aprile 2009

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Friday Prejudice #169

[it's Miley!]

Ehi toh, c’è il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Adesso io vado al Far East Film Festival, fino a domenica. Non credo che vi aggiornerò da queste parti. Almeno, non fino al mio ritorno. Nel frattempo potete tenere d’occhio il mio twitter, dove è più facile che io scriva qualcosa da Udine. Ecco tutto.

Il titolo di questo post lo gradisce solo chi guarda The Soup, cioè solo io.

X-Men Le origini: Wolverine, Gavin Hood 2009

X-Men Le origini: Wolverine (X-Men Origins: Wolverine)
di Gavin Hood, 2009

Potrei prendere questa buona abitudine: di non dedicare troppo tempo ai film che non se lo meritano. Ciao, sono il kekkoz del futuro, vengo da tra 10 minuti, ho appena finito di scrivere il post e purtroppo è venuto lunghetto lo stesso. Ah. Pazienza. Comunque: le stroncature sono una cosa, ma su un film come Wolverine (chiamiamolo così, per decenza e rispetto dei caratteri sprecati) cosa diavolo vuoi scrivere? Non ti puoi neanche accanire. Perché non fa nemmeno uno sforzo, un cazzo di sforzettino, per venir fuori bene. Non ci prova. E infatti non è brutto quanto X3: ma se volete fa anche meno simpatia.

Sequenze d’azione agghiaccianti da una parte (crolla una certezza: non possiamo dare più per scontato nemmeno che facciano delle sequenze action decenti), una struttura narrativa risaputa e risibile dall’altra, senza spiegare né l’una ne l’altra faccenda: Wolverine tira giù il livello del cinema superomistico a una roba che sarebbe stata fica, che so, 10 anni fa, oppure che sarebbe stata accettabile se l’alternativa era solo Daredevil e Spawn (e badate, che i materiali di partenza sono favolosi) oppure se fosse un film trasmesso alle 23 su Italia1 e non una megaproduzione da fantastiliardi di dollari. Ci siamo abituati troppo bene, forse, negli ultimi tempi: ma anche senza scomodare X-Men 2, basta ripensare a un film come quello di Singer che aprì la saga dei mutanti nel 2000 per provare una galoppante malinconia.

Poi, insomma, al di là del ridicolo involontario di cui il film è traboccante, da tutta la cosa della fuga bucolica di Logan (I’m a lumberjack and I’m okay) fino all’avvento finale di *un certo personaggio* ri-trattato con un misto di botox duro e sfumino-di-photoshop, passando per tutti e dico tutti i possibili luoghi comuni basati sull’archetipo Caino-Abele (ma sempre affrontati con il pathos di chi sta dicendo qualcosa di intenso e unico), qualcuno mi spieghi come si fa a prendere sul serio – e intendo sempre come intrattenimento di livello decoroso, cosa che il film non è – un film che come comedic relief sfoggia una sequenza in cui Logan fa un incontro di boxe con il sosia di Ciccio Bastardo?

Qualche spunto divertente nei primissimi minuti (che promettevano bene) e nella parte finale, perché il film abbandona ogni logica diventando spudoratamente esagerato e kitsch, e perché spunta Deadpool. Ma si è arrivati a quel punto rompendosi le palle a dismisura, e c’è sempre tempo per ricominciare a fare cazzate, per esempio con qualcuno chiude in modo compassionevole gli occhi di un morto. Bella merda, Gavin Hood.

E adesso, chiudiamo con una nota felice.

RocknRolla, Guy Ritchie 2008

RocknRolla
di Guy Ritchie, 2008

"Beauty is a cruel mistress, is it not?"

Senza strapparci le viscere e lo scalpo, lo possiamo dire, a voce bassa, piano piano, che non ci sentano, che Guy Ritchie è tornato? O almeno, che è tornato in forma? D’accordo, RocknRolla non è Lock & Stock: e allora? Ok, ogni tanto dà la sensazione di essere già un revival di se stesso: ma potevamo chiedere di più? Suvvia.

Perché non solo il film è uno spasso innegabile (se non vi divertite con questa roba, siamo sinceri, non parliamo nemmeno la stessa lingua), pieno di persone che parlano e camminano e agiscono sopra le righe, di irresistibili situazioni à la Ritchie (due esempi tra tutti: il monologo sugli schiaffi e il balletto con le sovraimpressioni), di un uso grottesco della violenza che non sembra essere uscito vivo dagli anni ’90, e la solita sequela di catchphrase pazzesche. Tipo "there’s no school like old school, and I’m the fucking headmaster", per capirci.

Oltre a questo, che già basterebbe per una seratina davvero come-si-deve, ci sono anche un Tom Wilkinson impressionante e calibratissimo, un Gerard Butler fico come non mai ma che accetta finalmente di esprimere in toto la sua anima più ironica e cazzona, una Thandie Newton tornata alla sua antica specialità (quella di farlo rizzare a tutti, personaggi e pubblico in sala, con la sola forza del pensiero) e soprattutto Toby Kebbell, responsabile di una performance furiosa e perfetta, oltre che di tre minuti da brividi – gli unici, approssimativamente, in cui Ritchie sembra tornare sui passi percorsi in Revolver, ma senza quella sensazione di che-cavolo-stai-dicendo-willis.

Sarò banale a citarla, ma la sequenza dell’inseguimento tra "i nostri eroi" e due gangster russi sostanzialmente immortali è una delle robe più incontrollatamente divertenti che mi sia capitato di vedere al cinema quest’anno. Non è poco.

El pube è un pilota | nuove serie tv 2009 #1

[el pube è un pilota: 2009 edition #1]

Piccola guida alle nuove serie tv
Gennaio 2009 / Aprile 2009*

L’anno scorso c’era lo sciopero degli sceneggiatori. Quest’anno non ho più scuse. E nel corso dei mesi in molti mi avete chiesto di tornare a parlare di serie tv. Eccovi accontentati. Questo post è stato un po’ uno sbattimento, spero che ne sia valsa la pena. Se vi va, commentate e condividete.

*nota: va da sé che in questo post si parla solo di serie nuove e iniziate nel 2009

Non c’è gara, non ci sono cazzi: tra le serie iniziate quest’anno, non ce n’è una che regga il confronto con Dollhouse. La nuova creatura di Joss Whedon è partita con un pilota debolissimo che ha fatto preoccupare molti fan, e poi è cresciuta a dismisura, diventando in breve tempo la cosa più figa in circolazione, grazie una commistione Puramente Geniale di generi ed elementi, ovviamente strapiena di ammiccamenti geek. Eliza Dushku è una Dea. Solo 12 episodi, che si chiudono il prossimo 8 maggio: sbrigatevi.

L’altra grande sorpresa della primavera televisiva americana non è una serie, ma una miniserie: Harper’s Island è ambientata su un’isola durante la settimana che prelude a un matrimonio. Peccato che gli invitati cadranno come mosche: almeno un morto a puntata, promette la produzione. Sullo sfondo, un misterioso serial killer che ha colpito qualche anno prima. Il tutto raccontato come se fosse una soap-opera, ma con la gente che muore sbudellata o bruciata viva. Incredibile. Composta da 13 episodi, finisce a luglio.

Sono tre le nuove serie comedy che valgono la pena di essere seguite. Scelgo come favorita Party Down, che è stata creata da Rob Thomas ma che con Veronica Mars non ha molto a che fare, cast a parte: i cui protagonisti sono una compagnia di catering, ma in realtà, a parte l’improbabile boss, sono tutti attori o sceneggiatori falliti. Per intenderci, il tipo di comicità è figlia dei film prodotti da Judd Apatow: non a caso, tra  creatori e produttori c’è Paul Rudd. Fa ridere, è scritta da dio, c’è Jane Lynch, c’è Lizzy Caplan. Basta?

Bisognerebbe studiare il mio volto quando mi metto davanti a Better Off Ted. Non riesco a staccarmi il sorriso dalla faccia. In realtà, c’è poco da ridere: la serie è ambientata nel settore Ricerca e Sviluppo di una malefica multinazionale. Dei due protagonisti Ted e Veronica ci importa meno: la scena la rubano i due ricercatori Phil e Lem (Jonathan Slavin e Malcolm Barrett) e, soprattutto, una Portia De Rossi immensa, da standing ovation.

Attesissima e annunciata per mesi, Parks and recreation è per Amy Poehler quello che 30 rock è stato per la sua BFF Tina Fey. Qui non siamo a quei livelli, e la serie ci mette un po’ a ingranare: non giova troppo il fatto che lo stile sia preso paro paro da The Office, ma ci si diverte, e nemmeno poco. Comunque, Aziz Ansari vale da solo il prezzo del biglietto. All’inglese: 6 episodi da 20 minuti, e poi basta. Vedremo se regge.

Passata un po’ inosservata, Demons è la serie britannica più fica dell’anno, perfetta per gli orfani di Doctor Who (che tornerà a pieno regime nel 2010 sotto l’egida di Steven OMG Moffat). 6 episodi trasmessi tra gennaio e febbraio: il protagonista è il giovane Luke, ultimo discendente dei Van Helsing. Oh, sì. Rupert Galvin ha il volto del Philip Glenister di Life on mars ma l’accento americano, è un cacciatore di demoni, e gli farà da mentore. Ciliegina sulla torta: Zoe Tapper nel ruolo di Mina Harker. Ebbene sì, ho detto Mina Harker.

Difficile dire se seguirò The Unusuals (ABC) dopo i primi 3 episodi, ma vale la pena scriverne perché non passi come il solito procedurale. Non lo è. Prima di tutto, ci sono degli attori veri: Amber Tamblyn e Jeremy Renner, ma soprattutto Adam Goldberg e Harold Perrineau: irresistibili. Secondo, è scritta molto meglio della media. Terzo, per il ritmo forsennato. Infine, perché la butta sul ridere. Tipo NYPD, ma più cazzone.

La serie che tutti gli altri amano, e che hanno ragione di amare, ma che io ho temporaneamente accantonato dopo il pilota. Mea culpa. Si tratta di Eastbound and down (HBO), creata da Jody Hill e Danny McBride, con quest’ultimo come protagonista, nel ruolo di un ex campione di baseball cafone e parolacciaro, costretto a fare l’insegnante di ginnastica. Procuratevela, la amerete alla follia: io me la tengo lì per i momenti di magra.

Mi rendo conto che si tratta di una minchiata e che la prima battuta è uno che va a sbattere contro un palo, ma i primi due episodi di Kröd Mändoon and the Flaming Sword of Fire mi hanno fatto sganasciare. Non tanto per la rilettura parodistica del fantasy à la Xeena, davvero fuori tempo massimo, ma per i singoli elementi che la compongono. In primo luogo, il cast: India de Beaufort è fa-vo-lo-sa. E scommetto che se vi dico chi interpreta il super-cattivo, vi ci lancerete tutti senza troppi indugi.

Non per tirarmi indietro, ma Cupid è il tipico caso – ce n’è almeno uno a stagione – di pilota di cui mi innamoro ma che non mi spinge a continuare la serie. Per adesso sono bloccato lì. Comunque: lui è convinto di essere Cupido himself, in missione per conto degli Dei: deve formare 100 coppie. Lei è la psichiatra che lo tiene d’occhio, ed è Sarah Paulson (capito, orfani di Studio 60?). La serie più pucci del 2009, senza dubbio.

Qualche nota sulle altre serie iniziate da gennaio a oggi. Trust Me (nella foto), per capirci, è come Mad Men ambientato al giorno d’oggi. Ben scritto e rinforzato da un’ottima coppia di protagonisti (Tom Cavanagh e Eric “Will di Will & Grace” McCormack), ma rimane una scelta secondaria. Il fatto che nella prima stesura di questo post io abbia dimenticato Lie to me vi fa capire quanto mi interessi: ho visto il pilota, non era nemmeno male, ma poi ho abbandonato. Fatto male? Per chi si chieda dove sia finita invece United states of Tara, la creaturina di Diablo Cody, in questa lista: non c’è. Dopo 2 o 3 episodi mi sono reso conto che non me ne fragava niente.

Enorme delusione anche Castle: capita l’antifona, non ho nemmeno portato a termine il pilota, nonostante Nathan Fillion sia sempre un bel vedere. Stesso risultato con Being human: versione seriale di una bella miniserie inglese, sostanzialmente rovinata nel trasferimento. Abbandonato dopo il pilota invece Kings: versione pomposa, bizzarra e camp della storia biblica di Davide, una noia mortale. Dicono che migliori: non ho voglia di verificare. Infine, non ho ancora visto Southland e non ne ho nemmeno intenzione, ma se ne parla bene. Fate voi.

Infine, chiudiamo con Important things with Demetri Martin. Che non è una serie, è uno show di Comedy Central: Demetri era uno dei più bravi corrispondenti del Daily Show. Ma il suo spettacolo è la roba più indipendente, folle e geniale che ci sia in circolazione. Ogni settimana un tema ricorrente: ma è solo un presesto. Imperdibile. Scordatevi i sottotitoli: ma lo sforzo viene ben ripagato.

State of play, Kevin Macdonald, 2009

State of play
di Kevin Macdonald, 2009

Non ho voglia, c’è poco da dire, vieniamo al dunque: il film è tratto da una miniserie della BBC che purtroppo non ho mai visto (ma che potrei anche decidermi a vedere, visto il cast della madonna), e sposta l’azione dal Regno Unito a Washington DC. Russel Crowe è il giornalista vecchio stampo, Ben Affleck il politico in difficoltà, Rachel McAdams è Kelly Macdonald, Helen Mirren è la doverosa rappresentanza britannica.

Come si può evincere da pochi elementi, State of play è abbastanza inquadrabile, altrettanto inquadrato, pure squadrato, aggiungerei. Ma questa diventa anche la sua forza: il film è sensato, attualissimo e divertente, la regia di Macdonald è capace, robusta e pragmatica, il cast è fascinoso e terribilmente azzeccato – persino Ben Affleck. Non si prende mai il volo, ma si trova gusto nel tenere i piedi ben piantati a terra, nonostante la sceneggiatura tenda a inseguire semplificazioni e rassicurazioni narrative.

Alla fine, in questo panorama di inattaccabile e spassosa mediocrità, riesce però a spuntarla in modo eccellente il discorso centrale del film, quello sulla morte e sul significato del giornalismo (e dell’immaginario del "giornalista"), che aggiorna Tutti gli uomini del presidente – anche con omaggi espliciti – ai tempi del blog e del giornalismo online.

Nei cinema dal 30 aprile 2009

Franklyn, Gerald McMorrow 2008

Franklyn
di Gerald McMorrow, 2008

Avendo già espresso sinteticamente una posizione "a caldo" su twitter, ed essendo passata ormai dalla visione una settimana, spesa a cercare di rimuovere l’impressione di fastidio e di presa per il culo che Franklyn mi ha causato, cercherò di essere breve ripetendo quanto già era ben chiaro: Franklyn è una delle più brutte delusioni dell’ultimo periodo, e già buon candidato al Premio Cantonata 2009.

Il problema è che Franklyn è il figlio ideale di un’idea di cinema, aberrante o perlomeno pericolosa, per la quale il mero mescolare le carte (narrative, culturali, linguistiche, fate voi) dovrebbe bastare a tirare fuori un cult movie – e poco importa se il film in sé è una robaccia confusa e noiosissima, qualcuno ci cascherà con tutte le scarpe. McMorrow dev’essere uno di quelli convinti, per dire, che Donnie Darko fosse fico a prescindere da cosa fosse messo in scena, perché uscivi e wow, non ci ho capito un cazzo. Ehm, volevo dire: no.

Così, dopo un’ora abbondante di cosa diavolo sta succedendo, quando l’impianto viene spiegato, esplicitamente, senza più alcun dubbio (inclusa la tremenda risoluzione finale), è davvero difficile non sentire la propria voce dire a voce alta "beh?" e poi, quando tutti si sono girati a guardarti, dire "beh, dico, è tutto qui?". Mi hai spacciato una cialtronata che è un pretesto, di una futilità imbarazzante, per mettere in scena dei tizi con dei cappelli a cilindro e per far dire a Eva Green quattro sciocchezze sulla morte per una riflessione sul rapporto tra il sé e la realtà? Tra l’altro trascinandomi al cinema con l’inganno? Bravo Gerald, bell’inizio davvero.

Se vi viene voglia di uscire e vedere questo film, guardatevi qualche foto di Eva Green, è un’esperienza assai più soddisfacente ed è pure gratis.

Friday Prejudice #168

[vabbè, era inevitabile]

Ops, ho sforato. Ma ci sono: il nuovo episodio di Friday Prejudice, et voilà.

Friday Prejudice #167

[eva, santa donna]

Giusto al pelo, il nuovo episodio di Friday Prejudice.

In search for a midnight kiss, Alex Holdridge 2007

In search of a midnight kiss
di Alex Holdridge, 2007

Trovatisi di fronte a In search of a midnight kiss, capolista del movimento mumblecore, in molti hanno tirato in ballo confronti con Clerks. Le ragioni sono molteplici: il budget approssimativamente simile (la cifra stimata, assolutamente ridicola, è di 25 mila dollari), la scelta del bianco e nero, e soprattutto alcune situazioni particolarmente colorite e gli affilatissimi dialoghi messi in bocca a Sara Simmonds e al comprimario Brian McGuire.

Ma fermarsi a un "nuovo Kevin Smith" sarebbe limitante. Perché quello che In search of a midnight kiss riesce a fare, con quattro soldi e "tra amici" (divertente vedere le interviste in cui la Simmonds e il co-protagonista Scoot McNairy rispondono a occhi sgranati a giornalisti che chiedono di "provini" e "selezioni" per il ruolo), è molto di più: rivedere completamente l’immaginario collettivo legato al downtown di Los Angeles, tanto da rendere la città quasi irriconoscibile.

Fotografata nello splendore della Sony HVR-Z1 da Robert Murphy, la Città degli Angeli è la vera protagonista di una ballata cinica e a suo modo romanticissima, fatta di strade attraversate, posti dove fermarsi, luoghi dove innamorarsi e poi dimenticarsi, in una tiepida e lunga giornata di fine anno. Mentre nelle case si consuma l’inganno e il mistero, si trovano fievoli catarsi per l’impossibilità di amarsi fino in fondo, è la città con le sue luci e le sue ombre l’unica testimone definiva di un amore che nasce, e di un amore che muore.

Ma in Midnight kiss, sebbene il suo fascino immediato sia portato dalla splendida fotografia e dalla sceneggiatura divertita e divertente, irriverente e logorroica, c’è anche un personaggio femminile, la Vivian di Sara Simmonds, indimenticabile nel suo percorso da Insopportabile Stronza mezza matta a ragazza che nasconde dietro la scorza bitchy gli occhiali da sole una inaspettata fragilità. E, ancora una volta, quello che si trasmette è la spaventosa consapevolezza che ultimo romanticismo possibile è quello passeggero, aleatorio, impalpabile, di un bacio dato a mezzanotte, e di un inevitabile addio.

Questo è il terzo film del 34enne Alex Holdridge: ma è il primo a superare davvero le barriere della zona di Austin (dove le sue precedenti opere avevano già sbancato il SXSW e l’Austin Film Festival) conquistandosi agli Independent Spirit Awards l’ambito John Cassavetes Award – dedicato alle opere con budget inferiori ai 500 mila dollari. Speriamo che sia solo il preludio a una lunga carriera. Un futuro di cui, in questo film, si vede ben più che la promessa.

Impossibile non citare infine la colonna sonora: due brani degli Okkervil River, tre degli Shearwater (entrambi complessi "compaesani" di Holdridge), e una chiusa sul classicone Wind of change degli Scorpions che strappa le budella.

Il DVD inglese è in vendita su Play.com, e costa pure poco, pochissimo.

Hannah takes the stairs, Joe Swanberg 2007

Hannah takes the stairs
di Joe Swanberg, 2007

Di cinema mumblecore da queste parti si è parlato più di un anno e mezzo fa, in occasione della proiezione del bellissimo Quiet city al Milano Film Festival. Se ne parlò inconsapevolmente: erano passate infatti poche settimane da quando il termine stesso era stato coniato (o meglio, reso pubblico) dal regista Andrew Bujalski – che qui interpreta Paul.

E di questo movimento del cinema indipendente statunitense si parlerà da queste parti, ve lo anticipo, anche nel prossimo periodo.

Terzo film di Swanberg, classe 1981 e qualche mese più giovane del sottoscritto, dopo Kissing on the mouth e LOL, Hannah takes the stairs è un caso abbastanza esemplare: girato in digitale, budget praticamente inesistente, molta improvvisazione, cast di amici e frequentatori del movimento (Bujalksi appunto, che ha praticamente inventato il "genere" con Funny Ha Ha, ma anche Mark Duplass, fratello di Jay Duplass e co-regista dell’acclamato Baghead, oltre ovviamente alla protagonista Greta Gerwig che è stata definita "mumblecore muse"), pochissimi peli sulla lingua, e una narrazione basata quasi completamente sui dialoghi.

Il tutto messo in scena, con pochi fronzoli ma innegabile intelligenza, per parlare della volubilità amorosa e della frustrazione sentimentale dei venti-trentenni degli anni zero, di incomunicabilità e insoddisfazione cronica, con un piglio ironico e autoironico (per come sfotte bellamente la sorpassata blog generation), cinico e disilluso forse prima del tempo ma deciso e sfrontato, sospeso tra la spocchia presuntuosa e volutamente irritante e l’intuizione perfetta (come la gag romantica delle maschere da sub, o il duetto finale), ma con una franchezza che è aria fresca nel cinema "indie" contemporaneo, e una spigliatezza, consapevolmente autodistruttiva, e in fondo romantica proprio nel suo dichiarare l’amore oggi come un inevitabile e annunciato fallimento. Per il quale però vale sempre la pena di fare, che so, qualche tentativo.

Il DVD americano è disponibile da parecchio tempo. Quello inglese, Regione 2, esce invece il 27 aprile: già preacquistabile su Play.com.

The man who loved Yngve, Stian Kristiansen 2008

The man who loved Yngve (Mannen som elsket Yngve)
di Stian Kristiansen, 2008

"Ok, non si chiama Unione Europea né Russia. Non c’è la guerra al terrorismo. Nessuno ha un iPod. Cellulari, Internet, quella roba è fantascienza. Mi capite? No? Ok. E’ il 1989. Si chiama Comunità Europea, e io sono contro, cazzo. Si chiama Unione Sovietica, guerra fredda, Thatcher. La Norvegia ha il petrolio e gli yuppie, e la gente va in giro con dei piumini rosa, dei mullet con la permanente, e ascoltano musica di merda. Cosa ho fatto per meritarmi questo? Tutto è una barzeletta. Tutte le ragazze vanno negli USA alla pari "se la spassano da matti". Alla pari? Maledizione. Non ho amici. Non ho mai fatto sesso. Non ho idea del perché sono qui. Il mio nome è Jarle Klepp, e voglio una vita".

Con questo sfogo fulminante, recitato dal protagonista Rolf Kristian Larsen con lo sguardo in macchina durante una gita scolastica tra le paludi, inizia il primo film del regista norvegese Stian Kristiansen. Bastano pochi istanti, e Jarle trova una sua dimensione grazie all’amicizia con Helge Hombo, sancita dalla passione per Psychocandy dei Jesus and Mary Chain e per il disprezzo nei confronti dello status quo, la voglia di fuga. Titoli di testa scritti su audiocassette: tanto per capirci. Tre mesi dopo: il muro di Berlino è crollato, Helge e Jarle hanno fondato una band, Jarle sta con la ragazza dei suoi sogni, Cathrine. E il film, solo allora, è pronto a incominciare.

L’oggetto del desiderio che scatena la narrazione di Mannen som elsket Yngve è infatti, secondo gli schemi del teen-movie, un "individuo alieno", una squassante potenza esogena – il ragazzo nuovo giunto nella classe di Jarle. Biondo, pallido e delicato, Yngve gioca a quell’orribile depravazione borghese che è il tennis, ascolta robaccia synth-pop come i Japan di David Sylvian, è apparentemente antitetico a Jarle. Ma quest’ultimo prova per lui una fascinazione immediata che manderà in subbuglio non solo il rapporto con Helge e Cathrine, ma anche il sistema di valori, o presunti tali, su cui aveva costruito la sua identità. Quella stessa vita che chiedeva, ci chiedeva, a gran voce.

Quello di Stian Kristiansen è un esordio davvero sorprendente, per la sapienza con cui affronta di petto tutti i rischi del film adolescenziale da una parte, e del period movie sugli anni ’80 dall’altra, uscendosene con un film piccolo ma assolutamente irresistibile che parla, appunto, sia della ricerca del sé negli anni dell’adolescenza e di identità sociale e sessuale, sia di un momento storico ben definito e riprodotto con cura e malinconia in parti uguali – e per il suo trattare entrambe le facciate di una storia di crescita, di amicizia e di solitudine con grande freschezza, e soprattutto grande sincerità.

Gran parte del merito dell’umore che il film trasmette è dovuto poi a una scelta musicale molto precisa, proprio come è essenziale la musica stessa nello sviluppo della storia e nei rapporti tra i personaggi, dall’apertura su I wanna be adored degli Stone Roses fino ai Cure, passando per i R.E.M. di The one I love e, ovviamente, i Jesus and Mary Chain – senza contare l’apporto di band norvegesi come i Raga Rockers e gli Aller Værste!.

Il film, uscito in Norvegia più di un anno fa, è stato proiettato in una quantità notevole di festival in tutto il mondo, tra cui – sentite questa – la sfigatissima edizione 2008 del Festival Internazionale di Roma. Che però, per ora, non gli ha portato fortuna: non c’è traccia di un’uscita italiana, tanto per cambiare. Peccato.

Purtroppo l’edizione DVD norvegese non ha i sottotitoli in inglese: se volete acquistarlo, vi conviene aspettare che esca in qualche altro paese. Potrebbe essere una cosa lunga. In ogni caso, esistono in rete dei sottotitoli in inglese creati da un fan (tra l’altro, un ottimo lavoro). Insomma, fate voi.

Complici del silenzio, Stefano Incerti 2009

Complici del silenzio
di Stefano Incerti, 2009

Che qualcosa sta per andare per il verso sbagliato nel sesto film di Stefano Incerti lo si capisce dalle primissime battute, quando i due personaggi sono in volo sopra l’Argentina. Ma non riguarda ciò che accadrà ai due una volta atterrati, bensì quello che accadrà al film da lì in avanti. I primi minuti sono infatti un esempio quasi manualistico di come non si dovrebbe aprire una sceneggiatura, di qualunque film, un modo che invece è utilizzato da molto cinema italiano (e non solo) proprio, appunto, come se fosse un manuale.

Per spiegarci con l’esempio pratico, c’è davvero bisogno che i due personaggi si dicano nel giro di pochi secondi "ciao siamo due giornalisti sportivi, è il 1978, e quindi ci sono i Mondiali in Argentina, e noi stiamo andando in Argentina, io sono quello bello e tu sei quello simpatico, che bello andiamo in Argentina, non ti preoccupare perché adesso andiamo da questi parenti e te lo spiego proprio adesso che stiamo per atterrare così che tu mi chiedi anche se tra i miei parenti c’è da trombare, che sei pur sempre Battiston, tanto tranquillo che alla fine trombo io"? Non è che io pretenda per forza un approccio realista ai dialoghi: ma mettiamo in campo almeno un livello minimo di credibilità che permetta almeno al pubblico di non pensare ai prati fioriti finché qualcuno sullo schermo non viene massacrato di botte? L’alternativa era la voce fuori campo, probabilmente: faceva paura? Capisco, ma questa soluzione fa ancora più paura. E un film dovrebbe saper essere in grado di piegare al suo volere una sceneggiatura, soprattutto se debole, e non interpretarla letteralmente.

Per adesso ho parlato soltanto dei primi 3 minuti del film, ma soltanto perché mi sembra tocchino un tasto molto dolente del nostro cinema – e perché comunque nei successivi 97 il problema dell’eccesso di sceneggiatura si ripropone. Soprattutto nella forma del personaggio di Florencia Raggi, tutta sguardi intensi e misteriosi, e in quello di Alessio Boni, che è fondamentalmente uno che non fa niente e non sa fare niente, e subisce la Storia che avviene intorno a sé trascinato, diciamolo pure, più dall’ormone e dal capezzolo turgido della Raggi che dal senso civile che a un certo punto lo script cerca di appioppagli con la frase – istantaneamente cult – "l’unico servizio che voglio fare è su queste persone che scompaiono".

Dopo tutto questo cianciare, messo lì un po’ per sfogo di fronte alle potenzialità sprecate di una buona metà, ammettiamo anche però che il film sfoggia una seconda metà di tutto rispetto. Motivi? Primo, Alessio Boni si leva dalle palle per un po’, lasciando il campo libero a Jorge Marrale. Secondo, perché si affronta il contesto storico con un piglio finalmente forte e deciso, violento e inquietante, cupo e angosciante, come è giusto che sia secondo i dettami – rispettati alla lettera – di predecessori come Garage Olimpo. Non basta per farsi perdonare una prima metà imbarazzante, né Alessio Boni che in cella ha i flashback del super-capezzolo, né il finale un po’ piagnone (comprensibile e corretto, ma ancora da manuale) ma qualcosa di buono c’è, a cercarlo.

Jar city (Mýrin), Baltasar Kormákur 2006

Jar city (Mýrin)
di Baltasar Kormákur, 2006

Il quarto film dell’islandese Baltasar Kormákur, che esordì qualche anno fa e ottenne anche una buona visibilità con il suo 101 Reykjavík, è una detective story. Un giallo, se vogliamo. Ne ha tutte le caratteristiche: c’è un delitto, c’è un detective, c’è un colpevole, c’è un mistero che si apre su qualcosa più grande di lui. Ma il merito di Jar city è di riuscire ad andare oltre la capacità di raccontare la sua storia, la sua indagine e il suo mistero.

Oltre all’idea perfetta (non so se venga dal libro di Arnaldur Indriðason) di raccontare la vicenda attraverso due linee cronologiche distinte – mettendo in secondo piano la ricerca del colpevole in sé rispetto al contesto narrativo, con un uso intelligente delle marche temporali (come il vetro rotto sporco di sangue) – il merito è di aver costruito con Erlendur (Ingvar Eggert Sigurðsson) un personaggio assolutamente formidabile per come riesce a interpretare la decadenza e la disillusione di un’intera generazione, e per come il suo carattere dialoga con la desolazione dell’ambiente esterno. Un’Islanda che è la città di Reykjavík ma anche e soprattutto quella, più piccola, di Keflavík, e dei paesini limitrofi nella zona vulcanica di Reykjanes, regni di vento e di "palude" (la "mýrin" del titolo), di grigio e di buio, di nuvole e di solitudine.

Ma entrambi i luoghi custodiscono i loro segreti, quali in un ventre di terra o in una cloaca nascosta dalle travi, quali tra i corridoi immacolati di un grande palazzo, nascosti dentro barattoli – una incomprensibile "città di barattoli" sterili. Per Erlendur ormai è troppo tardi per rivelare questi segreti, per riunire il barattolo con il legno della cassa, né tantomeno è più tempo per la leggerezza del suo collega: la sua è quasi un’inerzia a indagare, sollevato magari dalla sensazione di una vicinanza con il caso e con la paura di perdere per sempre una figlia difficile, ma schiacciato dalla certezza che ormai sia un po’ tardi per tutti – e che della natura umana ci sono giusto i cocci, da raccogliere.

Jar city è poi un film girato e fotografato in modo sensazionale, tutto impietosi campi lunghi e implacabili riprese aeree, più un incipit che mette i brividi e un crescendo disperato che non può non lasciare traccia. Davvero molto bello.

Dopo l’uscita in patria nell’autunno 2006, Jar city ha fatto il giro lungo nei festival per poi uscire nel 2008 in alcuni paesi tra cui Danimarca, Francia, Regno Unito, Olanda e Grecia. Da noi, ancora nessuna traccia.

Il DVD inglese non si trova dappertutto, ma si può acquistare a pochi euro sul sito della HMV.

In ogni caso, sorpresa delle sorprese, i tre film precedenti di Baltasar Kormákur sono tutti usciti in DVD italiano, e li potete trovare su IBS o su BOL. Magari è un buon segno. Se preferite le edizioni britanniche, ci sono anche su Play.com.

Red cliff 2, John Woo 2009

Red cliff 2
di John Woo, 2009

Da queste parti qualche mese fa si è già parlato di Red cliff, prima parte della saga che questo film conclude, e che arriverà probabilmente dalle nostre parti riassunta in un singolo film di due ore e mezza – nella speranza che almeno l’edizione DVD faccia fede alla versione integrale.

E potremmo questo post come un’appendice che conferma in tutto e per tutto l’impressione avuta dalla prima parte: ovvero, quella di un gran bel film epico, sorretto da una regia robustissima ma ricca di tocchi personali, e da un cast spaventoso in cui, come sempre, spicca l’interpretazione di Tony Leung. E anche l’idea alla base è la stessa: anche Red cliff 2 è un film di guerra in cui le battaglie occupano un ruolo del tutto marginale, almeno da un punto di vista temporale. Ancora di più in questa seconda parte, in cui l’attesa ed esplosiva "resa dei conti", anticipata con un "cliffhanger" dal finale della prima, arriva invece dopo due ore di tattiche belliche (particolarmente esaltante quella delle navi-spaventapasseri), attese e inganni, e tra l’altro in cui le arti marziali scompaiono quasi del tutto.

Dico di più, la seconda parte è forse migliore della prima: avendo avuto già la possibilità di studiare ampiamente i moltissimi personaggi, e ancora di più quest’ultimi quella di studiarsi tra di loro, Woo e i suoi co-sceneggiatori hanno qui una maggiore libertà, che porta al desiderio di aprire stupende parentesi come quella della storia "d’amore" tra Zhao Wei e Dong Dawei, di dedicarsi più spiccatamente alle motivazioni di Cao Cao (interpretato magnificamente da Zhang Fengyi), e di aumentare l’ironia e le divagazioni (soprattutto nella prima ora), ma senza rinunciare al gusto dell’epos puro.

E infine, all’apologia dello stoicismo vendicativo e sanguinario dei vecchi tempi si sostituisce una visione molto più malinconica, saggia anche se forse meno affascinante, per cui nella guerra "non c’è nessun vincitore". Se non, forse, il paesaggio della scena finale. La Terra che il fuoco ha risparmiato, e la cui erba verde, luminosa e patinata, non cresce che con l’umore dei cadaveri sotterrati nel suo ventre. Qualcosa del genere

Friday Prejudice #166

["godano" non è un congiuntivo]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice, sì, ora c’è. Scusate il ritardo.

Astrópía, Gunnar B. Gudmundsson 2007

Astrópía
di Gunnar B. Gudmundsson, 2007

L’idea di affrontare Astrópía nasce sia dalla curiosità verso una cinematografia a me del tutto sconosciuta come quella islandese – e quindi per il gusto della scoperta fine a se stessa, cosa sempre gradita da queste parti – ma anche per la curiosità che un soggetto simile non può che suscitare.

La protagonista di Astrópía si chiama infatti Hildur (sic), ed è una ragazza bellissima, vacua e modaiola, una cosiddetta "socialite" (con tanto di copertine sulle riviste) che, dopo l’arresto dell’orrendo e corrottissimo fidanzato Jolli che la manteneva, rimane in mezzo a una strada senza più un soldo. Finita per caso insieme al nipote nella tipica "fumetteria" (il termine è riduttivo, ma per capirci), popolata di nerd di ogni tipo ognuno con le sue ossessioni, viene assunta immediatamente come commessa per occuparsi dei RPG.

Questo è solo l’inizio: la vera svolta del film avviene, tutto d’un tratto, dopo quasi 50 minuti di commedia dai ritmi pigri ma spassosissimi, magari caratterizzata da uno straniante gusto dell’assurdo ma fino a quel punto sommariamente "realistica": i colleghi di Hildur, tra cui un ragazzo timidissimo e infatuato di lei che per lavoro traduce in islandese romanzi rosa, la invitano a provare un gioco di ruolo per farle capire almeno di cosa diavolo si tratta. Ma il gioco prende immediatamente vita sotto i nostri occhi di spettatori: da lì in poi il film è un gustoso alternarsi di scene ambientate nelle vie di Hafnarfjörður e di combattimenti nella foresta tra i protagonisti conciati come personaggi di Tolkien, fino all’irresistibile calderone del crescendo finale. In cui, lo si può facilmente prevedere, l’immaginazione dà una sonora batosta al Mondo Vero.

Astrópía è un film che ha saputo sfruttare a pieno regime (anche monetizzando: in patria è stato un grande successo di cassetta) la rivincita globale dell’immaginario geek con astuzia e spudoratezza, ma anche con grande perspicacia, senso del tempo, e con una sceneggiatura intelligente, divertente, ricchissima e consapevole – diventando il genere di film che potresti vedere anche due o tre volte nel giro di poco tempo, quel genere di film che hai voglia di consigliare immediatamente ai tuoi amici.

Esattamente quello che sto facendo ora.

Il film è uscito in Islanda nell’estate del 2007: non dovrebbe essere difficile procurarsi il DVD islandese, per esempio qui, ma purtroppo non conosco molto bene i siti di e-shopping del Nord Europa. Se conoscete una fonte dove potersi procurare un’edizione DVD del film sottotitolata in inglese, segnalatela pure nei commenti.

Ah, tanto per ribadire un’ovvietà: assolutamente impossibile che un film del genere arrivi in Italia. E non solo perché è islandese, che già basterebbe. Per esserne sicuri, basta dare un’occhiata a cosa ne è stato di The big bang theory dalle nostre parti.

L’orrido titolo internazionale del film è Dorks & Damsels.

Peur(s) du noir, 2007

Peur(s) du noir
di registi vari, 2007

A fare di Peur(s) du noir più un film collettivo che un film a episodi è soprattutto la sua struttura, irregolare e sconnessa e non casualmente giustapposta – all’interno della quale sei nomi del fumetto d’autore raccontano la loro versione della Paura Del Buio, e in cui lo sguardo personale delle singole firme lascia comunque la sensazione di un’opera compatta, e che restituisce un senso d’angoscia atavico e, fatte le dovute differenze, quasi palpabile.

Ognuno infatti sceglie la sua strada, chi tirando in ballo metamorfosi kafkiane (Charles Burns, tra le maggiori sorprese del film), chi rimandi nipponici (Marie Caillou, la parte più esteticamente devastante – in senso buono), chi elementi simbolici ricorrenti (l’inquietante Blutch) chi suggestioni surrealiste (l’italiano – e un po’ deludente – Mattotti). Fino all’exploit finale di Richard McGuire, che con il suo segmento costruisce una vera apoteosi di tutto ciò che i colleghi avevano portato fino a un certo punto: il suo è invece un corto-capolavoro che ribalta le convenzioni e le prospettive del genere, e che fa un uso davvero rivoluzionario del nero - vero trait d’union dell’intero film.

Il film, proiettato in Italia tra gli altri alla Festa di Roma e al BilBolBul di Bologna, è uscito anche da noi in DVD, allegato alla rivista Internazionale, ma al momento mi riesce impossibile trovare un link dove poterlo acquistare online come arretrato, nonostante una volta fosse possibile farlo con tutti i loro titoli. E questo è male. Peccato, perché vale davvero la pena: se qualcuno sa, parli. Nel frattempo, potete sfogarvi con l’edizione francese.

Grazie al provvido intervento di un lettore anonimo, ecco il link per acquistare il film sul sito di Internazionale.

Friday Prejudice #165

[ballare per un pugno di cazzate]

C’est le nouveau episodio di Friday Prejudice.