Tokyo sonata
di Kiyoshi Kurosawa, 2008
Nel panorama del cosiddetto j-horror, i film di Kurosawa Kiyoshi sono sempre stati qualcosa a sé stante rispetto ai film di registi come Hideo Nakata o Takashi Shimizu, nonostante un film come Cure avesse messo istantaneamente KK nella lista dei registi complici del rilancio globale del cinema horror giapponese. Ma da Kairo a Bright future, da Charisma a Doppelganger, i suoi film erano qualcosa di completamente diverso, caratterizzati da un gusto spiccato per l’inquietudine, e da opposizioni tematiche che facevano di ogni suo film una specie di spaventoso rebus filosofico-metafisico. Oltre che da uno stile inconfondibile: soprattutto, erano registicamente su un altro pianeta rispetto a quasi tutto il cinema nipponico coevo.
Adesso Kurosawa Kiyoshi ha abbandonato l’horror: Tokyo Sonata è infatti un dramma ambientato nella capitale dei nostri giorni, le cui vicende ruotano intorno a una famiglia di quattro elementi: il padre che ha perso il lavoro ma non vuole rivelarlo alla moglie, il figlio minore che vuole suonare il piano a tutti i costi ma gli viene impedito, il figlio maggiore che fa volantinaggio e che sogna di arruolarsi nell’esercito americano, la madre che vive la sua frustrazione di casalinga. Ma anche in questo contesto inedito, "realista" tra virgolette, Kurosawa mostra una maestria e una cura impressionanti.
E’ interessante vedere come la sua esperienza del tutto unica nel cinema di genere, seppure sui generis, esca a piccoli accenni ma non cannibalizzi l’attenzione su un film capace di vivere di vita propria come dramma familiare. Ma anche qui, la tematizzazione è forte: Tokyo Sonata è prima di tutto un film sulle seconde occasioni, in cui il contesto storico del Giappone odierno è perfetto per raccontare di come per voltare pagina sia spesso necessario attraversare il trauma più estremo. Rinascere, insomma, dalle proprie stesse ceneri.
Ma Tokyo Sonata è anche un film che mostra una delle più laceranti dissoluzioni familiari del cinema recente, raccontate attraverso uno stile chirurgico che accompagna la violenza quotidiana, quella che si vive in famiglia, con uno stile che non ha fretta e che centellina le emozioni con un’attenzione a rendere significativi dettagli che normalmente sarebbero marginali (una tenda bianca mossa dal vento sullo sfondo, una finestra fuori campo che fa entrare la luce illuminando i personaggi) facendo crescere e modificando non soltanto le situazioni nel loro crescendo drammatico, ma anche e soprattutto lo stile stesso con cui i fatti vengono narrati.
Le due metà del film sono infatti profondamente diverse: la prima, preparatoria nella costruzione dei personaggi e dei loro complessi caratteri, è costruita attraverso inquadrature lunghe e fisse di ambienti familiari che vengono dritte dal cinema di Ozu e scenari urbani degradati – mentre la seconda parte si "scioglie", non solo nel gusto dell’invenzione strutturale (la ricostruzione di un fatto da più punti di vista) ma anche in una macchina da presa che si fa più mobile, che riscopre i carrelli, la diversità della composizione. Come se il film, nel momento in cui il dramma si fa vivo, cominciasse davvero a vivere – come se i personaggi stessi vivessero per quel dramma – da cui, nel migliore dei sensi possibili, usciranno per sempre cambiati.
La sequenza finale, che chiude la questione del "realismo", appunto tra virgolette, con la scelta geniale di quella inquadratura fissa quasi surrealista e della "uscita di scena" dei personaggi, è tanto un inno di speranza quanto uno sguardo cinico e spietato su una società come quella nipponica. Se i film di Kurosawa si concludevano spesso con l’Apocalisse, qui si sente il peso della sua assenza. Quasi come se l’Apocalisse, da quelle parti, fosse più che attesa – fosse la benvenuta.