[bràuning]
Tah-dah, è già online il nuovo episodio di Friday Prejudice.
Perché il giovedì è un concetto assoluto.
[bràuning]
Tah-dah, è già online il nuovo episodio di Friday Prejudice.
Perché il giovedì è un concetto assoluto.
Terminator Salvation
di McG, 2009
Da un po’ di tempo ho l’impressione che, quando ci si trova di fronte a un action statunitense poco riuscito, non sia tanto per la tenuta delle scene d’azione, ma più spesso per tutta quella serie di manfrine che ne costruiscono il corollario, i comedic relief, le buffonerie, le frasette ironiche post-bruckheimeriane, e tutta quella roba di contorno di cui persino la parodia è divenuta istituzionale. Poniamola così: è un problema di onestà.
Dunque – posto che in questo film ciò che Cameron aveva messo sul piatto riguardo all’identità e sul destino dell’umanità nei primi due "episodi" della "saga" qui ve lo potete bellamente scordare e quindi vi consiglio di entrare in sala a cuor leggero e senza fare tanto i precisini né tantomeno i passatisti – dunque, dicevo, Terminator Salvation è un film sommariamente onesto. Meno ambizioso del terzo capitolo diretto da Jonathan Mostow, ma decisamente più riuscito. E’ un film WYSIWYG: What You See Is What You Get.
Ovvero, due ore abbondanti di clang clang clang: cosa volevate di più? In ogni caso, non sto riducendone i meriti: se la seconda ora è un po’ più ripetitiva della prima e nonostante l’allegra comparsa di una-certa-personcina-digitale (un momento che riesce a essere allo stesso tempo inquietante, ridicolo e irresistibile) svacca un pochetto, soprattutto quando si tratta di far funzionare i due risicatissimi personaggi femminili (questo è un film fallocentrico, fatevene una ragione), la prima ora è davvero formidabile – almeno sotto il profilo tecnico-tecnologico. E sotto il profilo del fottuto divertimento fine a se stesso.
McG è un cane, e lo si vede appena smette di fare clang clang ma grazie al cielo ci risparmia questo pensiero ricominciando a fare clang clang dopo una ventina di secondi. In quello, il suo mestiere lo fa con i controcazzi. E proprio nella prima ora ci sono almeno due sequenze da hip–hip-hurrà: una è quella iniziale, costruita su uno storyboard completamente malato – e se il film fosse stato tutto così sarei già a rivederlo – l’altraha come protagonista un enorme robottone con due motorette che gli schizzano fuori dalle ginocchia (e vi assicuro che tale descrizione non gli rende giustizia).
Insomma, la prima ora sembra Transformers senza i colori pastello, o meglio, sembra Transformers senza la rottura di cazzo.
Coco avant Chanel – L’amore prima del mito (Coco avant Chanel)
di Anne Fontaine, 2009
Non per fare il bastian contrario, ma davvero, cosa me ne faccio di un biopic senza un vero conflitto? In cui tutto è giustificato dall’incipit, in cui la piccola Gabrielle aspetta inutilmente il padre all’ingresso dell’orfanotrofio – perché dopo sarà tutto un "quella donna ha troppe piume, aspetta che gliele mozzo"? In ogni caso, il fatto che la vera Coco Chanel fosse notoriamente una grande dispensatrice di aforismi non autorizza la Fontaine a mettere in bocca alla Taotou una serie interminabile di panzane spacciate per massime di profonda saggezza.
Ma il problema di Coco avant Chanel – se togliamo il fatto che sembra un film del pomeriggio di Canale 5, e che è inverosimilmente piatto, e che è costruito, soprattutto nella prima metà, su una quantità persino irritante di cliché: ma fin qui nulla di inatteso – è che dei suoi tre personaggi non ci può interessare di meno. Perché? Coco è fondamentalmente una piattola, ma è tanto adorabile e indipendente. Balsan è un uomo retrogrado e maschilista, ma è tanto adorabile e simpatico. "Boy" (ovvero Alessandro Nivola, anche se è conciato come un giovane Massimo Lopez, gayness included) è un furbacchione che riesce a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma è tanto adorabile e affascinante. Tutto così.
Però che vestiti, eh. Che emozione, i vestiti. Che palle.
Oppure forse il tutto si riduce al fatto che secondo me Audrey Tautou dovrebbe semplicemente finirla. Di fare cinema.
Star System – Se non ci sei non esisti (How to lose friends & alienate people)
di Robert B. Weide, 2008
Quando sbagli un film sulla base di premesse traballanti, va bene, hai sbagliato, ma ti capisco. Ma come si fa a sbagliare un film con protagonista Simon Pegg? Come si fa a sbagliare, e a farlo con un tonfo rumorosissimo, un film in cui Megan Fox interpreta il ruolo di un’attrice che a sua volta interpreta il ruolo di una giovane e sensuale Madre Teresa?
Evidentemente si può.
Non servirebbe nemmeno il titolo italiano orripilante per far fuggire la gente dalla sala: HTLFAAP è semplicemente una commedia che non fa ridere. Alla fine del film hai il torcicollo, per tutte le volte che hai fatto "no" con la testa di fronte all’ennesima gag scombinata, all’ennesima imbarazzante citazione de La dolce vita. Come si può pretendere di fare un film su questi argomenti senza un briciolo di cattiveria, senza fare un graffietto, non dico con la punta della chiave, ma con le unghiettine, santo dio?
E basta, tutto qui.
La parmigiana
di Antonio Pietrangeli, 1963
Il primo dei due film con cui Pietrangeli affina definitivamente il suo stile e completa l’ossessione per i complessi e amari racconti al femminile, in preparazione al suo ultimo capolavoro, colpisce immediatamente per due ragioni. La prima è una straordinaria struttura a montaggio parallelo che permette un’empatia totale nei confronti di Dora e insieme un’analisi secca e serrata del mondo maschile che le gira intorno. La seconda è la bellezza dell’allora diciottenne Catherine Spaak: fotogenia pura. La firma di Pietrangeli si vede proprio soprattutto nel modo in cui guarda al corpo e al volto di Dora, nel modo in cui si perde a osservarne le luci e le ombre, su un letto rimasto vuoto o di fronte al riflesso di una vetrina – e in molti sensi Dora è già una Adriana in nuce, in quel modo che ha di trattenere per sé le proprie lacrime, e di donare al mondo un sorriso che il mondo stesso, probabilmente, non merita. Anche se in Dora è instillata una forza di volontà inusuale: quasi fosse una rabbia sensuale, in cui, come già la Francesca di Nata di Marzo, l’indipendenza si esprime con lo scherno – uno scherno che non sempre ripaga, che è macchiato di inevitabile malinconia e solitudine, ma che è un’altra forma, forse l’unica forma possibile, di libertà. Davvero splendido.
Il film non è ancora disponibile in DVD e non è attualmente in programmazione sulle reti nazionali. Bisognerà pazientare un po’.
La visita
di Antonio Pietrangeli, 1963
Con questo film, ambientato nella bassa mantovana e con protagonista la Sandra Milo che lui stesso aveva scoperto e lanciato nel 1955 in Lo scapolo, Pietrangeli raggiunge quella che è senza dubbio una delle più alte vette della sua carriera. Prima di tutto dal punto di vista della messa in scena: inframmezzato dai suoi flashback improvvisi e precisi, La visita è soprattutto un film di impressionante rigore registico, tenuto conto della semplicità dell’ambientazione e della riduzione dei conflitti, in cui ogni singolo movimento di macchina è studiato nel dettaglio – e proprio grazie a questa precisione si crea una tensione tra i due protagonisti che non ha davvero pari. E La visita è, appunto, soprattutto l’incontro tra Pina e Adolfo: da una parte la perfezione di un personaggio che è insieme tra i più dolci e tra i più malinconici del cinema italiano di quegli anni, dall’altra l’impietoso ritratto che François Périer regala del gretto e meschino libraio romano. Lo scontro psicologico, inserito in un contesto che fa luce su una provincia molle e abbandonata così come sui contrasti regionali, dà il vita a uno dei duetti più amari e inquietanti mai prodotti nel contesto allargato della cosiddetta "commedia all’italiana", in cui la presenza di Mario Adorf e Gastone Moschin non fa che arricchire questo piccolo capolavoro del nostro cinema.
Il film è stato pubblicato in una bella edizione DVD all’interno della notevole collana Minerva Classic. Va da sé, è assolutamente imperdibile.
Riunione di famiglia (En mand kommer hjem)
di Thomas Vinterberg, 2007
Le vie della relatività del tempo, in una sala cinematografica, sono infinite. E se la regola generale recita che l’impressione che un film sia stato molto più breve della sua durata effettiva dovrebbe essere un’impressione positiva, esistono altresì sonore eccezioni. Come quella di En mand kommer hjem, che segna il ritorno di Vinterberg al cinema in lingua danese a quasi 10 anni da Festen, il film che aprì le danze del Dogma.
L’ora e mezza abbondante della durata scorre via infatti quasi senza accorgersene: ma arrivati alla fine la sensazione non è quella di una sana leggerezza, bensì perlopiù di un’insistita inconsistenza. Non tanto l’incapacità di giungere al dunque, quanto la capacità di rendere tale dunque del tutto irrilevante. E questa sensazione è aggravata dal fatto che del film non rimane quasi niente, a poche ore dalla visione, se non il talento innato di Vinterberg di sfruttare al meglio la splendida fotografia di Anthony Dod Mantle (l’operatore di Von Trier e di Danny Boyle).
E la stessa funzione sembra avere un cast dal fascino immediato – soprattutto i due protagonisti, dotati di impressionante sensualità fotogenica: l’esordiente Oliver Møller-Knauer e la ventenne Ronja Mannov Olesen – che è davvero un piacere guardare, a patto di non badare a quello che dicono o combinano. Per il resto, tra conflitti edipici risolti e comedic relief (nelle cucine) privi di troppa verve, il film è in definitiva leggero e gradevole almeno quanto è esile e fiacco.
[nu-do-nu-do]
Ecco ecco ecco il nuovo episodio di Friday Prejudice.
Star Trek
di J.J.Abrams, 2009
Non sapevo bene come affrontare il post su Star Trek: quasi quasi mi sentivo di limitarmi a dire che sì, è un film maledettamente divertente, andate a vederlo, eccetera: perché questo è davvero un film per cui vale la pena di alzare il culo ed entrare in una sala anche soltanto per meravigliarsene. Probabilmente è il film più divertente ed entusiamante degli ultimi mesi, e credo che vi basti sapere questo: se l’avete già visto, lo sapete già. Se non l’avete visto, è uno stimolo sufficiente.
Ma non ho voglia né di limitarmi a un post fatto di urletti di gaudio, né d’altra parte di mettermi a fare un’analisi filmica attenta, matura e noiosissima del cinema (e della tv) di J.J.Abrams. Quindi ne approfitto per sperimentare, e lo faccio in questo modo: adesso sono circa le 12, non ho nient’altro da dire, e ho pure altro da fare. Se mi viene in mente qualcosa – e non è detto che succeda – lo aggiungerò man mano qui sotto.
Siete autorizzati a contribuire. E invitati a tornare più tardi.
***
Probabilmente è tutta colpa, o merito, del viaggio nel tempo*. Senza contare che quella di Abrams per il tempo è un’ossessione autoriale bella e buona, e non c’è bisogno che ve lo dica io. In questo caso il viaggio nel tempo permette però di Abrams di fare quello per cui, in qualunque altro modo, sarebbe stato linciato vivo da molti: ovvero, fottersene del canone e della continuity, e fare un po’ quel cavolo che gli pare.
*non è uno spoiler se a qualche minuto dall’inizio c’è un personaggio che dice "in che data astrale siamo?"
Mi è piaciuta poi, nel ribaltamento-reboot che Abrams fa della saga, questa concezione animista in cui lo spirito è attibuibile più ai rapporti interpersonali che al singolo individuo. Questo è un Kirk molto diverso, per le ragioni rese note dalla trama – eppure ciò che è inevitabile, ciò che è "scritto", è il suo rapporto con Spock più che la sua stessa personalità. E il film è, scontatamente, una storia d’amore tra i due – in cui un pianeta che muore viene quasi in secondo piano rispetto a due destini che rischiano di non incrociarsi. Lo stesso dicasi per la crew dell’Enterprise e il loro riunirsi sotto circostanze mutate – anche se lì entra in gioco un atteggiamento più ludico che religioso.
La verità è che la natura di "cinema d’intrattenimento" che Star Trek mostra con tale orgoglio non deve distrarre dal fatto che si tratta di un film innegabilmente brillante – che piaccia o meno il suo misto di scaltrezza (nel giocare di continuo con le aspettative del pubblico, tra citazioni, autocitazioni e "easter eggs") e di ineccepibile onestà nel suo prendersi raramente sul serio, in un recupero del postmoderno naif e autocompiaciuto, che forse ci mancava un po’. Come a dire: è lo spettacolo, la cosa seria.
La gag con le manone giganti sembra uscita da un film di Stephen Chow.
Non che il postmoderno naif e autocompiaciuto sia mancato del tutto, negli ultimi anni, si intenda. Ma senza esagerare con i complimenti – perché si tratta di un cinema che a mio parere può al massimo raggiungere un certo livello, e nel caso specifico lo raggiunge eccome – ho l’impressione che in pochi casi si sia verificato che un film con un tale appeal immediato e verso un pubblico così diversificato (non solo i fan: e questo è un invito a non-fan, come il sottoscritto) sia stato allo stesso tempo produttivamente così ricco di stimoli, e così – come posso dire – fresco. Star Trek è roba di 45 anni fa, e il cuore è immutato, eppure è il film più fresco di quest’anno. Come la mettiamo? E non dite che è roba da poco. Per dire, nella sequenza dei paracaduti e del combattimento sulla sonda, con John Cho che volteggia, io mi sono tenuto alla poltrona come ai tempi di – guarda te che caso – Cloverfield. E in sala c’era pure un audio da schifo. Un esempio a caso della ricchezza produttiva è l’impressionante cura visiva e scenografica di tutto l’armamentario spaziale. Per dire, l’astronave Romuliana: io me ne sono innnamorato alla follia, sembra una candela lasciata accesa per settimane e trasformata in un enorme mostro di ferro, una creatura inorganica spaventosa e affascinante.
La cosa delle "lens flares" che tutti stanno prevedibilmente prendendo in giro in questo periodo (Abrams stesso compreso) non l’ho trovata nemmeno così stucchevole. Cioè, un pochetto – il giusto. Davvero roba su cui spendere al massimo queste tre righe.
Dead snow (Død snø)
di Tommy Wirkola, 2009
Del norvegese Tommy Wirkola da queste parti si è parlato (in un post a cui voglio molto bene) circa un anno e mezzo fa: l’occasione era il suo esordio Kill Buljo. Ma se quella era una parodia demenziale (inutile dire di cosa) con il suo secondo film, forse anche grazie all’interesse suscitato sulla rete in tutto il mondo fin dall’annuncio – beh, come era possibile non alzare le orecchie di fronte all’arrivo di uno zombie-flick in cui i morti viventi sono pure uno squadrone di nazisti rimasti seppelliti nelle nevi norvegesi dalla secondaguerra? – Wirkola decide di alzare un po’ il tiro.
Confezionando così non più una parodia scema ma una vera horcom – ovvero un film che tende ad autosostentarsi sia come commedia che come horror – in cui in realtà la parte horror prende decisamente sopravvento. E la parte comedy, per così dire, rientra facendo il giro largo. Mi spiego: tutta la prima parte del film, una buona metà, è una roba tremendamente convenzionale, forse un po’ più autoriflessiva che al solito (i personaggi sono cinefili, citano titoli di film horror, conoscono bene l’immaginario degli zombi e alcuni si comportano di conseguenza), ma che fa leva su forme risapute, sia dell’horror occidentale che (soprattutto) dei compatrioti di Fritt vilt. Insomma: un horror. Niente di grave comunque, ma si sprecano gli sbadigli.
Ci si comincia a divertire, come al solito, quando Wirkola decide che ha toccato tutti gli usi e costumi dello slasher e comincia a giocare sporco, esagerando ed esagitandosi senza più preoccuparsi di mantenere un decoro e una serietà. Non vorrei spoilerare, ma in un film simile non è una grande rivelazione che muoiano come mosche, giusto? Bene, quando ne rimangono in piedi solo due o tre, allora sì che comincia una parte finale assolutamente scatenata: la sequenza dell’automutilazione è da vedere e rivedere, per non parlare di budella incastrate in rami d’albero, scherzi beffardi del fato, la carica dei morti viventi sulle note di un allegrissimo "halleluja" – e poi, questi spettacolosi zombi nazisti che mostrano saperne molto più di quanto i poveri malcapitati sperassero. Loro, e le loro seghe elettriche.
Alla fine il film si tira talmente su nelle sue battute conclusive che fa perdonare anche le cose più becere e prevedibili della prima parte. E poi, bon, ci si diverte. Però: qualcuno che conosce bene la Norvegia mi spiega quest’ossessione di Wirkola con il Twister?
A cinque anni esatti dalla mia scoperta (pressoché casuale) del cinema di Antonio Pietrangeli, sto cercando finalmente in questo periodo, poco per volta, di recuperare tutta la restante filmografia del regista romano, uno degli Autori più interessanti – e spesso più tralasciati – del nostro cinema, scomparso quasi 41 anni fa alla malaugurata e imperdonabile età di 49 anni.
Il sole negli occhi
di Antonio Pietrangeli, 1953
La cosa più straordinaria del primo film di Pietrangeli è il modo in cui si relaziona, a posteriori, al suo ultimo Io la conoscevo bene, uscito 12 anni più tardi – che sembrano 120 – di cui questa opera prima sembra quasi un apripista, un primo accenno. E nemmeno poi così timido: la struttura paratattica delle vicende di una giovane ragazza di provincia finita a Roma a far la serva per sopravvivere porta infatti anch’essa, implacabilmente, verso la tragedia – annunciata da principio e ribadita con continui segnali e presagi. E se i tempi forse non sono ancora maturi per la rivoluzione linguistica e la franchezza spietata del film del 1965, Il sole negli occhi è davvero un ritratto di ragazza che ha pochi pari nel cinema dell’epoca, originalissimo e caratterizzato da un gusto tagliente per la satira sociale, Oltre che da molte scene e sequenze immediatamente indimenticabili – come quella ambientata a Ladispoli. Davvero bellissimo.
Il film è stato trasmesso il 10 aprile 2009 nella programmazione notturna di Rai3 in un’edizione meravigliosamente restaurata. Immagino che prima o poi spunterà fuori anche un DVD.
Nata di marzo
di Antonio Pietrangeli, 1957
Da Roma ci si sposta a Milano, per un altro ritratto al femminile. Questa volta però la protagonista è la diciassettenne Francesca, "marzolina" e volubile, tanto moderna quanto infantile, che si innamora e si sposa con un architetto vent’anni più vecchio di lei. I motivi della loro separazione, due anni dopo, vengono raccontati nei tre lunghi flashback che compongono il film. Quello di Francesca è un personaggio equilibratissimo tra insopportabilità e tenerezza, che lotta con le sue armi – compresa quella del capriccio – la sua battaglia laica contro una società in cui anche le famiglie più progressiste sono legate a una concezione fallocratica in cui la "parità", per le donne, è ancora un sogno lontano. Il tutto, però, raccontato in forma di commedia – peraltro divertentissima, soprattutto per i dialoghi: dopotutto, la sceneggiatura è di Age, Scapelli e Ettore Scola. Gli ultimi due consolatori minuti, appiccicati dalla produzione e palesemente posticci, non sminuiscono la gradevolezza e la modernità del film. Una cosa buffa: Jacqueline Sassard (che è ancora viva, da qualche parte) è veramente nata all’inizio di marzo del 1940.
Il film non è reperibile in DVD, ed è andato in onda l’ultima volta in tv nel settembre 2006. Mi sa che dovete, er, ingegnarvi.
Baghead
di Jay e Mark Duplass, 2008
Torniamo a parlare di mumblecore*. Cosa curiosa, il genere, se così vogliamo chiamarlo, esiste da pochissimi anni eppure già affronta l’autoriflessività. Con questo film: dopo aver assistito proprio alla proiezione + dibattito di un ridicolo film mumblecore intitolato We are naked in un festival, i due protagonisti decidono di essere in grado anche loro di fare una roba simile, e si ritirano insieme a due ragazze in un cottage fuori Los Angeles per scriverlo e "sfondare". Decidono che il film sarà un horror con dei tizi con sacchetti di carta sulla testa, ma si distraggono subito: A ama B, ma B ama C, e anche D ama C. Nessuno ama A. Finché Baghead non diventa, appunto, un horror con dei tizi con sacchetti di carta sulla testa.
Forse era un po’ presto per lanciarsi in una cosetta così autoreferenziale, ma chi se ne frega: i fratelli Duplass (già registi dell’antesignano The puffy chair, 2005) hanno talento da vendere, e con quattro soldi e le solite quattro facce confezionano un filmetto delizioso, perché funziona in modo eccellente su tutti i livelli. Come commedia sentimentale (e buddy movie) sui generis, come horror – al di là di ogni rosea aspettativa – e pure come trattatello autoironico che mette in guardia sia il "movimento" sia gli spettatori. Una cosa tipo: non prendeteci troppo sul serio, ma nemmeno cercate di imitarci. Perché, cosa vi credete, siamo più bravi di voi. Ed è vero.
L’onnipresente Greta Gerwig, al minuto 12 rutta, al minuto 22 vomita, al minuto 32 fa vedere le tette. Se non è amore, questo.
*post precedenti: Quiet City, Hannah takes the stairs, In search for a midnight kiss.
Fanboys
di Kyle Newman, 2008
Vorrei per pigrizia dare per scontate le vicende che hanno accompagnato la produzione di Fanboys, visto che se ne è parlato molto sui siti di cinema di tutto il mondo – ma sono troppo curiose per non fare un ripassino veloce. E poi, scoprirete in seguito, sono molto più divertenti gli aneddoti che non il film stesso.
Dunque: il film racconta di un gruppo di ragazzi appassionati di Star Wars che nel 1998 fa un lungo viaggio il cui obiettivo è entrare nello Skywalker Ranch di George Lucas e fottersi una copia della Minaccia Fantasma. Uno di loro è malato di cancro, e questo è il loro addio. George Lucas approva. Kevin Smith dice "figata, posso fare un cameo"? Fin qui tutto bene. Il film deve uscire nell’agosto 2007, ma viene spostato al 2008: mancano delle scene, e non si possono girare fino a settembre. Le scene vengono girate, ma da un certo Steven Brill. Mettetelo lì. Inizio 2008, un blogger rivela che la trama del cancro è sparita: adesso i protagonisti lo fanno solo così, perché non c’hanno un cazzo da fare. E questa versione potrebbe uscire ad aprile 2008. Paura, eh? I fan di Star wars si ribellano, e cominciano una flame war di quelle toste. Steven Brill a questo punto interviene, e dà loro dei perdenti, li minaccia fisicamente. Newman intanto parteggia con i fanboys. A luglio il film non è ancora uscito, ma Newman conferma che la cosa del cancro c’è. Pericolo sventato: Newman ha avuto circa 36 ore (!) per far tornare il film quello che era, e a fine mese il film viene proiettato al Comic-con. L’uscita viene annunciata per settembre, ma niente. Viene annunciata per novembre, ma niente. Alla fine il film esce a febbraio 2009.
Di fronte a una tale cagnara, e a una delle vicende più incasinate e sfortunate del decennio, è facile che uno si crei delle aspettative. Non tanto che il film sia stupendo – ma almeno che sia una robetta da culto, un film reso assolutamente squilibrato dalle traversie produttive. Invece Fanboys è una commedia pressoché innocua, un romanzo di formazione geek costruito peraltro su due meri e palesi pretesti. Primo, di mettere più citazioni possibili della saga di Star Wars all’interno di un film di un’ora e mezza: e il film è tutto lì. Secondo, eventualmente, sfruttare l’ambientazione anni ’90 (per esempio, aprire il film sui Chumbawamba e sfoggiare un montage sulle note di "Lump" dei Presidents of the USA).
Tolta l’occasione di ficcare qua e là cameo spudorati come quello di Seth Rogen, che nel film interpreta addirittura due personaggi, purtroppo il film finisce lì, nel suo snocciolare frasi e riferimenti e nel giocare con gli anacronismi nel contesto di un decennio con forse troppa poca personalità. Sotto tutto questo c’è solo una commediola noiosetta, con pochissime idee, molte delle quali abbastanza ritrite, e troppo incondizionatamente innamorata dei suoi sfigatissimi – ma nemmeno poi tanto – protagonisti.
Anche se, lo devo ammettere, il film alla fine fa molta simpatia: è sgraziato e scontatissimo, ma si fa guardare senza troppo fastidio – e se manca la verve, anche linguistica (roba da educande), dei film prodotti da Judd Apatow, si recupera in empatia. Anche perché da queste parti si è sempre tifato per Star Wars, e ignorato bellamente Star Trek. E poi ci sono Kristen Bell e Jay Baruchel, che insomma.
Non è ancora prevista un’uscita italiana, ma il film potrebbe funzionare anche da noi. Tranne la sequenza – tremenda, btw – in cui Ethan Suplee fa un’imitazione da bagaglino di Harry Knowles, il fondatore di Ain’t it cool news. Vorrei proprio vedere come la traducono.
Il nuovo episodio di Friday Prejudice, numero 170. Un pecoraio.
[non la si conosce mai abbastanza]
Già che ci sono, un altro paio di cose. Entrambe riportano all’immagine sotto riportata.
Non è mia abitudine parlare di iniziative editoriali, ma vorrei fare un’eccezione per Bianco e Nero all’Italiana, collana di DVD in uscita ogni mercoledì con il Corriere della Sera, che si possono acquistare anche comodamente online. Intendiamoci, queste edizioni hanno un sacco di difetti: sono fatte di carta. Hanno un libretto striminzito. Le edizioni non sono sempre eccezionali. Contenuti speciali, scordateveli. Costano decisamente troppo (12,90) almeno per chi frequenti abitualmente negozi come FNAC. Ma i pregi superano i difetti, e si sintetizzano così: la selezione dei titoli. Inattesa e spettacolare. Si alternano titoli arcinoti come Roma città aperta e Ladri di biciclette a titoli considerati minori come La signora senza camelie e Il segno di Venere, senza contare cose davvero preziose come Signore e signori di Germi e La donna scimmia di Ferreri.
Erano anni che non seguivo una collana da edicola. Questa, la sto seguendo. E li sto vedendo e/o rivedendo tutti*. Non so, la trovo una buona abitudine, quasi istruttiva. In ogni caso, hanno messo sul mercato un’edizione DVD italiana di Io la conoscevo bene, dopo anni di attesa. Quindi a loro vanno tutto il mio amore e i miei arcobaleni, a prescindere.
La seconda cosa è un tumblr nato da qualche giorno per iniziativa di due amici blogger, al quale, tanto per cambiare, ho deciso di partecipare – anche se a tempo perso. Se leggete Losanghe, lo conoscete già. Ve lo presento? Si chiama Movies in Frames. Ed è bellissimo.
*non scrivo singoli post sui film che sto vedendo e/o rivedendo grazie a questa collana perché mi sono reso conto che scriverei solo sciocchezze. E non ho più l’età.
[pronti?]
Da queste parti si parla di cinema. Ormai con poche eccezioni. Questa è una.
Nei mesi scorsi sarete probabilmente sarete incappati in Pronti al Peggio, in un modo o nell’altro. Se non vi è capitato, è soltanto colpa della vostra distrazione – per dire, su Losanghe io l’ho segnalato più e più volte. Si tratta di un sito originale e innovativo, che ha saputo smarcarsi in modo eccellente dai modelli a cui si rifaceva, grazie al talento dei suoi realizzatori, alla selezione accuratissima e intelligente dei materiali scelti, alla genialità di format come Fossifigo, alla furbizia priva di malizia con cui Andrea e i Ragazzi della Prateria hanno saputo rimescolare le carte, giocare con i confini, e ignorare le barriere.
Al momento, è il miglior progetto musicale sul web in circolazione – non solo per la scena indipendente italiana. E quando mi hanno proposto di ospitare in esclusiva per 24 ore un out-take del loro sito, in qualità di "supporter da tempi non sospetti", non ho potuto (né voluto) dire di no.
Eccolo, dunque: loro sono gli Amari, il pezzo è Suffer with style, e il video è stato girato sul treno delle Nord che parte da Cadorna e arriva a Saronno, insieme ai pendolari. Buon ascolto.
[watch me, faggots]
E’ morto nel sonno a Santa Monica Dom DeLuise. Aveva 75 anni.
Ci mancherà.
[Far East Film Festival 11]
Dunque, sì, sono stato a Udine gli ultimi due giorni e mezzo, ho visto (solo) 10 film dei quali tra l’altro 2 erano re-visioni, ho scritto a riguardo alcuni brevi e raffazzonati commenti su Twitter, e a questo punto, evitando considerazioni generali su un festival che è comunque, dio lo benedica, il migliore a cui partecipare nel nostro paese senza lasciarci lo stipendio di due mesi e/o buona parte del proprio equilibrio psicofisico, è il caso di fare un breve riepilogo sui film visti.
Cina
Probabilmente, la cosa più bella che mi sia capitata in questo FEFF è Cao Baoping. Il suo Trouble makers, la cui proiezione udinese era stata bloccata qualche anno fa, è una commedia incredibilmente feroce sulla corruzione della provincia, che, viste le strettissime maglie, mi stupisce sia riuscita finalmente ad arrivare a noi. Meno male, comunque: nonostante fosse l’ultimo film della rassegna (leggi: stanchezza micidiale) è un film che mi sarebbe dispiaciuto perdere, e che spero che prima o poi, mettiamola così, "si renda recuperabile".
Ma non solo: il nuovo film di Cao si intitola The equation of love and death ed più che un bel film, e molto più che "un film che non sembra cinese": è il segnale di una vitalità e di uno stile originale che in Cina non si vedeva da anni. Un film assolutamente nuovo, teso e coinvolgente eppure semplicissimo, e con una stupenda Xun Zhou.
Invece The story of the closetool di Xu Buming è un film molto più riconoscibile: quello che colpisce è la bizzarria della sua trama (il rapporto quasi ossessivo-amoroso tra una ragazza e il gabinetto che si fa costruire nel cortile) che nasconde una riflessione molto trasparente sul progresso impossibile nella Cina di oggi.
Giappone
L’Audience Award se l’è portato a casa, come da copione, il giapponese Departures. Che però non ho visto. Ho visto invece Love exposure di Sion Sono, che era con tutta probabilità il film migliore del festival: l’unico a cui ho mollato un cinque nel famoso "cartoncino" con cui si vota a Udine, l’unico con cui oserei usare la Parolona Che Inizia Con La Ci. Ovviamente, non è per tutti: stateci voi quasi quattro ore a farvi bersagliare da un film che inizia come un romanzo di formazione di un giovane diviso tra daddy issues e crisi mistiche per poi diventare una commedia demenziale perversa, una love story commovente, un pamphlet satirico surrealista, e un sacco ma un sacco di di altre cose. Io ci sono stato, e ne è valsa la pena: stupendo.
Anche se tutti erano lì per Yatterman di Takashi Miike, che immagino sia l’unico film per cui state leggendo questo post. Volete sapere com’è? Molto dipende da quello che vi aspettate. Più o meno. Volete una versione fedelissima dell’anime originale? Lo è, ripetizioni comprese. Volete un film profondamente miikiano? Lo è, perversioni comprese. A me, non essendo io un grande fan dell’originale, di questo film decisamente squilibrato e non del tutto riuscito, è piaciuto più quest’ultimo aspetto: Miike riesce a tirare fuori il suo stile (avete presente quei momenti in cui tutto ma proprio tutto si ferma e anche le situazioni più triviali e deficienti diventano come per magia profonde e commoventi?) e le sue ossessioni (per esempio una specie di pazzesca versione cartoonesca del finale di Gozu, ma basterebbe il look di Kyôko Fukada, AKA Lady Doronjo) e la sua capacità visionaria (il film è molto molto bello da vedere, per chi se lo chiedesse, quasi di più nelle parti statiche che in quelle d’azione) persino in un film così, che è progettualmente – e irresistibilmente – fatto di plastica.
Il terzo film giapponese visto è stato Climber’s High, da cui però sono fuggito dopo una quarantina di minuti perché mi faceva schifo, e – nonostante qualcuno del FEFF mi abbia sgridato – da più parti mi han detto che non mi son perso niente.
Corea del Sud e Honk Kong
Due i film che sono andato a rivedere nonostante avessi già dato: l’occasione dello schermone del Teatro Nuovo non è una cosa a cui si rinuncia facilmente. Uno è l’hongkonghese Ip Man, incredibile biopic di arti marziali di Wilson Yip – che in sala guadagna persino punti mostrando tutta la sua potenza e il suo fascino – e l’altro è il sudcoreano The good the bad the weird di Kim Ji-woon, che nonostante non abbia spezzato il cuore del pubblico di Udine continuo a trovare un gran bell’esempio di cinema di intrattenimento dalla produzione eccellente (oltre al fatto che, lo ripeto, c’è poca gente che sa girare come Kim) con un occhio ben aperto al mercato. Non è stupido e inconsistente come sembra, e come molti dicono.
Sempre dalla Corea del Sud arrivava la commedia Scandal makers, opera prima di Kang Hyoung-chul che ha fatto un macello al botteghino in patria, e che effettivamente contiene un sacco di cose che piacciono al pubblico coreano: bimbi che fanno le facce buffe, adulti che fanno le facce buffe, storie che starebbero benissimo in un qualunque film con Hugh Grant senza dover cambiare una virgola. Il film ha fatto impazzire anche il pubblico del FEFF, arrivando secondo. Tutto ciò la dice lunga sullo stato in cui versa la commedia sudcoreana, ma devo ammettere che il film fa molto ridere – e a un certo punto, diventa un po’ l’unica cosa di cui ci interessa. Quindi, bando ai passatismi, va bene così.
Deludente invece The accidental gangster, che prova un po’ tutte le strade più modaiole del cinema di Seoul: il film in costume misto con la commedia demenziale-cartoon che nella seconda parte, senza alcuna transizione, diventa una specie di serissimo e pallosissimo melò con le arti marziali – e un duello finale che è tra le cose più yeeuch che io abbia visto fare in un film coreano. Siamo seri, suvvia.