati dalle mani esperte di Sammo Hung e Leung Siu Hung), che per la precisione mista a potenza con cui trae da un racconto storico, narrato peraltro con una grande cura nella ricostruzione dei dettagli scenografici (spesso con attributi quasi teatrali, come la buia stanza dove si svolgono i combattimenti in onore del generale, ma anche la Foshan-set) e nessun cedimento alla vuota spettacolarizzazione dei gesti, un film enormemente appassionante, e persino commovente – per esempio, nel ruolo affidato all’attrice Lynn Hung verso il finale.

Nel cast, la parte del leone la fa ovviamente Donnie Yen nella parte di Ip Man, ma anche il cast secondario è eccezionale: vibrante la prova difficile di Gordon Lam, ottimo come sempre Simon Yam, e perfetta la presenza imponente di Hiroyuki Ikeuchi.

L’edizione home-video hongkonghese è disponibile da febbraio sia in DVD che in Blu-ray, ma purtroppo è Regione 3.

Ne ha scritto, ben prima di me e ben meglio, il buon Murda.