giugno 2009

You are browsing the site archives by month.

Tokyo sonata, Kiyoshi Kurosawa 2008

Tokyo sonata
di Kiyoshi Kurosawa, 2008

Nel panorama del cosiddetto j-horror, i film di Kurosawa Kiyoshi sono sempre stati qualcosa a sé stante rispetto ai film di registi come Hideo Nakata o Takashi Shimizu, nonostante un film come Cure avesse messo istantaneamente KK nella lista dei registi complici del rilancio globale del cinema horror giapponese. Ma da Kairo a Bright future, da Charisma a Doppelganger, i suoi film erano qualcosa di completamente diverso, caratterizzati da un gusto spiccato per l’inquietudine, e da opposizioni tematiche che facevano di ogni suo film una specie di spaventoso rebus filosofico-metafisico. Oltre che da uno stile inconfondibile: soprattutto, erano registicamente su un altro pianeta rispetto a quasi tutto il cinema nipponico coevo.

Adesso Kurosawa Kiyoshi ha abbandonato l’horror: Tokyo Sonata è infatti un dramma ambientato nella capitale dei nostri giorni, le cui vicende ruotano intorno a una famiglia di quattro elementi: il padre che ha perso il lavoro ma non vuole rivelarlo alla moglie, il figlio minore che vuole suonare il piano a tutti i costi ma gli viene impedito, il figlio maggiore che fa volantinaggio e che sogna di arruolarsi nell’esercito americano, la madre che vive la sua frustrazione di casalinga. Ma anche in questo contesto inedito, "realista" tra virgolette, Kurosawa mostra una maestria e una cura impressionanti.

E’ interessante vedere come la sua esperienza del tutto unica nel cinema di genere, seppure sui generis, esca a piccoli accenni ma non cannibalizzi l’attenzione su un film capace di vivere di vita propria come dramma familiare. Ma anche qui, la tematizzazione è forte: Tokyo Sonata è prima di tutto un film sulle seconde occasioni, in cui il contesto storico del Giappone odierno è perfetto per raccontare di come per voltare pagina sia spesso necessario attraversare il trauma più estremo. Rinascere, insomma, dalle proprie stesse ceneri.

Ma Tokyo Sonata è anche un film che mostra una delle più laceranti dissoluzioni familiari del cinema recente, raccontate attraverso uno stile chirurgico che accompagna la violenza quotidiana, quella che si vive in famiglia, con uno stile che non ha fretta e che centellina le emozioni con un’attenzione a rendere significativi dettagli che normalmente sarebbero marginali (una tenda bianca mossa dal vento sullo sfondo, una finestra fuori campo che fa entrare la luce illuminando i personaggi) facendo crescere e modificando non soltanto le situazioni nel loro crescendo drammatico, ma anche e soprattutto lo stile stesso con cui i fatti vengono narrati.

Le due metà del film sono infatti profondamente diverse: la prima, preparatoria nella costruzione dei personaggi e dei loro complessi caratteri, è costruita attraverso inquadrature lunghe e fisse di ambienti familiari che vengono dritte dal cinema di Ozu e scenari urbani degradati – mentre la seconda parte si "scioglie", non solo nel gusto dell’invenzione strutturale (la ricostruzione di un fatto da più punti di vista) ma anche in una macchina da presa che si fa più mobile, che riscopre i carrelli, la diversità della composizione. Come se il film, nel momento in cui il dramma si fa vivo, cominciasse davvero a vivere – come se i personaggi stessi vivessero per quel dramma – da cui, nel migliore dei sensi possibili, usciranno per sempre cambiati.

La sequenza finale, che chiude la questione del "realismo", appunto tra virgolette, con la scelta geniale di quella inquadratura fissa quasi surrealista e della "uscita di scena" dei personaggi, è tanto un inno di speranza quanto uno sguardo cinico e spietato su una società come quella nipponica. Se i film di Kurosawa si concludevano spesso con l’Apocalisse, qui si sente il peso della sua assenza. Quasi come se l’Apocalisse, da quelle parti, fosse più che attesa – fosse la benvenuta.

L’innocenza del peccato, Claude Chabrol 2007

L’innocenza del peccato (La fille coupée en deux)
di Claude Chabrol, 2007

Un piccolo mea culpa: ho recuperato il film, tra l’altro con notevole ritardo, ormai parecchi giorni fa. E poi mi sono dimenticato, letteralmente, di averlo visto – e quindi di scriverne. Forse il film meritava diverse sorti anche da queste parti, perché si tratta comunque di un’opera di professionalità cristallina, costruita su un magistrale triangolo – anche se il mio personaggio preferito, quello di Caroline Sihol, ne è al di fuori. In ogni caso, il film mi ha colpito più che altro per la sua programmatica freddezza: una lucidità assolutamente glaciale che se anche fa parte delle scelte stilistiche caratterizzanti del film e del suo autore, rende anche difficile riuscire a immergersi nella vicenda senza distaccarsi da constatazioni puramente analitiche. Questione di metodo più che altro, e sulla precisione millimetrica e spietata di Chabrol non si discute, ma l’entusiasmo si ferma a un certo punto – anche a causa di un approccio alla materia che predilige metafore troppo forti e persino troppo incisive. Come quella, per esempio, che dà (addirittura) il titolo e la chiusura al film. Ma il modo in cui Chabrol provvede ancora una volta alla dissacrazione e alla dissezione dell’ipocrisia borghese (soprattutto con due sequenze: ovviamente quella dell’omicidio, terrificante per come interrompe violentemente all’improvviso un’assenza di crescendo che è tanto deliberata quanto piena di presagi, ma anche quella, tutta di negazione, dell’iniziazione di Gabrielle nel club di Charles) ha ancora pochissimi eguali nel cinema europeo. Una notazione di sconforto per il pavidissimo titolo italiano.

Michael Jackson R.I.P.

[ce li avete 13 minuti e 42 secondi?]

 

Michael Jackson’s Thriller (1993), directed by John Landis

(tutti i videoclip delle canzoni di Michael Jackson, perlopiù stupendi quando non autentici capolavori del loro genere, si trovano qui)

Friday Prejudice #177

[dai, su, forza, ditelo]

Ah, l’estate. E il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Friday Prejudice #176

[mi cago in mano solo a rivederla in foto, fate voi]

Nuovo episodio di Friday Prejudice, quello in cui esce Coraline e il resto puzza.

Coraline e la porta magica, Henry Selick 2009

Coraline e la porta magica (Coraline)
di Henry Selick, 2009

Una delle cose a cui ho pensato guardando Coraline è che nessuno aveva mai capito così bene Neil Gaiman come Henry Selick, e che difficilmente capiterà in futuro che qualcuno colga così alla perfezione quella capacità di restituire intatto un immaginario infantile che va a braccetto, inseparabilmente, con un’angoscia e un fascino per l’oscurità che vanno ben al di là della lettura psicanalitica, e che fanno parte della nostra formazione, non solo letteraria ma anche individuale e umana.

L’altra cosa che ho pensato è che è davvero un peccato che Henry Selick abbia lavorato così poco. Dopotutto ha diretto uno dei capolavori dell’animazione (in toto) del decennio scorso. E ora ha diretto uno dei capolavori dell’animazione di questo decennio in cui viviamo: le parole per descrivere Coraline difficilmente potranno render conto dello splendore di questo film – che definirei senza troppa paura perfetto se non sapessi che questo aggettivo rimanda a un concetto di rassicurazione che Coraline non merita, trattandosi di un film profondamente e sanissimamente inquietante.

Una meraviglia comunque che non si ferma all’aspetto plastico, nonostante lo splendore scenografico e l’assoluto delirio visionario di tutta la parte onirica, e nonostante tutto sia basato su gioco di contrasto prima di tutto visivo tra il grigiore del mondo reale e l’assurdo circense barocco e terrificante mondo al di là dell’organico tunnel-fisarmonica – una dicotomia del ribaltamento che già era presente in Nightmare before Christmas e di cui l’allievo Mike Johnson ha fatto tesoro per realizzare La sposa cadavere.

A conquistare di questa favola nerissima, insieme intima e universale, sono soprattutto il modo in cui Coraline è raccontato, il sistema geniale in cui ci si appropria del linguaggio e delle strutture semantiche dei sogni per sviluppare gli innesti narrativi, e ovviamente l’armamentario feticista che viene dritto dal testo di Gaiman, questa ossessione per i bottoni – sarà difficile in futuro guardarli con gli stessi occhi – oppure per le bambole di pezza e per le chiavi, e poi la magia che investe e ricopre i luoghi della vita quotidiana, di ogni angolo della casa che diventa luogo di esplorazione e che nasconde un mistero pronto a sconvolgerci ed emozionarci – come facevamo noi da bambini (dopotutto Gaiman è uno dei pochi romanzieri contemporanei a non dimenticarsi mai di quelle sensazioni: c’è poco da fare, la sua fortuna e il suo enorme talento vengono entrambi da lì) quando dietro una porta si nascondeva un mondo eccitante e pauroso. E guai a chi diceva il contrario.

Tokyo!, Gondry-Carax-Bong 2008

Tokyo!
di Registi Vari, 2008

Il trittico in cui Bong Joon-ho, Michel Gondry e Leos Carax sono stati invitati a dirigere un mediometraggio ambientato nella capitale nipponica è stato uno degli eventi di Cannes 2008, più di un anno fa – e poi è finito un po’ nel dimenticatoio, nell’attesa (vana!) che uscisse nelle sale anche da noi. Ma è uscito in DVD per Regione 2. Procuratevelo, ne vale davvero la pena.

Interior Design di Michel Gondry
Una squattrinata giovane coppia arriva nella capitale: lui gira film sperimentali, lei nel frattempo va alla frustrante ricerca di un appartamento. Strano e imprevedibile come è sempre Gondry, questo tenero, malinconico e spassoso piccolo film parte da un’osservazione meticolosa e ravvicinata dei disequilibri di una coppia, in cui il fulcro è un lento e lunghissimo carrello all’indietro in cui i due litigano e si riappacificano, e arriva a una bizzarria mutante, quasi kafkiana ma profondamente gondryana – in ogni caso, sempre con il sorriso sulle labbra, con la sua inimitabile leggerezza, e un amore per il cinema che non ha quasi eguali. Stupefacente la fotografia di Masami Inomoto.
 
Merde
di Leos Carax
Le fogne di Tokyo nascondono un "uomo" misterioso e mostruoso: quando viene arrestato per un inspiegato e anarchico massacro a colpi di bombe a mano, verrà difeso da un avvocato francese che gli somiglia e che parla la sua lingua. Forse il meno convincente, punta direttamente alla pancia ed è caratterizzato da una ricerca insistita e insidiosa del fastidio perturbante: ma solo perché siamo in un campionato di soli fuoriclasse. In realtà la metafora misantropa, terrificante e perforante di Carax coglie nel segno. Forse un po’ tirato per le lunghe, ma coerente fino all’assurdo.

Shaking Tokyo di Bong Joon-ho
Come previsto, il gioiello più prezioso del trittico. Uno dei migliori registi sudcoreani parte in modo quasi cronachistico dallo spunto attualissimo degli hikikomori (i giapponesi che si chiudono in casa per mesi perdendo ogni contatto con la realtà) e dall’ossessione nipponica per le scosse telluriche per costruirci poi sopra una specie di favola romantica post-apocalittica ricca di rimandi fantascientifici e persino accenni horror (come l’immagine inquietante e terribile del volto dietro il vetro opaco) in cui l’amore improvviso è la spinta definitiva e unica verso la libertà – un film sull’indeterminato coraggio della libertà da sé stessi, curatissimo in ogni dettaglio, visivamente sconvolgente. Un piccolo capolavoro.

Spring Breakdown, Ryan Shiraki 2009

Spring breakdown
di Ryan Shiraki, 2009

C’è la remota possibilità che qualcuno di voi sia stufo della commedia americana contemporanea radicalmente virata al maschile, delle brocom et simila. Ecco, Spring breakdown invece, nella buona tradizione del Cinema Vaginale, è progettato e diretto esclusivamente a un pubblico femminile – e più in particolare, a quelle che al liceo erano sfigate e/o carine-ma-intelligenti e/o maltrattate dalle ragazze più popolari.

C’è qualcosa di morbosamente attraente, per quanto mi riguarda, già solo nel vedere in scena un trio di attrici così (Amy "Parks and Recreation" Poehler, Parker Posey e Rachel Dratch, un’altra fuoriuscita dal SNL) ed è il motivo per cui mi sono procurato questo film, presentato all’ultimo Sundance. Ma mi rendo conto che è un problema mio. Volevate una ragione per procurarvi questo film? Non c’è. Davvero. Non insistete.

Ciò non toglie che le mie quattro (ma anche otto) risate me le sono fatte, è roba nata vecchiotta e nemmeno particolarmente graffiante, ma c’è Rachel Dratch che qui fa ridere più delle altre due messe assieme, e c’è Missi Pyle (una che negli ultimi 10 anni avete visto dappertutto) fa ancora più ridere nel ruolo irresistibile di una che era troppo sbronza per accorgersi che l’adolescenza era finita da 15 anni.

E c’è Jane Lynch nei panni di una specie di assurda e meravigliosa candidata vicepresidente repubblicana Sarah Palin-esque. Qualunque cosa abbia Jane Lynch nel cast diventa immediatamente necessaria, anche se il più delle volte l’impressione che dà Spring breakdown è di un film tirato su dal fondo dei cestoni del supermercato che hai comprato perché costava 4 euro ed è già tanto se hai tolto la plastica.

Infatti: negli USA è uscito direttamente in DVD. Si potrebbe ragionare, a questo punto, su cosa comportil’uscita straight-to-video di un film simile, pur dopo il successo commerciale di Baby Mama, per il futuro della commedia americana al femminile. Si potrebbe.

Transsiberian, Brad Anderson 2008

Transsiberian
di Brad Anderson, 2008

Dopo L’uomo senza sonno, tutto sommato molto visto e discusso da noi, non pensavo che Anderson potesse avere dei problemi di visibilità dalle nostre parti. Invece il suo nuovo film, coproduzione anglo-franco-tedesco-lituana che ha conquistato la critica americana  (fin dalla presentazione al Sundance 2008), è uscito un po’ dappertutto negli scorsi mesi. Ma non in Italia. Dovrebbe essere nel listino di Mediafilm, ma non c’è traccia di un’uscita italiana.

Peccato, perché questo film è la conferma del talento del regista americano che in Europa ha trovato la sua seconda patria. Ecco, magari il film non supera un certo livello di guardia, spesso si rimane nel campo del mero mestiere: ma il quadrangolo morboso che si svolge sulla transiberiana da Pechino a Mosca nella prima parte (quasi tutto sulle spalle di Emily Mortimer, che se la cava egregiamente) perforato dall’avvento violento di Kingsley nella seconda, funziona che è una meraviglia.

Tra echi di Polanski e del Konchalovsky di Runaway train, Anderson mostra una conoscenza perfetta dei meccanismi di suspense e aspettativa, sa tradirli con furbizia (all’incirca a metà film), e tira fuori una cosetta non proprio freschissima ma abbastanza inquietante sul potere devastante della bugia – e magari prima o poi la fanno vedere anche a voi.

Nel frattempo potete acquistare il DVD su Play.com al prezzo di un aperitivo sui Navigli.

Push, Paul McGuigan 2009

Push
di Paul McGuigan, 2009

Mi incuriosisce molto, in un tempo in cui gli universi Marvel e DC vengono setacciati alla ricerca di ogni possibile trama da trasformare in film, vedere se la cavano con soggetti (e supereroi, e poteri) originali che traggono magari ispirazione da quegli stessi immaginari. Così come lo spassoso Hancock l’anno scorso, quest’anno è il turno di Push, primo lavoro rilevante dello sceneggiatore David Bourla.

Maltrattato in patria, forse perché troppo simile a Heroes, il film in realtà meritava miglior sorte. O forse sono io che mi gaso particolarmente quando vedo film "fantastici" in cui molte sequenze sono girate con taglio realistico, tra macchina a mano e ambientazioni suburbane. In ogni caso, a prescindere dalla simpatia nei confronti di McGuigan (per me una bella conferma dopo Slevin: qui comunque abbassa un po’ il tiro) è un film innegabilmente impeccabile sotto il profilo produttivo: ottime la fotografia di Peter Sova e le scenografie del canadese François Séguin, che sfruttano al meglio l’ambientazione hongkonghese.

Ma è soprattutto un film immediatamente godibile, sia quando percorre la strada già battuta da (molti) altri che nella capacità di presentare e rendere plausibile una mitologia tutta nuova, stramba e complessa, sia quando la butta un po’ sul ridere (i due "urlatori" della Triade) che quando, verso la fine, infila sullo spiedino misto di fantastico e action una o due cosette sull’aleatorità della memoria – che quasi quasi ci stavamo cascando. E Dakota Fanning, piaccia o meno, è brava. Ma brava brava, eh.

Niente di che, ma ci si diverte: peccato, dunque, che nessuno se ne sia accorto.

I love Radio Rock, Richard Curtis 2009

I love Radio Rock (The boat that rocked)
di Richard Curtis, 2009

Ho già detto la mia su Friday Prejudice, seppure in forma breve. La pigrizia mi imporrebbe di chiuderla lì, ma ho ancora un paio di cose da dire.

In realtà vorrei sottolineare ancora una volta questo aspetto che la colonna sonora del film di Curtis possiede e che mi ha lasciato davvero soddisfatto. Credo sia una questione di pelle, perché non so spiegarmela razionalmente: so solo che per far funzionare così bene una sequenza che riguarda un momento fondamentale del rapporto tra un padre e un figlio usando Father and son di Cat Stevens secondo me ci vuole della bravura. E mica poca.

Poi vabbè, il film non è 24 hour party people, è costruito su opposizioni e conflitti molto semplici, a volte esplicite e didascaliche, e i personaggi hanno tutti un piede sul confine della macchietta (particolarmente tutta la parte di Kenneth Branagh e Jack Davenport) quando non sono effettivamente ispirati a persone realmente esistite. Ma nonostante questo la macchina si muove che è un piacere, e al di là dell’ispirata freschezza che questo film esprime in ogni sequenza, forse il più grande talento di Curtis, che ha già mostrato in molti dei film da lui scritti, è la capacità di farci affezionare a personaggi di cui, normalmente, non ci potrebbe lontanamente interessare. Qui si fa il tifo. Sbracciandosi.

Talulah Riley – che in altri film, nelle foto, "nella vita vera", è una ragazza carina, sì, ma ordinaria e imperfetta, troppo magra, con la bocca troppo grande – qui è talmente bella che non sembra nemmeno umana.

Già segnalato nei commenti di là: occhio agli svarioni e alle libertà della versione italiana. Se potete, andate a caccia di una sala che lo proietti in lingua originale.

La ragazza del mio migliore amico, Howard Deutch 2008

La ragazza del mio migliore amico (My best friend’s girl)
di Howard Deutch, 2008

Per sapere che l’ennesimo film di Deutch, che a più di vent’anni di distanza da Bella in rosa potrebbe anche pensare a un piano di prepensionamento per liberarci dalla robaccia che gli danno in mano periodicamente, fosse una puttanata forse non c’era bisogno di vederlo davvero. Ma sul serio, qui si raggiungono dei tali baratri di schifo che per una volta la visione è un’esperienza consigliata, quasi esoterica.

No, scherzo. Due palle così.

Il fatto è che il film è costruito sull’assunto di essere una commedia "scorretta" in cui la presenza di Jason Biggs dovrebbe fungere da grossa freccia al neon che indica e dice vagina! misoginia! senza sopracciglia!. Ma quest’assunto è basato completamente su un autoconvincimento di natura quasi patologica, psichiatrica: perché in realtà è una commedia brutta brutta, banale e moraleggiante, in cui i personaggi dicono le parolacce. Tutto lì: parolacce a vanvera, e sotto niente. Un po’ come questo post.

Quando han tirato fuori Harry, ti presento Sally nei dialoghi volevo bruciare tutto.

Fulcro del film è questo tremendissimo Dane Cook, che prima di questo deve aver fatto solo cose che non ho visto – e stavo benone. Troppo somigliante (fisicamente identico) a uno dei miei più cari amici per riuscire a odiarlo fino in fondo (e a pensare ad altro durante il film oltre che a ehi ma cazzo è proprio uguale), è un attore che ha all’incirca il carisma di un sacchetto della spazzatura – e cercano di vendercelo come il nuovo Clive Owen. Perché, Clive Owen è morto? Suvvia.

Grazie a Cook però funziona l’unica sequenza decente del film, l’unica – e lo ripeto nonostante il corsivo fosse già abbastanza esplicito: l’unica – che strappi quantomeno un sorriso: quella in cui lui cammina al ralenti nel corridoio della chiesa con The Man Comes Around di Johnny Cash in sottofondo, e quello che ne segue – in ogni caso, una roba annunciata fin dall’incipit. Il resto del film è da buttare. Ripeto: da buttare. Senza riciclaggio. Questo è un film che riesce a sprecare Alec Baldwin e Lizzy Caplan.

C’è da dire che il doppiaggio è una roba aberrante, e non so se il film in lingua originale possa essere più divertente: tutti i dialoghi con Dane Cook sono costruiti su un meccanismo di rilancio (cioè ogni semplice proposizione viene resa più colorita da una similitudine o da una metafora particolarmente colorita ed esagerata) che in italiano si perdono completamente – sia per le qualità intrinseche della lingua, sia perché sono tradotti con il culo. Ma non ridevo nemmeno a immaginarmi come potevano essere divertenti in inglese – oppure scritti da una persona non cretina – che di solito è una scappatoiafunzionante.

Ma soprattutto: vaffanculo, Kate Hudson. Lei è un’altra di quelle che dovrebbe proprio darci un taglio, non ne azzecca una da quasi dieci anni, e con la doppietta di questo e Bride Wars si è superato ogni limite, e ha veramente, ma veramente, stufato. Oh ma levati di torno, tronco.


Nei cinema dal 19 giugno 2009

Friday Prejudice #175

[oh, talulah]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online tipo adesso.

Vincere, Marco Bellocchio 2009

Vincere
di Marco Bellocchio, 2009

Ho visto Vincere da ormai molti giorni, e mi sono trovato immediatamente in difficoltà all’idea di scriverne – tanto da sospendere temporalmente il blog in attesa che venisse fuori qualcosa da dire su questo film, che pur essendo intellettualmente una delle cose più stimolanti in circolazione mi ha colpito così tanto soprattutto da un punto di vista viscerale. Ovviamente, non è venuto fuori niente. Altrimenti non avrei scritto questo paragrafo, non credete?

Quando mi capita un film che sa stringermi le budella in questo modo, quello che mi sento di fare è semplicemente di consigliarlo caldamente – cosa che infatti ho fatto attraverso canali meno istituzionali di questo blog – e ancor più che in casi simili precedenti, di cercare di vedere un po’ al di là dei propri pregiudizi. Ed è questo, che è venuto fuori: la strana impressione che mi ha fatto, per molteplici volte negli ultimi giorni, rendermi conto che il mio consiglio non veniva preso sul serio – che si dava per scontato che Vincere non fosse niente di che.

A costo di ripetere discorsi forse più adatti a quell’altro blog: davvero non credete in Marco Bellocchio? Dico, li avete visti, i film che ha girato negli ultimi anni? Li avete visti L’ora di religione e Buongiorno, notte? Davvero credete che Giovanna Mezzogiorno – che da queste parti, con tutti i limiti del caso, non è nemmeno così mal vista – sia comunque una ragione sufficiente per scalzare un film di Bellocchio dalle proprie preferenze? Davvero credete che Vincere possa essere il feuilleton storico-erotico che hanno cercato di venderci (tant’è che anch’io ci ero quasi cascato)?

Non lo è. Vincere è semmai uno dei film più sperimentali e insieme più poderosi del nostro cinema recente. Un film liberissimo e svincolato da ogni prevedibile meccanismo, che alterna lo splendore della ricostruzione storica e la fotografia, assolutamente ipnotica, di Daniele Ciprì, a una messa in scena teatrale e antinaturalista nella quale l’inevitabile scambio semantico tra la Storia e l’attualità si mescola con con una regia che, soprattutto nella prima parte, ricorda una versione furiosa e contemporanea dei manifesti futuristi, presenti essi stessi all’interno delle vicende – e dentro cui, programmaticamente, si svolge l’atto erotico di rifiuto che dà inizio al "martirio" di Ida.

Ma senza stare a scomodare le ragioni effettive (l’intelligenza delle scelte strutturali e narrative, la capacità di parlare con le immagini, e di non aver paura che siano le immagini a parlare) che rendono Vincere un film così prezioso per un cinema come quello italiano che ultimamente, diciamolo, si è un po’ appisolato sugli allori, lo ripeto, la motivazione più pregnante per convincervi è probabilmente quella con cui ho aperto il post, quella più inconscia, inspiegabile, unica: Vincere è un film che ti stringe le budella. Bastava dire quello.

Friday Prejudice #174

[in your face, David Cronenberg!]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. E la chiamano estate.

[goodbye]

E’ morto David Carradine.

Fired up, Will Gluck 2009

Fired Up
di Will Gluck, 2009

"Purtroppo è considerato più eterosessuale guardarsi tra maschi per determinare chi sta nel club dell’età puberale piuttosto che farsi circondare da ragazzine vestite attillate che fanno discorsi sulle loro relazioni presenti e passate."


"Screw football, let’s go cheer!"

Nicholas D’Agosto, Fired up

Partiamo dal presupposto che un film basato quasi completamente sul carisma dei suoi due protagonisti non può in alcun modo funzionare se tali protagonisti, di carisma, sono completamente privi. Questo è il caso di Fired up, opera prima dell’executive Gluck, bistrattatissima dalla critica americana, ed è allo stesso modo il caso di Nicholas D’Agosto, già visto in Heroes, che sembra un giovane Jim Carrey ma più sfigato e meno talentuoso, e di Eric Christian Olsen, via di mezzo tra Owen Wilson, Barney Stinson e un macaco. Il fatto che interpretino studenti di liceo nonostante siano nati rispettivamente nel 1980 e nel 1977 (!) non aiuta la credibilità del film. Se l’assunto del film è quello, assurdo, che due tipi così siano i due ragazzi più popolari della scuola, tutto il resto crolla intorno come un castello di carte. O no?

In ogni caso Fired up, pur essendo un film abbastanza brutto (davvero spiacevole per una buona metà, poi forse il cervello si adatta al contesto) è comunque un oggetto interessante: rappresenta un’inaspettata e violenta penetrazione del modello maschile del bro movie all’interno del filone tutto vaginale del cheerleading movie. Che nasce come sottoinsieme del high school movie ma che, finora, viveva di una sorta di incontaminata indipendenza sostenuta dalla popolarità dell’interminabile saga di Bring it on – da noi, Ragazze nel pallone. Non è un caso che la scena più bella del film sia ambientata proprio davanti a uno schermo che proietta Ragazze nel pallone – i cui dialoghi vengono recitati a memoria da centinaia di ragazze, come un mantra, o meglio come una preghiera pagana.*

Ma è l’unico momento davvero dissacrante e geniale di un film che, per il resto, procede per accumulo di situazioni ammiccanti ma "da bravi ragazzi", pruriginoso ma moralista insomma, "un film senza fuck", in tutti i sensi. Niente per cui arrabbiarsi, per carità: aiuta il film il fatto che da una trama simile non ci si poteva davvero aspettare di più e che i dialoghi, devo ammetterlo, sono trascinati da un senso dell’umorismo sciocchino ma consapevole dei propri limiti che mi ha trovato abbastanza partecipe. Ma non ditelo a nessuno.

*lo so benissimo che ho scritto un fracco di sciocchezze, ignoratemi.

The uninvited, Charles e Thomas Guard 2009

The uninvited
di Charles e Thomas Guard, 2009

Se attacco a dirvi che The uninvited, remake di un film coreano che da queste parti è visto come minimo con un certo riguardo, è infinitamente meno riuscito dell’originale, rischio di passare per uno di quelli (categoria popolosa) secondo cui il remake non sarà mai e poi mai una roba decorosa – regola di cui un corollario riguarderebbe senza dubbio il cinema asiatico e i suoi vituperati rifacimenti statunitensi. Non è così, da queste parti: primo perché, non mi stancherò mai di dirlo, nessuna opera è intoccabile. Secondo, perché The Ring di Verbinski e Dark water di Salles sono lì a dimostrare il contrario.

Però, stessa cosa: il film che i fratelli Guard hanno tratto da Two sisters di Kim Ji-woon, scritto a sei mani da tre sceneggiatori dalla scarsa esperienza, pur non essendo un totale disastro, è la dimostrazione che uno straordinario canovaccio di base non basta a fare un film come si deve. Poi vabbè, a volte sembra che lo facciano apposta, a rovinare tutto. E che ci chiedano con spirito masochista di riprendere in mano il film di Kim per vedere come diavolo si lavora: come l’inizio in cui lo psichiatra fa lo spiegone, uno degli spiegoni più evitabili che ricordi in tempi recenti, o il fatto che i cambiamenti portati alla trama (notevoli: almeno si sono sforzati) sono quasi tutti per il peggio. Una modifica, soprattutto, va a intaccare uno dei lati più affascinanti della confusione ontologica del film originale.

Come al solito però, i confronti servono a poco, quindi la chiuderei qui. Andare avanti sarebbe umiliante per un film che tutto sommato non è così orripilante. Però è davvero una robetta da poco: non prende mai il volo, non spaventa, non coinvolge, annoia a morte in tutta la parte centrale: tutta colpa, a mio avviso, della sceneggiatura troppo schematica, forzata e scolastica – vedi l’originale ma annunciatissimo colpo di scena circolare dell’ultima inquadratura – insieme alla tendenza, assai diffusa nel cinema di ampia distribuzione, di voler spiegare tutto nella convinzione che il pubblico altrimenti possa non arrivarci.

Peccato, perché il cast invece è azzeccatissimo: Emily Browning, qui idolatrata da tempo con tutto il suo testone, ce la mette tutta; David Strathairn è equilibrato e corretto; Elizabeth Banks è la più brava del gruppo, obliqua e ambigua; Arielle Kebbel passa metà film in costume ed è tutto ciò che chiedevamo.