luglio 2009

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Crank 2: High Voltage, Mark Neveldine e Brian Taylor 2009

Crank 2: High Voltage
di Mark Neveldine e Brian Taylor, 2009

Se c’è una cosa che il sequel di Crank dimostra, senza girarci troppo attorno, è che Neveldine e Taylor non erano un abbaglio, e che Crank non era un divertissement venuto bene per caso quanto pronto a farsi divorare a posteriori dai propri epigoni: i due in questo film mostrano di sapere perfettamente cosa stanno facendo e, soprattutto, mostrano di volerlo fare fottendosene amabilmente di tutto quello che sta loro attorno – giudizio delle masse e della critica compreso. Questo non fa però di Crank 2 un mero e miserevole sfottò, nononostante le situazioni da cartoon e da slapstick e l’abbandono di ogni legge fisica e logica: Crank 2 la liberazione totale (anche se il mio sospetto è che ci sia ancora qualcosa da liberare) di un’idea di cinema ben precisa ed esibita che non solo si adatta alla perfezione allo Statham post-ritchiano (ma in realtà post-tutto) le cui bizzarre sorti i due hanno deciso di narrare, ma risulta, nel panorama del cinema d’intrattenimento contemporaneo e più specificamente in quello action-adrenalinico, qualcosa di profondamente necessario e inevitabile. Come se prima di Neveldine e Taylor ci fosse un impedimento di qualche tipo a fare lo scatto che Crank aveva già rappresentato in potenza e che Neveldine e Taylot con Crank 2 avessero trovato la fottuta chiave per sbloccare il fottuto meccanismo. Se tutto va come deve andare, probabilmente tra qualche anno guarderemo ai due Crank come a un punto di svolta nel cinema di-cosiddetto-intrattenimento. Oppure no, chissà. Comunque di Crank 2 potremmo stare qui a parlare per ore – per esempio del modo in cui i due film si parlano, ovvero del "meccanismo di rilancio" che è già tipico dei sequel ma che qui raggiunge livelli di sublime surrealismo (esempio perfetto: le scopate in pubblico), oppure dell’ossessione di Neveldine e Taylor per gli organi genitali (qui martoriati e massacrati in continuazione come fossimo in un horror estremo giapponese), o dell’avvento definitivo delle tecnologie amatoriali HD nel Mondo Del Cinema (una cosa per cui già il film meriterebbe un santino a prescindere). Non lo faremo perché è quasi agosto e perché fa molto caldo, vi diremo soltanto (con un tono ggiovane ma che si addice alle circostanze): sparatevi questo cazzo di film, prendete e godetene tutti, e vaffanculo.

17 again, Burr Steers 2009

17 again – Ritorno al liceo (17 again)
di Burr Steers, 2009

"Don’t you ever wanna go back and do high school again?"
"No. I’m rich and no one has shoved my head in a toilet today!"

C’è un momento ben preciso in cui ho capito che 17 again mi stava piacendo. Nella sequenza in questione il protagonista, ritrovatosi per magia nel suo corpo pubescente, si ritrova in cucina dopo un lungo alterco l’eterno amico che lo ospita – un nerd abbastanza tipico anche se ormai quasi quarantenne. Questi, dopo aver finalmente creduto alla storia dell’amico, mette davanti a a sé un mucchio infinito di libri e fumetti e dice "ok, it’s a classic transformation story. Are you now or have you ever been a norse god, vampire, or time traveling Cyborg?".*

Al di là dell’immediata strizzatina d’occhi al pubblico geek, ormai inevitabile nella commedia americana (tutta la parte del film che riguarda il personaggio di Thomas Lennon, non a caso la più divertente, va in quella direzione), la sequenza mostra da subito una consapevolezza che lascia piacevolmente sorpresi. Da quel punto in poi, il film si può permettere di andare a finire dentro tutti i più prevedibili percorsi previsti dalla transformation story stessa – perché ha già pagato il suo debito.

Quindi 17 again è precisamente quello che vi aspettate da una storia simile. E cioè non prende una svolta – ma che dico, nemmeno una pieghina che non sia già leggibile in modo inequivocabile già nei primi 4/5 minuti. Con una sostanziale differenza però: che è scritto molto bene, tra l’altro da uno (Jason Filardi) che per ora non aveva combinato granché. Invece i dialoghi sono brillanti, e i personaggi fanno ridere e/o tenerezza: sembrerà una sciocchezza, ma in un PG-13 che si tanto vendeva da solo perché c’è Zac Efron sul poster, il fatto che ci abbiano messo due neuroni due in più del previsto, per come la penso io, non è affatto una sciocchezza.

Niente di che, chiaro. Ma farà la vostra felicità se vi sono sempre piaciute le più classiche e disneyane storie di bodyswap e simili (presente, maestra!) perché ci rientra con tutte le scarpe, vi farà incazzare da bestia in caso contrario – o in caso vi stia molto antipatico Zac Efron. Che è dappertutto, in ogni fotogramma, con il suo corpo di gomma e la sua faccia da schiaffi. Adorabile, che ve lo dico a fare.

Facciamo finta di non aver visto la scena in cui il quarantenne zacefronizzato butta alle ortiche un foursome con tre adolescenti infoiatissime perché deve star dietro alla cretina della figlia. Seh.

*vale la pena di riportare tutto il dialogo:
"It’s a classic transformation story. Are you now or have you ever been a Norse God, Vampire, or Time Traveling Cyborg?"
"I have know you since what, first grade? I think that maybe I would have told you!"
"Vampire wouldn’t tell, Cyborg wouldn’t know"

Segnali dal futuro, Alex Proyas 2009

Segnali dal futuro (Knowing)
di Alex Proyas, 2009


"I think shit just happens. But that’s me"

Sono due le prospettive attraverso le quali si può vedere questo film. La prima è quella per cui tutte le scene più spettacolari non sono che un pretesto per una serie di manfrine sui rapporti familiari e in cui quindi la distruzione di strade, città e/o pianeti è secondaria rispetto ai daddy issues dei suoi personaggi. La seconda è esattamente l’opposto: è quella per cui la soggettiva intimista non è che il contorno di una gustosa e costosissima apocalisse tecnologica.

Ce n’è una terza, in realtà: quella per cui entrambe le matrici del film, quella più spielberghiana e quella più maicolbéi, si incontrano per dar luogo a un sotteso messaggio che si rifà a valori o dottrine monoteiste come, per dirne una, il cristianesimo – o piuttosto a sue varianti colorite e buffe. Lascerei stare per il momento (no: per sempre) quest’ultima considerazione: tanto il film non ha bisogno anche di questa benzina sul fuoco, è già bruttissimo di per sé.

C’è una cosa che mi stupisce, in molti film che hanno protagonista Nicolas Cage: che riescano a diventare dei "film con Nicolas Cage" qualunque sia la mano che li guidi – anche un regista altrove così interessante (anche se soprattutto in un passato ormai lontanissimo) come Alex Proyas. Così, mi chiedo come sia possibile che un film dalle buone premesse, che affronta in modo creativo e (per una volta) spavaldo alcuni traumi, anche visivi, del post-9/11, e che contiene alcune scene apocalittiche davvero ben realizzate (per quanto già vecchiotte) diventi una tale inenarrabile puttanata. Che possiede uno dei finali più imbarazzanti e di merda degli ultimi tempi, è vero – ma non è che il resto del film sia proprio un profumato fiorellino.*

Te ne accorgi già dai primi, tremendi, 20 minuti – di cronometro. Prima c’è Nicolas Cage che fa il vedovo inconsolabile che cucina gli hot dog al figlio intelligente ma introverso (e con un problema fisico) (una roba che suona più falsa e parodistica della parte di Scary Movie 4 su La guerra dei mondi), poi c’è Nicolas Cage che fa l’astrofisico e tiene una lezione all’MIT sul determinismo che nemmeno alle elementari dalle suore (sul serio: come cazzo vi è venuto in mente di scrivere una sequenza del genere, siamo seri) e in tutto questo c’è sempre e comunque Nicolas Cage che borbotta a denti stretti facendo facce come "di chi viene sorpreso dall’odore delle proprie scoregge" (cit.**) – e non smetterà più fino al termine delle lunghissime due ore del film.

Per non scontentare nessuno, comunque, ogni singola questione sollevata dal film, persino il ruolo che i personaggi rivestono o il senso delle loro azioni, vengono dettati puntualmente a voce alta dall’inetta sceneggiatura (scritta a dieci mani), a mo’ di disascalia – come Cage e la sorella che discutono del fatto che lui è il figlio di un pastore e lui ripete "sono il figlio di un pastore" con tono di scherno. E’ il figlio di un pastore. Capito? Di fronte a una roba simile, le cose migliori non possono che passare in secondo piano e venire dimenticate in fretta – come lo stupendo piano-sequenza dell’incidente aereo, che è figlio di Children of men e che stacca dal piattume del resto del film fino a sembrare quasi uno sfogo improvviso e solitario del talento rimasto a Proyas. Quasi tutto il resto è un "film con Nicolas Cage", punto. E della peggior sorta.

Complimentoni.


Nelle sale italiane dal 4 settembre 2009

*sulla questione del finale, del fatto che annulli praticamente il senso di tutto il percorso narrativo del protagonista, rendendo inutile il suo ruolo nella vicenda e quindi il film intero, non posso parlare senza fare spoiler: se volete ne parliamo privatamente quando l’avete visto anche voi.

**la citazione, la cui letteralità non ho verificato, è di Daniele Luttazzi

Friday Prejudice #181

[ma quanto cazzo è figa?]*

Scopritelo nel nuovo inutile episodio estivo di Friday Prejudice.

Harry Potter e il principe mezzosangue, David Yates 2009

Harry Potter e il principe mezzosangue (Harry Potter and the half-blood prince)
di David Yates, 2009

In tutti questi anni di (dis)onorata carriera, questa è la quarta volta che mi trovo a scrivere post sui film della saga di Harry Potter. Ogni volta sottolineando la premessa essenziale: che non sono un lettore della Rowling, e che non mi interessa in alcun modo di come sia stata tradotta la tal cosa o la tal altra dalla pagina allo schermo – ragionamento che in realtà vorrei si applicasse il più possibile al cinema in generale, non solo quello tratto da best seller di successo. Ma chi non è senza peccato non scaglia una mazza.

Questa è comunque delle quattro in assoluto la volta in cui ho meno voglia di menare tanto il cane per l’aia usando locuzioni come "menare il can per l’aia". Ci sono due possibilità: la prima è che sono invecchiato, che gestire con serietà un blog cinefilo a metà luglio nel 2009 parlando di un film che hanno già visto tutti (e che io stesso ho visto ormai cinque giorni fa) non fa più per me e non ne vedo (sempre) il senso – soprattutto se da quell’altra parte gli stimoli sono così ridotti come in quest’ultimo periodo. La seconda, più probabile, è che è prorio questo film a non essere stimolante sotto alcun aspetto.

In realtà Harry Potter 6 è un filmetto abbastanza divertente, diciamo: quanto basta. Il problema viene probabilmente dalla materia originaria, o (fermo i vostri bollori) quel che ne è rimasto nel trattamento e nella sceneggiatura: insomma, in questo film non succede nulla fino a 10 minuti dalla fine. Poi c’è il botto, vabbè – ma a quel punto abbiamo già assistito a due ore di commedia adolescenziale-dark con ragazzini che vogliono saltarsi addosso ma non lo fanno perché sono inglesi (e per quanto se ne dica, la parte teen comedy è a mio avviso quella meglio riuscita del film: almeno si ride) accomodandoci su una comoda posizione riassumibile così: "quanto mi fa ridere Ron, quanto mi fa sangue Hermione". Emma Watson, finalmente. Nessun disastro, per carità: Yates alza un pochetto il tiro, non si abbassa ai livelli di Columbus. Ma se Cuaron e Newell sono roba che appartiene al passato, e già si sapeva, la maggior parte dei delusi farà prima ad abituarsi: nel gran finale l’andazzo non cambierà.

Avevamo tra le mani una delle saghe produttivamente più interessanti mai viste sullo schermo e dalle potenzialità eclettiche (espresse) infinite. Adesso abbiamo tra le mani un pop-corn movie giusto un po’ più intelligente e sensibile (e notevolmente meglio realizzato, non dimentichiamolo) della media. Farselo andar giù alla fine è solo una semplice questione di adattamento.

Friday Prejudice #180

[crossover, daugh]

Nel nuovo episodio di Friday Prejudice c’è robba, ma anche no.

The young Victoria, Jean-Marc Vallée 2009

The young Victoria
di Jean-Marc Vallée, 2009

E’ senza dubbio interessante vedere come se la possa cavare il regista di un film come C.R.A.Z.Y. con un’opera che non potrebbe sembrare più agli antipodi – almeno all’apparenza, visto che anche qui si parla di famiglie soffocanti. Seppur in un contesto radicalmente differente: quello di un film in costume abbastanza canonico, patrocinato niente meno che da Martin Scorsese e dal Graham King che co-produsse The Departed, e scritto dal Julian Fellowes che qualche anno fa massacrò La fiera delle vanità di Thackeray.

Per contrastare una sceneggiatura che, come si poteva prevedere, ha la mano un po’ pesante, Vallée sceglie di adottare una messa in scena che rispetta le aspettative del cinema in costume (lasciando per esempio molto spazio e gioco libero alle belle scenografie oppure ai costumi di Sandy Powell, già Oscar per Shakespeare in love e The aviator) in modo talmente pedissequo che, quando torna in campo, la mera presenza della sua regia acquista un valore maggiore – come nell’intelligente montaggio parallelo della "istruzione" di Albert all’inizio del film, o quell’improvviso "volo" di Victoria al centro della stanza da ballo.

In ogni caso, si può dire senza troppe paure che The young Victoria è un film in cui l’apparato produttivo ha una rilevanza maggiore di quello registico. Questo non significa però che il film non sia venuto bene, anzi: la scelta di affrontare questo determinato periodo della vita e di privilegiare il racconto romanzato dell’origine dell’immortale storia d’amore tra Victoria e Albert e i condizionamenti che hanno prima ostacolato e poi favorito il loro matrimonio più che sul contesto storico-politico, è una scelta che ripaga con la moneta della leggerezza – a patto di accettare che si tratta, appunto, più di un feuilleton sulla nascita di un’amore che di un romanzo storico sulla generi dell’Era Vittoriana.

Ma qualunque cosa scriva su questo film dovrebbe tenere conto della presenza, meravigliosamente ingombrante, di Emily Blunt – giovane attrice inglese verso la quale non ho mai nascosto di avere un certo debole, per il suo innato talento e per la sua stupefacente anche se inusuale fotogenia. In questo caso, la sua performance è mirata soprattutto alla professionalità e alla credibilità di un personaggio a rischio di noiosa agiografia: esperimento comunque riuscito. Ed è davvero un piacere sentirla recitare in inglese britannico, una volta tanto.

Il film è uscito nel Regno Unito lo scorso marzo ed è già disponibile in DVD.

In the loop, Armando Iannucci 2009

In the loop
di Armando Iannucci, 2009

Fatti che è utile conoscere del film: primo, Iannucci non è italiano ma scozzese (anche se suo padre era un pizzaiolo napoletano). Secondo, In the loop è tratto da una serie tv della BBC del 2005 intitolata The thick of it – considerata la versione contemporanea dello storico Yes Minister e una sorta di rovescio satirico della medaglia rispetto allo statunitense West Wing – con personaggi simili e con il ritorno di parte del cast (non c’è Chris Langham che nel frattempo si è fatto 6 mesi al gabbio per pedofilia).

Ma l’origine dichiaratamente televisiva dell’operazione non compromette affatto le sue qualità cinematografiche: per capirci, In the loop è un film che dovrete vedere una seconda volta perché la prima volta eravate troppo occupati a pisciarvi sotto dal ridere per riuscire a capire che diavolo stesse succedendo e per capire metà dei fittissimi dialoghi – almeno nella prima parte, prima che le cose si facciano più serie e il film di Iannucci diventi anche, sempre nel contesto satirico, una cosa piuttosto seria. Dopotutto la grande lezione di molta tv britannica di oggi è la capacità di affiancare la trivialità all’intensità emotiva con una naturalezza che i colleghi d’oltreoceano si sognano.

Insomma, per una volta non è un caso né un abbaglio se la stampa di mezzo mondo si è strappata i capelli: quello di Iannucci è un film diretto con intelligenza e padronanza dei mezzi e dei linguaggi (creando una sorta di interessante ibrido tra il rispetto della narrazione canonica cinematografica e la mobilità mockumentaria simil-reportage figlia di serie come The office) e scritto con acume davvero straordinario, un film sottilmente crudele e perfido fino alla fine, dotato (se non si fosse capito) di decine di dialoghi da incorniciare e, non ultimo, di uno dei cast migliori degli ultimi tempi. Anche senza scomodare lo spassoso cameo di Steve Coogan.

Peter Capaldi, che ha una faccia da civil servant mai vista e che infatti interpreta un ruolo non del tutto dissimile anche nella sublime terza stagione di Torchwood, grazie a queste due stoccate è diventato al volo, nel giro di una settimana, uno dei miei attori preferiti.


Il DVD inglese esce il 24 agosto, nel frattempo potete preordinarlo qui.


Grazie infinite a TBFKAO per avermi spinto a guardarlo.

Lesbian Vampire Killers, Phil Claydon 2009

Lesbian Vampire Killers
di Phil Claydon, 2009

Inanzitutto vorrei spezzare una lancia per il fiuto produttivo di Phil Claydon e soci: tirare fuori un film con un titolo del genere garantisce quasi automaticamente l’interesse di una larga fascia di cultori del cinema di genere. Insomma, con un lancio simile, il film diventa quasi un accessorio.

Infatti Lesbian vampire killers, che è una specie di via di mezzo tra l’ennesimo sfruttamento della moda lanciata da Edgar Wright con Shaun of the dead (la parte iniziale e la coppia di protagonisti fanno quasi pensare a un rip-off malriuscito) e tra quello che parrebbe un ben più sentito omaggio agli horror della Hammer (in particolar modo a Vampiri amanti di Roy Ward Baker, alla Karnstein Trilogy e a tutto ciò che ha le sue radici da Carmilla di Sheridan Le Fanu), in realtà è davvero una sciocchezzuola di poco conto girata con due sterle nel bosco dietro casa con quattro fighe a fare tappezzeria.

Però non è nemmeno nulla di particolarmente fastidioso – tranne quando esagera con la postproduzione infilando ralenti e accelerazioni qua e là un po’ a casaccio: allora lì sì, che diventa fastidioso. Ma nemmeno eccessivamente spassoso, ecco: probabilmente è il segno che la cosiddetta "horcom" britannica sta tirando gli ultimi sospiri, ma quattro risate le strappa. Se nella categoria si è fatto di meglio, si è fatto anche di peggio: se ci si tura il naso per un cast improbabile, ci si può anche divertire.

Il film ha comunque un pregio indiscutibile che nel suo campo è davvero impagabile: è brevissimo.

Adventureland, Greg Mottola 2009

Adventureland
di Greg Mottola, 2009

Ci vuole un bel coraggio, a fare un film come Adventureland dopo un film come Superbad, per fare un film così intimo e personale dopo aver diretto una delle perle del dominio produttivo e semantico del metodo Judd Apatow sulla commedia americana. Si parla ancora di formazione, di scelte, di amicizia, di malinconia per la fine dell’adolescenza: ma questa volta Mottola, anche sceneggiatore sulla base evidente di memorie autobiografiche, riesce a (e ha il coraggio di) mettere da parte l’intero impianto triviale e post-demenziale per raccontare unicamente la sua storia, con una delicatezza inaspettata e a tratti davvero emozionante.

Che storia è, quella di Adventureland? Perché è piaciuto tanto a così tante persone? Perché la storia che racconta, quella di un ragazzo che impara a misurare la distanza tra i propri sogni e la realtà, tra le aspettative degli altri, la spietata casualità della sorte e la presa di coscienza sul proprio destino, è una storia che molti di noi hanno vissuto, e che tutti noi conosciamo. E il momento in cui impariamo (oppure non impariamo più) a bilanciare i fatti della vita, ad accorgersi che oltre alla nostra vita sentimentale che va inevitabilmente a rotoli ci sono gli amici che non hai saputo ascoltare, ci sono le cose che non hai saputo vedere, ci sono le bottiglie di whisky nascoste sotto il sedile della macchina. E il periodo nella vita in cui facciamo le cazzate più assurde, gli errori più inetti e sciocchi – quelli che, ci giuriamo in lacrime, non ripeteremo più. Mai più. Perché abbiamo imparato la lezione.

E ci vuole un bel coraggio, inoltre, o forse solo un gran talento e una notevole sensibilità, per fare un film ambientato nel 1987 che non sembra il solito film sugli anni ’80 ma che semmai sembra un film degli anni ’80, forse perché fatto da uno che di quegli anni ha un ricordo completamente individuale, soggettivo ma non meno suggestivo – un ricordo che non vedeva l’ora di condividere con noi. Il ricordo indelebile della paura di rimanere intrappolati dentro Rock me Amadeus e su una giostra di provincia, e il ricordo altrettanto indelebile di un atto di coraggio, di una fuga necessaria. Scappare a costo di rischiare, di lasciare tutto alle spalle.

Un film piccolo e onesto che parla di noi con la profondità e la semplicità di un classico.

St. Trinian’s, Oliver Parker e Barbaby Thompson 2007

St. Trinian’s
di Oliver Parker e Barnaby Thompson, 2007

Sempre nel limitato contesto dei miei personali giudizi e dei miei metri di giudizio, mi fido già abbastanza del mio istinto e del mio intuito. Ma forse dovrei farlo con più costanza: come avevo già scritto su Friday Prejudice, mi è capitato diversi mesi fa di abbandonare St. Trinian’s dopo un terzo della sua durata, sconfortato dall’infima qualità del film in questione. L’uscita italiana mi ha fornito la scusante per riprenderlo in mano, illuso che la bruttura del film fosse causata da qualcosa che avevo mangiato.

Ma avrei dovuto, appunto, consultarmi prima. Il film diretto da Parker e dal produttore Thompson è infatti brutto come me lo ricordavo, se non di più. Quel che fa ancora più male è che St. Trinian’s è tutt’altro che un progetto fallimentare: ci sono di mezzo l’omaggio a un cinema britannico per ragazzi che non c’è più, un cast davvero interessante, una secchiata di ragazze in divisa, Rupert Everett vestito da donna che flirta con Colin Firth.

Ma il risultato è una poverata completamente priva di senso e, quel che è peggio, priva di qualsiasi ombra o accenno di ritmo e mordente, che non graffia (e va bé) ma che nemmeno diverte, una fuffona noiosissima piena di ammiccamenti alle sottoculture fatti da persone che hanno cercato "emo" su wikipedia e di becerissime citazioni cinematografiche – e con ben DUE gag in cui un cagnolino di nome Mr. Darcy si aggrappa arrapato alla gamba di Colin Firth. Quel che è troppo, è troppo.

D’altro canto però sembrano divertirti tutti moltissimo: infatti St. Trinian’s provoca lo stesso imbarazzo di quelle barzellette per cui ride solo quello che le racconta. Che sono ancora peggio di quelle che non fanno ridere nessuno.

La sequenza del makeover di Talulah Riley è, nella sua bieca e canonica inevitabilità, l’unico motivo lontanamente valido per pupparsi tutta intera questa robaccia.

Friday Prejudice #179

[ok ragazze, parliamone]

Guarda un po’, il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Una notte con Beth Cooper, Chris Columbus 2009

Una notte con Beth Cooper (I love you, Beth Cooper)
di Chris Columbus, 2009

Se in teoria (ma solo in teoria) dovrei aver di meglio da fare che andare a vedere un film come Una notte con Beth Cooper, come mi hanno fatto notare, in pratica ho certamente di meglio da fare che scriverne un post lungo più di uno sbadiglio. Permettetemi dunque di essere il più breve possibile. Non ci riuscirò.

Il fatto è che non so quanto del disastro di questo orribile filmetto, pietra tombale sulla carriera di un noto mestierante del cinema per famiglie, sia attribuibile al film in sé, soltanto una scemata da due soldi che cerca di monetizzare fuori tempo massimo sul trend della "rivincita dei nerd" e sull’astro nascente e già calante di Hayden Comodino Panettiere ma con uno script che sembra scritto da un algoritmo ubriaco, e quanto al trattamento che ne è stato fatto in sede di adattamento e doppiaggio italiano.

La solita solfa: primo, le battute sono probabilmente tradotte da persone che non capivano quelle originali e quindi ogni tanto ci sono persone che dicono cose che non hanno alcun significato logico. E no, non fa ridere. Nota: io ho riso due volte in tutto il film, se volete vi dico dove così non avete più ragioni per vederlo. Secondo, il film è stato doppiato dai reclusi di un manicomio criminale. Leggi: malissimo. Sul serio: la professoressa, che grazie al cielo recita solo nei primi 10 minuti, ma fa in tempo a renderli piacevoli come le unghie di Krueger sulla lavagna, è doppiata con un’inflessione che ricorda la cessa di Beautiful (non chiedetemi come si chiama: è la cessa, ci siamo capiti).

Ma in realtà il film è assolutamente orèndo anche senza bisogno del magico intervento della Gloriosa Famigghia dei Doppiatori Vanto della Nazione Tutta. E il problema si riduce ai due protagonisti: se la Panettiere per carità ce la mette tutta (si sarà anche rotta le palle di fare sempre e solo la cheerleader) ed è anche una bella strapponcina, Paul Rust è davvero impresentabile – anche perché è un 28enne che intepreta un 17enne come solo un 28enne può fare. Leggi: malissimo. Volendo salvare qualcosa, salveremmo la stralunata e popputa Lauren Storm. Se potessimo sapere cosa diavolo diceva in lingua originale.

Quando l’eterogeneo gruppo di studenti arriva nel capanno fuori città, prima che mettano in bocca alla Panettiere la cosa più cretina che si possa dire di fronte a un’alba, l’amica Daniela accanto a me fa: "dai che adesso arriva Jason Voorhees e fa un bel massacro". Oh, ci stava tutto. Le regole erano rispettate. Invece, scusate lo spoiler, non muore proprio nessuno. Purtroppo.

Friday Prejudice #178

[meglio tardi che mai]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online, er, da qualche giorno.

Sunshine cleaning, Christine Jeffs 2008

Sunshine cleaning
di Christine Jeffs, 2008


(ieri si parlava di "Sundance movie". ovviamente può avere anche accezioni positive. come in questo caso.)

Rose e Norah sono due sorelle circa-trentenni, orfane di madre fin da bambine: la prima era una cheerleader ma è finita a fare le pulizie e a fare la ragazza-madre e l’amante di un poliziotto sposato, il quaterback con cui usciva ai tempi del liceo. La seconda è meno intraprendente, più disillusa, e vive ancora con il padre. Un giorno scoprono che fare le pulizie sui "luoghi del delitto" (le "crime scene") è un settore molto redditizio.

Quella che sembra la premessa per una black comedy semi-demenziale e comunque conciliante oppure per una serie tv della HBO (e non credo sia un’idea da scartare) diventa in realtà una piccola, intima, onesta e riuscitissima "dramedy", una commedia drammatica sugli equilibri e i disequilibri tra due sorelle e, come terzo vertice del triangolo familiare, il fantasma di una madre che "si sta perdendo il meglio" – ben realizzata e scritta con disarmante delicatezza, che sfrutta al meglio il talento delle due attrici protagoniste.

Che, non è certo una sorpresa, sono bravissime, perfette. Amy Adams regge alla perfezione anche il lato più drammatico del suo ruolo – dopotutto ha degli occhi che sembrano stati creati apposta per piangere sullo schermo. Personalmente però ho una preferenza per Emily Blunt, stupenda attrice britannica spesso "prestata" al cinema americano, che nella scena in cui si appende sotto ai binari del treno fa venire davvero i brividi. Bello anche il personaggio, secondario e silenzioso, del commesso di detergenti con un braccio solo ossessionato dal modellismo e interpretato da Clifton Collins Jr.

La soffocata ma sentita commozione del film (alcune sequenze in particolare, come quella della telefonata davanti al televisore) fa perdonare qualche ingenuità, il solito bambino che è intelligente ma a scuola pensano sia ritardato, e il fatto che si sia messo ancora una volta Alan Arkin a fare il ruolo del nonno burbero ma simpatico.

Ovunque nel tempo, Jeannot Szwarc 1980

Ovunque nel tempo (Somewhere in time)
di Jeannot Szwarc, 1980

Qualche giorno fa, qualcuno mi ha nominato Jane Seymour e nel mio cervello si è accesa una lampadina: quand’ero piccolo (circa 15 anni fa, forse di più)  mi ero perdutamente innamorato di lei dopo aver visto un suo film, cercato per molti anni (altri tempi: non si scaricava, non si comprava online) ma mai più rivisto da allora.

Ci è voluto poco per ricordarsi di che film si trattasse, e poco più per recuperarlo. Szwarc è uno che tra due carriere di capace regista televisivo ha infilato, in quel decennio, una sfilza di robe innominabili tanto quanto il suo cognome – anche se Supergirl, nella sua inenarrabile bruttezza, rimane nel mio cuore. Mi ricordavo poi che c’era in ballo il viaggio nel tempo, argomento che mi ha sempre affascinato fin dalla più tenera età – quello che non sapevo è che l’autore del libro e di soggetto e sceneggiatura fosse Richard Matheson.

Il film è una bizzarria naif praticamente inconcepibile a trent’anni di distanza – un viaggio nel tempo innescato dall’auto-ipnosi? – ma che conserva grazie alla sua patina polverosa, alla performance vegetale di Christopher Reeve, ai buchi di sceneggiatura, a una parte finale che sembra troncata a metà con una chiusa new age da linciaggio, al suo romanticismo eccessivo, qualcosa di estremamente affascinante. In fondo è un film del tutto fuori dal tempo, e per un film così può essere persino un complimento.
 
Se volete procurarvelo, su Play.com c’è e costa poco.

The Go-Getter, Martin Hynes 2007

The Go-Getter
di Martin Hynes, 2007

Se The go-getter fosse più conosciuto dalle nostre parti (mentre invece non ha visto una distribuzione, ma nemmeno in home video, e nemmeno con il cannocchiale) risolverebbe l’annoso problema di dover spiegare a chi non ne ha mai visto uno, che cosa sia un "Sundance movie" – sorta di non-categoria particolarmente in voga nel cinema indipendente americano degli ultimi anni – soprattutto nella sua accezione più negativa.

Infatti il film di Hynes, sua opera seconda, la prima a raggiungere un pubblico di una qualche rilevanza, le ha proprio tutte. Prima di tutto, è stato al Sundance – anche se è meno essenziale di quanto si pensi, aiuta. Inoltre: è un racconto di formazione "on the road" in cui un personaggio perfetto per l’identificazione immediata di fronte una generazione un tantinello frustrata incontra persone buffe e curiose e gli succedono cose buffe e curiose in seguito a un trauma drammatico, è montato e fotografato in modo molto "arty" (camera a macchina, tagli di inquadratura sbiechi, violazioni dei canoni, fotografia piena di sovraesposizioni e controluce, eccetera), è un film "tanto triste ma tanto tenero", ha una colonna sonora curata da un guru dell’indie rock (M.Ward, socio musicale di Zooey Deschanel, che comunque fa un lavorone: la soundtrack è ottima). Potrei andare avanti molto, ma ci siamo capiti.

Mi riesce davvero difficile trovarlo brutto e antipatico fino in fondo, non solo perché è un film con Zooey Deschanel (peraltro nella versione più pucci che possiate immaginare), ma anche perché in fondo qualche cosa abbastanza vera sulla perdita e sulla riscoperta di sé la sa raccontare. Ma si perde presto via in una messa in scena fasulla e spudoratamente autocompiaciuta, nell’autogiustificazione un po’ ipocrita dell’autobiografismo e della messa a nudo di sé (come se bastasse), e in un modo di raccontare che, se pure si adatta bene con la sua linearità senza scossoni alla vacuità di certo cinema indie (anche di successo), mostra in fretta la corda.

In fondo quello che è il suo carattere narrativo principale diventa, per estensione, una metafora del suo più grande difetto: è un film sulla strada in cui la strada è fatta a cerchio. Un film sul viaggio in cui non si va da nessuna parte. In tutti i sensi.