Ong bak 2
di Tony Jaa, 2008
Attendevamo con una certa apprensione Ong bak 2, non-sequel del film con Tony Jaa che nel 2003, pur con tutte le sue ingenuità, rappresentò uno dei momenti più interessanti del cinema di arti marziali di quel periodo – impressione confermata dal successivo The Protector, sempre diretto da Prachya Pinkaew. Quest’ultimo è poi andato a girare l’ottimo Chocolate, mentre Jaa, adiuvato dallo stunt coordinator Panna Rittikrai (qui sceneggiatore), ha deciso di sviluppare un progetto molto più ambizioso: realizzare quello che non è solo il suo esordio alla regia, ma un film che significhi il salto di qualità per tutto il genere – e quindi anche per l’industria dell’intrattenimento thailandese e per il suo mercato.
Come sia andata a finire, i più attenti lo sanno: Tony Jaa ha dato letteralmente di matto, rendendo le riprese impossibili alla crew (imparando dai maestri), e fuggendo infine nella giungla a piangere per settimane, rischiando di mandare tutto a puttane – prima di tutto per motivi economici, nonostante il budget fosse senza precedenti per i canoni thailandesi, ma anche artistici e psicologici. Ecco perché quando Ong bak 2 ha cominciato ad apparire sugli schermi, ci si credeva a fatica. Che esistesse davvero, dico, Ong bak 2. Ma questo è un riassuntino for dummies: la buona notizia è che, nonostante tutti i casini combinati da Jaa durante la produzione, l’attore-atleta-regista è riuscito perfettamente nel suo intento.
Ong bak 2 è infatti il film che, in assenza di una concorrenza valida o almeno, quantomeno, rilevante – eleva finalmente il contesto thailandese allo state-of-the-art del cinema di arti marziali nel cinema di oggi. E non più solo per motivi meramente acrobatici: questo aspetto, proprio quello che aveva reso così celebri i precedenti film con Jaa viene infatti messo in secondo piano (e la cosa, suppongo, troverà del malcontento) e relegato, se così si può dire, all’ultimo, spettacolare, segmento del film. I combattimenti ci sono, senz’altro: ma sono meno di quello che ci si poteva aspettare, nonché diversi (più tecnici, diciamo pure più specialistici, più legati alla narrazione, meno insistiti che in passato).
Quello che sorprende è tutto il resto. C’è, sì, ancora una vicenda vagamente pretestuale che fa perno su elementi tragico-edipici vecchiotti (ma che ci frega, in fondo: questo è cinema di corpi che danzano, il resto è fuffa ed è giusto che lo sia), ma tutto intorno, tra un combattimento e l’altro, c’è molto altro – c’è una statura tecnica inaspettata, e dei production value che sono (finalmente!) all’altezza del cinema internazionale. Ottima fotografia, scenografie curatissime, bellissimi costumi, musiche perfette, un film che è bello da vedere, che è finalmente degno di accompagnare quello che Jaa riesce a fare con il proprio corpo – e, poveri loro, con i corpi di tutti quelli che provano inutilmente a rompergli il culo.
E una grande (o almeno, relativamente grande) libertà espressiva - chi si sarebbe potuto aspettare una sequenza di balletto così lunga, peraltro per nulla pretestuale, a metà pellicola? – che aumenta l’aura di bizzarria che già circondava uno dei progetti più assurdi ed esaltanti del cinema asiatico recente. E che, miracolo!, "ci siamo portati a casa" senza fare troppi danni. Anzi.
Cult immediato il combattimento con una sorta di demone femmina sul dorso di un elefante, anche per come interrompe per qualche minuto la tenuta "realistica" del film provocando un improvviso ed esaltante corto circuito con il cinema horror – che potrebbe, chissà, avere qualche riscontro nel sequel. Perché sì, vi avverto, ci sarà un sequel. E il finale di questo vi farà incazzare come delle bestie.
La maggior parte delle cose che ho scritto, e di quelle che avrei potuto scrivere, le ha già espresse – seppur con un pizzico di entusiasmo di troppo, a parer mio – anche Nanni Cobretti su I 400 Calci. Andate a leggervelo.