ottobre 2009

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Friday Prejudice #192

[donnole nude]

E il nuovo episodio di Perjantai Prejudice.

Orphan, Jaume Collet-Serra 2009

Orphan
di Jaume Collet-Serra, 2009

Sono molti gli elementi che danno una scossa a Orphan permettendogli di rendersi interessante (e non certo un horroraccio da due soldi), ma il primo è probabilmente la presenza scenica di Isabelle Fuhrman. Questo film sarà pure una spassosa sciocchezza, ma io di dodicenni che recitano così, e così bene, ne ho viste davvero poche. Il film passa e va, la Fuhrman resta. L’altro lato della medaglia è la coppia di "adulti" protagonisti, Vera Farmiga e Peter Sarsgaard, che sono veri attori, recitano, funzionano: la cosa fa la differenza più di quanto si possa immaginare.

C’è altro, in realtà: anche se, come capita spesso ai thriller che giocano molto su un twist narrativo così forte, gran parte del minutaggio è palesemente preparatorio e ciò che più caratterizza il film è la parte finale. Ma se Orphan riesce, con una perfetta sequenza-climax in montaggio parallelo, a imboccarci una svolta narrativa così sensazionale e bislacca senza farci dire bif, facendola seguire da una escalation di violenza che lascia a bocca aperta, gli facciamo passare qualche inconsistenza e lungaggine. Anche perché in tutta la lunga fase che porta a quel punto cruciale, Collet-Serra lavora benino sulla decostruzione del nucleo famigliare, centellinando inquietudini e dubbi anche piuttosto disturbanti (soprattutto sul malcapitato padre adottivo) – non andando molto in là, è vero, ma non è per forza un difetto.

Devo ammetterlo, nonostante non sia uno dei titoli migliori in una stagione davvero fortunatissima per il genere, mi sono divertito. E mica poco. Quanto basta. No, un po’ di più.

Parnassus, Terry Gilliam 2009

Parnassus (The imaginarium of Doctor Parnassus)
di Terry Gilliam, 2009

Mi sono reso conto che ci sono cose che concedo volentieri a Terry Gilliam e che non concederei quasi a nessun altro: la magia di Parnassus risiede forse proprio nel suo essere un film scombinato e scombiccherato? E inoltre, è un film sfortunato, mutilato, infine miracolato. L’artificio grazie al quale Gilliam ha risolto il dilemma della dipartita di Heath Ledger rivoltando la sceneggiatura e facendo ripartire da zero persino assunti di base del suo immaginario è geniale, ma non toglie che nel film, in ogni sua inquadratura, si senta il peso di un’assenza. Che non è soltanto quella dell’attore australiano, ma quella del film che era – come se dentro al corpo ciancicato di questo Parnassus si muovesse il fantasma di un Parnassus che non vedremo mai.

Per il resto, Parnassus è davvero il primo vero erede diretto di Le avventure del barone di Münchausen (con Christopher Plummer dove c’era John Neville e la splendida, ammaliante Lily Cole dove c’era una giovanissima Sarah Polley) ed è quanto di più lontano possa esserci dall’appeal commerciale di un Tim Burton ed è destinato, con il suo ritmo scivoloso e squilibrato, a fare arrabbiare il pubblico "medio" in caccia di volti da star – mentre sembra nato per fare la gioia di chi segue Gilliam da una vita: ci ritroverà quella stessa apparentemente ingenua e amabile spavalderia nel cantare le lodi della narrazione e nell’elogiare il potere dell’immaginazione, oltre che l’inimitabile modo in cui il regista ha sempre giocato con i piani del racconto, tra sonno e veglia, tra realtà e finzione, tra i baracconi di cartone di cui è fatto il mondo e la pulsione e il desiderio di cui sono fatti i sogni.

Il nastro bianco, Michael Haneke 2009

Il nastro bianco (Das weisse Band – Eine deutsche Kindergeschichte)
di Michael Haneke, 2009

Una delle prima cose che ho pensato dopo Il nastro bianco è stata che di rado di recente mi è capitato di vedere una tale incondizionata dedizione al contesto: il paradosso dell’ultimo film del grande regista austriaco è proprio la frustrazione della sua natura lineare di mystery tale, la negazione di una progressione risolutiva – nonostante il film inizi proprio con un mistero da decrittare. Infatti, tale enigma rimarrà per sempre irrisolto. O meglio, lo sarà ai personaggi, non allo spettatore, omnisciente suo malgrado: Il nastro bianco è un film che fa prima di tutto entrare lo spettatore all’interno della narrazione, rendendolo parte dell’intreccio proprio perché unico (o quasi) possibile testimone della Verità.

Da qui la dedizione al contesto: anche perché la soluzione dell’enigma non esiste, perché è sotto gli occhi di tutti. Troppo orribile, vero, ma soprattutto inconsciamente impossibile da ammettere: farlo vorrebbe dire di fatto arrendersi alle proprie disperate mostruose responsabilità, di fronte ai propri figli e al futuro del paese stesso – e il fatto che i personaggi la ignorino, anzi, non la prendano in considerazione fino all’epifania di una "anima pura" (a suo modo purificata dal sentimento in un mondo che sembra aver applicato un principio di repressione in cui la parte più scoperta del gioco è la soggezione dell’universo femminile) non fa che aumentare l’angoscia dello spettatore. Sono procedimenti che Haneke ben conosce e che applica sempre con grande mestria: Il nastro bianco è un film che, con il magnifico bianco e nero di Christian Berger, sembra ricercare il distacco più totale, ma che finisce per diventare, a suo modo, quasi un ossimorico film interattivo.

L’orrore che il paese e il suo affresco nasconde può essere svelato infatti solo da ne chi conosce il seguito: perché se Il nastro bianco è un film sulle radici più cupe della cultura tedesca del novecento, una "nascita della nazione" profondamente perturbante non solo se si pensa all’annuncio che chiude il racconto ma a quel che accadrà dopo, quello costruito da Haneke è più generalmente uno sguardo sui germogli di tutto il secolo breve nell’intero continente, un film su un Novecento le cui pagine sono scritte con il sangue e le cui parole recitano discriminazione, sopraffazione, punizione. La responsabilità, come al solito, sta nei semi di menzogna, castrazione e violenza lasciati dai padri: e il futuro, anche il nostro, nello sguardo dato a un passato così lontano e a ciò a cui gli anni a venire avrebbero assistito, non potrebbe essere più nero.

Ma Il nastro bianco non è soltanto questo: la dedizione al contesto di cui si diceva non è soltanto tematica ma anche figurativa – un livello, questo, su cui il film di Haneke si pone invece più semplicemente tra i risultati più alti delle ultime stagioni cinematografiche. Non soltanto la già citata stupefacente fotografia, ma tutta una messa in scena, sintetica, algida e crudele, che porta con sé l’esperienza del cinema di Haneke (per esempio sull’uso significativo dei piani lunghi, o del fuoricampo) cristallizzandola nella forma più lucida e perfetta.

Friday Prejudice #191

[il blog che voleva ingannare il mondo]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online.

World’s greatest dad, Bobcat Goldthwait 2009

World’s Greatest Dad
di Bobcat Goldthwait, 2009

Non l’abbiamo sempre detestato, Robin Williams. Anzi. Ma è innegabile che negli ultimi anni, e parecchi, non abbia avuto un buon fiuto per i film. E sì che, di film, ne fa ancora. Ci voleva un regista con una grande sensibilità per tirare fuori la sua anima? A quanto pare, sì. La cosa buffa è che a dirigere World’s greatest dad – che, a dispetto dell’impressione mediocre che può fare a un’eccessiva distanza, è una commedia americana d’autore tra le più dure, amare, inflessibili e irresistibili degli ultimi tempi – c’è un ex stand up comedian e regista di talk show televisivi, ma conosciuto dalla massa perlopiù come "quello che urla" nella saga di Scuola di polizia.

Con queste premesse, mi rendo conto, è dura farvi credere nella forza tematica ed espressiva del film, il quarto diretto da Goldthwait: ma la sua stessa sceneggiatura, per nulla raffazzonata ma che fa sfoggio di un uso sempre preciso dei suoi elementi, è uno di quei rari script che sa andare davvero fino in fondo per consegnare il suo messaggio – e in questo caso, per tratteggiare un impietoso affresco umano e disumano che sembra uscito davvero da un film di Todd Solondz. Usando come rafforzativo il linguaggio del grottesco, prendendo contrasti conosciuti e facendoli esplodere senza alcun compromesso né narrativo né linguistico (e ve ne accorgerete fin dai primi minuti), in un crescendo geniale di disperata ironia nera che sembra sempre rispettare le regole mentre le fa a pezzi – fino a finale tra i più liberatori che si possano immaginare per una vicenda simile. Della quale non vi dico nulla: questo è un film che si apprezza ancora di più a mente vergine.

E in tutto questo c’è una prova d’attore assolutamente geniale e illuminante, controllata eppure carnale, lucida ma furiosa, quella di Robin Williams. E questo è un paragrafo con cui non mi sarei mai sognato di chiudere un post.

Away we go, Sam Mendes 2009

Away we go
di Sam Mendes, 2009

Anche in Away we go, come in Revolutionary road, c’è una coppia che sente la necessità di sfuggire all’ipocrisia della società, cercando un posto nuovo, una casa, dove poter vivere compiutamente, e a modo loro, la loro vita e i loro sogni. Ma se la prospettiva finale è del tutto diversa lo si deve probabilmente all’incontro con Dave Eggers e la moglie Vendela Vida, sceneggiatori di questo suo quinto, bellissimo, film.

Fa tanto piacere quanto impressione vedere come Sam Mendes sia diventato un regista maturo e compiuto, persino nell’affrontare un film che va incontro a tutti i rischi e i fastidi del cinema indipendente americano, evitandoli puntualmente ma con il coraggio di non aggirarli semplicemente – prima di tutto grazie alla scrittura intelligente, acuta e puntuale di Eggers, empatica e commovente quando è il caso, sprezzante e catartica quando serve. Ma anche alla messa in scena di Mendes che con l’aiuto eccellente della fotografa Ellen Kuras riesce a non farsi soffocare dalla giustapposizione costruendo, proprio intorno alla sequenza di città in cui sono ambientati capitoli, degli autentici veri nuclei tematici, narrativi ma anche visivi, donando al film un’andatura stralunata e sognante, inusuale e malinconica, che si abbina perfettamente alle note nickdrakeiane di Alexi Murdoch.

Ma soprattutto, sospetto, tutto funziona alla perfezione grazie ai due bellissimi personaggi principali. Non soltanto alla coppia di ottimi attori che li interpretano (John Krasinski e Maya Rudolph, entrambi noti volti televisivi) ma proprio al ruolo che Burt e Verona sembrano rivestire – quello dell’ultimo avamposto possibile di un romanticismo immediato ma profondo che sceglie di non chinare la testa di fronte alle convenzioni e alle aspettative degli altri, né a chi nasconde dietro a menzogne e pallidi cliché il proprio insanabile dolore o, peggio ancora, la propria ignoranza. Un amore che, una volta tanto, non si fa sconfiggere dalla banalità del mondo.

Il film uscirà in Italia distribuito da Bim. Per ora non c’è una data ufficiale.
L’edizione dvd americana invece è uscita a fine settembre

Diverso da chi?, Umberto Carteni 2009

Diverso da chi?
di Umberto Carteni, 2009

Quando uscì questo film, la scorsa primavera, ricordo che fu accompagnato da uno strascico di polemiche, la maggior parte delle quali ho volutamente rimosso. La polemica l’avrei fatta io su chi raccontò l’ultima mezz’ora di film nell’occhiello o addirittura nel titolo, il resto mi interessa già meno. Se non come contesto: che è, italianamente, uno di quelli in cui ognuno vede ciò che vuole vedere. Se il film è palesemente schierato (la macchietta del sindaco forzista che non fa altro che inaugurare tutte le settimane lo stesso muro non è proprio sottilissima ma è azzeccata) allo stesso tempo punzecchia il lato democratico facendo leva sulle inconciliabilità interne al partito – fornendo poi una soluzione utopica che, visti i tempi che corrono, fa sorridere metà bocca.

Detto questo, e tolte di mezzo le questioni che riguardano il punto d’osservazione da cui viene guardata la diversità, non soltanto come tema politico (a mio avviso, in modo sufficientemente corretto ed equilibrato. Lascio poi a osservatori più specifici ed esperti il compito di smontarla, a posteriori), del film rimane poco da dire – ma forse qui sta la parte più interessante: in Diverso da chi? ho visto soprattutto un film di invidiabile leggerezza, con un cast adeguato e divertente (la Gerini pecca per overacting mentre Filippo Nigro si fa perdonare molte cose: ma i migliori sono Catania e Pannofino) e la scrittura ormai oliata ed esperta (pure troppo?) di Fabio Bonifacci, che non sfigura troppo nello scaffale della commedia all’italiana più recente, accanto all’ultimo Virzì o al Pellegrini di E allora mambo. Che infatti fu l’illuminante (e mai più superato) esordio di Bonifacci, e nella soluzione finale si vede eccome.

Non saprei che aggiungere: il fatto che certi argomenti, soprattutto in periodi cupi e grami, meritino anche trattamenti più seri e considerati, beh, forse è innegabile. Così come, a mio parere, c’è posto per una prospettiva come quella – un po’ paracula? O forse, semplicemente, più naif? – offerta dal gradevole esordio di Carteni.

Old school, Todd Phillips 2003

Old school
di Todd Phillips, 2003

Se c’è una cosa per cui è curioso recuperare Old school, secondo film di fiction dopo Road trip del regista destinato a diventare uno dei personaggi di spicco della bromedy, chiamiamola così, reponsabile di un orrore come Starsky e Hutch ma anche di un vero caso come quello di The hangover, è vedere come se la cavavano ai tempi i suoi tre protagonisti. Nel lontano duemilatré.

Luke Wilson prima che ributtasse nel semi-anonimato le promesse dei primi film di Wes Anderson, Will Ferrell prima che con Anchorman creasse un suo proprio linguaggio rimanendone però intrappolato nel giro di pochi anni, e Vince Vaughn prima di essere divorato da Jennifer Aniston e dai film natalizi. E non si può dire che i tre non siano affiatati, né tantomeno che manchino le situazioni divertenti (leggi: Will Ferrell), anche se a volte si pesta un po’ troppo sul pedale (leggi: la lezione di fellatio).

Poca roba: Old school, film di enorme successo negli states (molto meno da noi) è un film simpatico ma di scarsa sostanza, un’altra frat comedy goliardica e divertita con eterni bamboccioni impossibilitati a crescere e/o che si rifiutano di crescere (anche se si gradisce assai che venga data loro anche l’opzione di non crescere affatto), con il vantaggio del distacco malinconico e che anticipava qualcosa del regno di Judd Apatow negli anni a seguire, ma che vista ora risulta abbastanza inconcludente. Sarà la distanza?

Friday Prejudice #190

[su!]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Up, Pete Docter 2009

Up
di Pete Docter (e Bob Peterson), 2009

Togliamoci subito la terra dalle scarpe: si pensava che Up potesse essere uno di quei film "di passaggio" che la Pixar, sempre e comunque ineccepibile, ha prodotto accanto ai suoi più grandi capolavori. I film che erano "solo bellissimi". Che potesse essere insomma un altro Nemo o un altro Cars. Difficile non pensarlo dopo una cosa universale, allucinante, come WALL-E. La risposta è negativa: Up va immediatamente a porsi nell’Olimpo dei loro lavori migliori, e di conseguenza tra i più grandi film d’animazione del decennio.

La cosa più sorprendente non è tanto che i film della Pixar siano tutti a questi livelli, inimmaginabili per quasi tutte le imprese "rivali" – tra l’altro l’impressione che Up dà, mai come prima, è di una definitiva dimestichezza con gli elementi, tale che il film stesso sembra dipanarsi da sé senza fare alcuno sforzo – ma quanto ogni film Pixar esprima una sua identità, una personalità e assoluta – e l’individualità creativa data ai loro registi ne è insieme il sintomo e la riprova: è più incredibile pensare che gli ultimi tre film siano dei capolavori oppure che siano stati così differenti? Quindi, cosa fa grande anche questo film? Dovremmo andare avanti per giorni e giorni: proviamo a ridurre a una coppia gli elementi fondanti della Pixar. Due fattori che, in questo film, per quanto sia sciocco il confronto con i precedenti, sono a mio avviso persino più acuiti che in passato.

Il primo elemento è la scrittura: Up è prima di tutto un film con una sceneggiatura di acciaio – classica, d’accordo, e con un rapporto ben definito con la tradizione del cinema d’animazione (l’intera questione dei "cani parlanti" è una rivisitazione dell’antropomorfismo disneyano nell’era pixariana: a livello di progetto è la cosa più geniale del film, a livello di risultati è anche la più divertente) ma in cui ogni singolo elemento fa il gioco delle narrazione. E in cui nulla, nella densità, viene lasciato al caso, nemmeno il dettaglio apparentemente meno significativo, dal personaggio di contorno fino al minuscolo feticcio di turno – di cui questo film peraltro è pieno, anche perché il percorso narrativo del protagonista stesso non è che uno scarto da una condizione feticista a una condizione umanista, in un certo senso.

Ma il secondo elemento è quello più importante: il cuore. Sembrerà una constatazione ingenua e cheesy, ma Up (per quanto sia estremamente stratificato, rigonfio di riferimenti che vanno dal Mago di Oz, a Magritte, a King Kong, oltre che un film tecnicamente spaventoso: ma qui ci vorrebbe un post a parte) è anche meraviglia allo stato puro, è tutto nell’immagine della nebbia che si dirada proiettando negli occhi di Carl i colori e i rumori delle cascate sognate per tutta una vita – oltre che il film più spudoratamente e spregiudicatamente emotivo della Pixar.

Se le sequenze più movimentate del film sono assolutamente esemplari, a colpire il cuore sono già i primi 10 o 15 minuti del film – una sorpresa assoluta per chi era cascato nel tranello dei trailer. Un lungo incipit in cui Docter applica ancora una volta alla perfezione il più grande talento dimostrato dalla sua "industria", rendendolo ancora più esplicito e intenso: quello di raccontare, in questo caso grazie a un pugno di scene e di dissolvenze, un’intera vita, tutta una lunghissima vita, senza bisogno di dire una parola. Soltanto attraverso gesti, sguardi, musica, ciò che vediamo nelle nuvole, i nostri sacrifici, i nostri sogni.

Up è un film che fa piangere per la verità, e poi fa di nuovo piangere per la meraviglia, e poi di nuovo piangere per la felicità. E pensare che erano, soltanto, cartoni animati. Scoiattolo!

The september issue, RJ Cutler 2009

The September Issue
di RJ Cutler, 2009

È abbastanza chiaro quale sia il selling point, o forse persino il motivo di esistere, di un documentario sul famigerato "numero di settembre" di Vogue, e suona più o meno così: avete visto Il diavolo veste Prada? Sapete già che Miranda Priestly è ispirata ad Anna Wintour? Bene. A questo punto vedetevi direttamente come lavora Anna Wintour. Ah!, come è stronza e insopportabile. Ma poi, ah!, come è saggia e preparata. E poi alla fine, ah!, lo fa per il tuo bene.

Visto quanto sarebbe facile rendere interessante e stimolante una figura come quella della Wintour, è particolarmente curioso vedere quanto il documentario di Cutler riesca a rendere il tutto il meno interessante e stimolante possibile. Infatti giunti a un certo punto, abbastanza presto, The september issue non sa più dove andare a parare, si impantana in uno stallo pauroso da cui riesce a uscire solo trasformandosi a posteriori in un film su Grace Coddington, la mostruosa assistente ex-modella ex-sfregiata della Wintour – vale a dire, l’unico personaggio vagamente umano che siano riusciti a trovare nella noiosissima redazione di Vogue e nel mondo che gira intorno a quei bianchi corridoi.

Chi non è, di partenza, interessato all’argomento può stare tranquillamente alla larga. Ma il sospetto, non tanto vago*, è che lo stesso valga anche per fan e appassionati.

*vedi il post di Black Hair.

Il film non ha ancora una data di uscita italiana, ma non escludo che accada. Nel frattempo, si può acquistare il dvd britannico a un costo decoroso.

Motel Woodstock, Ang Lee 2009

Motel Woodstock
(Taking Woodstock)

di Ang Lee, 2009

A volte annuncio che sarò breve e poi non lo sono. Stavolta lo sarò. Guardate quanto è corto questo paragrafo, guardate.

Mi sembra evidente, circa, che questa per Ang Lee sia una pausa per respirare. E allora, dico io, lasciamolo respirare. Lasciamogli fare un filmetto leggero in cui prende una istituzione pesante come un pilone, fa come per sbatterci contro – e poi invece si mette lì accanto e parla di tutt’altro, punta tutto su un personaggio e su un volto (lo splendido Demetri Martin, che qui si era addocchiato e apprezzato da un po’) e alla fine parla di cose molto intime ma anche molto note al cinema e agli spettatori, come il contrasto ineliminabile tra il desiderio di fuga e il legame con le proprie radici.

Woodstock? Chi se ne frega. Woodstock sta bene dove sta, dietro la palizzata.

Ho letto da molte parti, sui media d’oltreoceano, di gente imbufalita perché il concerto di Woodstock non si vede, perché Ang Lee frustra le attese degli spettatori. Ma questo è il cardine del film, dannazione, palese ed esplicito, c’è pure un personaggio che si mette lì e lo dice chiaro e tondo – il concentrarsi sulla cosa personale mentre intorno accade la Storia, in modo che il cinema in definitiva ci riesca a parlare dell’una – ma pure dell’altra, state tranquilli. Pure dell’altra. Anzi. Ecco.

Tutto sommato non è niente di che, me ne rendo conto. Ma non è nemmeno un film così sciocco, impersonale, banale, come fa di tutto per sembrare dal di fuori. Tutto sommato, ci sta.

Trick ‘r Treat, Michael Dougherty 2008

Trick ‘r Treat
di Michael Dougherty, 2008

E adesso come faccio a convincervi che un film horror a episodi diretto da un regista alla sua prima prova dietro la macchina da presa è davvero bello? Devo esagerare? Devo dirvi che è una figata? Perché lo è.

Davvero, il primo film di Dougherty, recuperato sull’onda dell’entusiasmo espresso da Nanni sui 400 Calci e visto senza troppe aspettative, o almeno con quelle che si possono dedicare a un horror a episodi con un bambino-zucca sulla locandina, il film (che nonostante il plauso del pubblico dei festival ha avuto qualche difficoltà distributiva nel corso degli ultimi due anni, finendo infine direttamente sugli scaffali delle videoteche statunitensi senza passare dalle sale) è stato una sorpresa davvero esaltante.

Non tanto perché ci sono degli attori veri (l’eccellente caratterista solondziano Dylan Baker, il Tahmoh Penikett di Dollhouse e BSG, Brian Cox, Anna Paquin vestita da Cappuccetto Rosso ma anche la giovanissima e inquietante esordiente Samm Todd) o perché ci sono tot bambini che fanno una fine orribile o che la causano a loro simili – che sono buone ragioni, si capisce – ma soprattutto perché Trick ‘r Treat trasuda da ogni inquadratura una gran passione per il cinema di genere.

Dougherty insomma ce la mette tutta per divertire il pubblico, sia con i mezzi più convenzionali nel cinema del terrore (ma senza mai lontanamente sfiorare sensazioni di ridicolo: semmai con un’invidiabile ironia), sia con una struttura a incastro che trasforma il carattere episodico del film in una specie di burla orrorifica corale e circolare, che con la sua narrazione giocosa sposta l’interesse dallo spavento in sé alla sua, quasi sempre impeccabile, esecuzione.

Il film è uscito direttamente in DVD negli Stati Uniti qualche giorno fa. Ma se avete pazienza, anche l’edizione britannica arriva su Play.com tra un paio di settimane, costa pochi euro e li vale tutti.

Land of the lost, Brad Silberling 2009

Land of the lost
di Brad Silberling, 2009

Se ogni cosa, anche la più bella, è davvero destinata a finire, questo è decisamente il momento in cui finisce la nostra simpatia incondizionata, durata qualche anno, per Will Ferrell: se Semi-Pro ci aveva messo sul chi vive, una roba come Land of the lost, davvero, non si può perdonare. E a questo punto a Ferrell conviene seriamente reinventarsi in fretta prima che il suo stile comico, che ha fatto scuola e che nel bene e nel male è già cristallizzato da tempo, gli esploda tra le mani in mille pezzi.

Probabilmente la conoscenza della serie tv da cui il film è tratto potrebbe aiutare a comprendere più a fondo il perché questa immane boiata sia stata realizzata, e il perché sia stata realizzata così, ma forse è solo una cieca illusione e il film è orrendo e basta. L’unico gusto risiederebbe nelle solite gag à la Ferrell, se funzionassero: basate sulla sbruffoneria dei suoi personaggi e su un rilancio continuo che spesso le rende lunghe minuti e minuti, occupano metà secca di un film che è assai sbrigativo quando si viene al dunque – ma anche lì, nella materia che è la specialità dell’attore, a parte qualche momento sparso come la parte della pianta allucinogena e del granchio gigante, c’è poco da ridere.

Peccato che nel baratro del film (anche commerciale: negli states è andato malissimo) siano finiti anche Anna Friel, dolcissima e capace interprete di Pushing Daisies, e Danny McBride, il geniale attore lanciato da Jody Hill e lanciato ormai definitivamente da Ferrell come suo erede. Ma McBride è più giovane, lo si perdona più volentieri, e l’anno prossimo torna a farsi dirigere da un professionista come David Gordon Green e non da un altalenante mestierante come Brad Silberling.

No, davvero, lasciate perdere.

Il film dovrebbe uscire in sala il 12 dicembre 2009: ci sono i dinosauri, chissà, con un titolo imbecille magari dalle nostre parti riescono a farlo funzionare.

Friday Prejudice #189

[barbamamma e barbapapà]

Quatto quatto lemme lemme, il nuovo episodio di Friday Prejudice.

El pube è un pilota: guida non esaustiva alle nuove serie tv, gleek edition

[el pube è un pilota / gleek edition]

(puntuale come un herpes o una cistite, ecco la mia inutile e per nulla esaustiva guida alle nuove, e sottolineo nuove, serie tv anglofone, in questa edizione esclusivamente mmerigane – o meglio, più precisamente, ai pilot che mi sono sbattuto a vedere. bando alle ciance, che è una roba lunga: andiamo a cominciare.)

L’avevo già capito quando era spuntato il pilot in anteprima qualche mese fa, ho aspettato con ansia crescente il ritorno della serie e ho visto confermata la mia prima impressione: ambientata nel “glee club” di un liceo americano, Glee è in assoluto la mia nuova serie preferita della stagione. Creata dal Ryan Murphy di Nip/Tuck e Popular, ha personaggi e intepreti assolutamente irresistibili, una selezione musicale trascinante (god bless Journey), Jane Lynch, risate e lacrime. Una bomba d’ammore.

Invece Flashforward della ABC è probabilmente la serie più pompata dell’anno, sia negli states che da noi (dove è iniziata quasi in contemporanea), ma non per questo meno interessante. Lanciata ovunque come “il nuovo Lost“, al di là delle similarità (in primis la presenza del viaggio nel tempo, anche se qui l’affare è un po’ diverso) è effettivamente una cosa che può esistere solo nel dopo-Lost: costosa, ambiziosissima e davvero spettacolare, ci tempesterà di dubbi per molto tempo, e noi siamo lieti di farci tempestare.

Non so chi di voi abbia mai visto The Soup, ma chi (come me) ne è dipendente è andato in sollucchero quando ha saputo che Joel McHale avrebbe fatto una serie comedy per la NBC. Ambientata in un community college dove il protagonista, un avvocato sbruffone e cazzaro, è costretto a iscriversi perché, ops, hanno scoperto che la sua laurea non era valida. La serie si chiama Community, si è aperta con un episodio spiccatamente ispirato a The breakfast club, e per ora tiene botta in modo eccellente – deriva pucci compresa, se siete del partito. McHale è stupendo, ma il meglio lo danno i personaggi secondari: Chevy Chase sapete tutti chi è, John Oliver viene dal Daily Show, Alison Brie da Mad men, e poi c’è Danny Pudi (Abed) che mi fa semplicemente schiantare. Gillian Jacobs è la Kaley Cuoco del 2009.

Impossibile non citare tra le cose migliori della stagione Hung, anche se la prima stagione è già finita, dopo soli dieci episodi. Da principio la premessa sembra cugina di quella di Glee (anche lui è un ex “jock” di una high school sposato con una ex cheerleader) ma lo svolgimento è del tutto diverso: divorzia, gli va a fuoco la casa, ha due figli obesi, e si rende conto che il suo unico talento è, scusate il giro di parole, avere un cazzone grande così. Una donna conosciuta in un pidocchioso corso per aspiranti milionari lo aiuterà diventando, letteralmente, il suo pappa. Questa è la HBO al suo meglio, non fatevelo scappare.

La HBO offre anche la serie fighetta per eccellenza dell’anno, Bored to death, scritta da Jonathan Ames con Jason Schwartzman nel ruolo di Ames stesso che, dopo essere stato mollato (perché beve troppo vino e si fa troppe canne) mette un annuncio su Craigslist diventando una specie di detective chandleriano. Senza dubbio una delle cose più curiose in circolazione, un prodotto di grande qualità e non meramente quirky, scritto e diretto in grande libertà. Non c’è molto altro da dire, perché dopo 5 minuti capirete l’andazzo, e se vi sta bene avrete di che divertirvi. Sennò lasciate stare. Io mi ci trovo bene.

Un’altra delle sorprese più piacevoli della stagione è Drop dead diva, scartato da Fox e ripreso da Lifetime, una specie di via di mezzo tra Il paradiso può attendere e Ally McBeal. Una modella bella ma vacua e un’avvocatessa intelligente ma sovrappeso e muoiono nello stesso istante, l’anima della prima si reincarna nel corpo della seconda, mantenendone però le capacità intellettuali. Dovrebbe essere lontano dai miei gusti (tolta la cornice soprannaturale, è un legal drama: sai che palle) e invece la guardo ogni settimana con un certo diletto. La protagonista Brooke Elliott è un volto nuovo ma è bravissima: uno di quei rari personaggi a cui ti affezioni. L’assistente è Margaret Cho, ci sono un sacco di guest star, ecco.

Talking about guilty pleasures: un altro è senza dubbio Accidentally on purpose, sit-com multiple-camera (l’unica nuova che sto seguendo, per intenderci, tra “quelle con le risate”) della CBS che parrebbe un rip-off paro paro di Knocked up, tanto più che lui è uguale a Seth Rogen magro, se non fosse per un dettaglio: lei è più vecchia di lui di una quattordicina d’anni o giù di lì. Roba da vergognarsi solo a pronunciarla, e invece per ora mi fa ridere da pazzi e continuo a seguirla. Ve l’ho detto che la protagonista è Jenna Elfman?

Cougar Town (ABC) è un’altra serie la cui protagonista è una cougar: senza alcun dubbio è il leit-movit della stagione televisiva. Questa però è un po’ più ricca, single-camera, con tutte le sue cosine a posto, e la protagonista è la stramaledetta Courtney Cox, uscita per grazia di dio da quello schifo innominabile che faceva l’altra volta. No, non Friends, quell’altro. Il creatore Bill Lawrence invece è il responsabile di due cosette come Spin city e Scrubs (da cui si è trascinato dietro la mitica Christa Miller), non è mica l’ultimo dei pirla: e infatti nonostante io abbia negato e negato, poi ci sono cascato. Con tutte le scarpe.

L’ultimo spin-off di Stargate, uno dei marchi più prolifici della fantascienza televisiva e non solo, si chiama Stargate Universe e dovrebbe rappresentare, se non ho capito male, una “scurizzazione” del franchise dopo la chiusura di Atlantis, forse sull’onda di BSG. Pur non essendo un conoscitore dello stargateverse, ho trovato il pilota di SU davvero bello, anche se non privo di cliché e qualche banalità. Quasi quasi gli sto dietro. Molto onore al protagonista Robert Carlyle: avere un attore vero alla guida non è cosa da poco.

Altro guilty pleasure, a suo modo, è Modern family, sit-com della ABC sulla falsariga di The Office e Parks and recreation su una incasinatissima famiglia: il padre/nonno si è risposato con una colombiana figa (Sofia Vergara, la più divertente della cumpa), e i suoi due figli sono una donna nevrotica con un marito che vuole fare a tutti i costi il “bro” con la prole da una parte, dall’altra un timido gay (Jesse Tyler Ferguson, già miglior elemento del cast del defunto The class) che ha deciso di adottare una bimba vietnamita col compagno. Negli USA sta piacendo moltissimo. Effettivamente è spassoso, quando si impegna.

Veniamo infine alle note dolenti: qualche serie che non ha superato la prova del pilota. The forgotten annega una bella idea (una squadra di volontari che risolve i casi di corpi non identificati: non scoprire chi è l’assassino ma chi era la vittima) in una noia mortale: povero Christian Slater, però che palle. Peggio però si può dire su Eastwick, orrido remake-sequel del film di George Miller con una larghissima Rebecca Romijn nel ruolo (guarda caso) di una cougar. Anche The middle è abbastanza inutile, io l’avevo recuperato solo per la presenza nel cast del Janitor di Scrubs, al momento farei fatica a dirvi di che diavolo parli. Di The good wife ho letto grandi cose: io ho retto 15 minuti. Ma il punto più basso tra le cose che ho visto, non azzardandomi io ad avvicinarmi a Melrose place o a qualunque medical drama, lo raggiungono The vampire diaries (abominevole raschiata sul fondo della moda dei vampiri) e The Beautiful Life TBL che grazie a un dio molto misericordioso è stata trombata dopo soli due episodi. Amen.

Bastardi senza gloria (Inglourious basterds), Quentin Tarantino 2009

Bastardi senza gloria (Inglourious basterds)
di Quentin Tarantino, 2009

A volte mi ci diverto, a scrivere di un film per ultimo. A volte mi fa arrabbiare, perché ho avuto poco tempismo ed è già stato detto tutto. Altre volte, invece, semplicemente mi dimentico. E infine ci sono volte in cui ci penso. E ci ripenso. E ci ripenso. Come questa. Niente, Inglourious basterds ha messo KO la mia capacità di scriverne. Ogni volta che provo ad accennare a un paragrafo mi rendo conto che le parole non trasmettono quello che il film meriterebbe, che non rende l’idea. Forse è un film di cui è più divertente parlare che scrivere.

Dovrei scrivere, di cosa? L’immenso Christoph Waltz, Melanie Laurent che si trucca con David Bowie in sottofondo e abbassa il velo sugli occhi, il primo capitolo che scopre la sintesi perfetta tra Sergio Leone e John Ford, le citazioni di Lubitsch, la sequenza della Louisianne, il gioco delle carte e il mexican standoff, l’iride sulla dinamite nascosta sotto i pantaloni, la faccia di Hitler e le lacrime di Goebbels, il dito nella piaga, "Antonio Margheriti", l’accento impossibile di Brad Pitt, la risata di una Shosanna in bianco e nero proiettata nel fumo delle fiamme tra gli spari come il fantasma di una vendetta horror reso immortale dal cinema stesso, l’incontro finale tra Shosanna e Zoller nella cabina di proiezione tra le note disperate di Morricone e sguardi fatti di sangue, il mio cuore travolto che se ne esce dal petto?

Allora tanto vale stare zitto, come in sala. E tornare a vederlo, un’altra volta.

Comunque sia, se non è il suo capolavoro, come suggerisce il film stesso con un’autoironia sbruffona da applausi a scena aperta (letteralmente: quando vi è capitato, di sentire applaudire così un film fuori da un festival?), beh, se non lo è, poco ci manca.

Link: Honeyboy, Contenebbia, Cinebloggers connection.

*Se dovete ancora vederlo, fatevi il piacere di trovare una sala che lo proietta in lingua originale. Ci sono. Ce ne sono parecchie. Se l’avete visto in italiano, beh, idem.

Assassination of a high school president

Assassination of a high school president
di Brett Simon, 2008

Quanti film si possono girare in cui una detective story viene ambientata in una high school? Nonostante Brick sia soltanto di tre anni prima, il debutto di Brett Simon sembra ignorarne l’esistenza. E dopotutto fa bene, anche perché propone una seconda via, molto differente da quella dell’opera prima di Rian Johnson. Più leggera, inanzitutto: questa è sostanzialmente una commedia, in qualche modo più vicina allo spirito di John Hughes che a quello di Dashiell Hammett.

In ogni caso, se c’è una cosa che il film dimostra è che c’è spazio per tutti, se ci sono le idee: Assassination è un film realizzato con grande cura e senso della misura. Oltre che molto invitante: un curioso e divertente miscuglio di Heathers e Chinatown, ma tutt’altro che goliardico, scritto con grande cura anche se con più attenzione agli ottimi dialoghi che all’intreccio noir vero e proprio (non del tutto imprevedibile) con molti giovani attori pieni di talento (il protagonista Reece Thompson è davvero promettente, Mischa Barton è perfettamente nel ruolo di quella bella e stronza), un Bruce Willis preside che sembra la versione maschile di un personaggio di Jane Lynch, una bellissima fotografia, e soprattutto l’abilità e la sfrontatezza di affrontare di petto, senza troppi ghirigori (anzi con dialoghi che rendono tutto ancora più esplicito), il classismo e il senso di inadeguatezza degli anni del liceo.

Davvero riuscito quindi, oltre che vendibilissimo: non mi sorprende affatto che molti se ne siano innamorati dopo il suo passaggio al Sundance all’inizio del 2008. Purtroppo però la bancarotta dei suoi distributori ne ha impedito l’uscita nelle sale per molti mesi. E dopo un’odissea infinita, il film è uscito direttamente in dvd negli Stati Uniti proprio in questi giorni.

Anvil! The story of Anvil, Sacha Gervasi 2009

Anvil! The story of Anvil
di Sacha Gervasi, 2009

Ammetto che, per la assoluta ignoranza della scena heavy metal anni ’80, a qualche minuto dall’inizio ho dovuto interrompere per controllare che gli Anvil fossero una vera band e che questo fosse un rockumentary e non un mockumentary. Perché il film sembrava quasi una riedizione di This is Spinal Tap (che poi infatti viene citato nell’amplificatore che goes to eleven). E invece è tutto vero. E la cosa più bella è proprio che la storia di Lips e Robbo non ha bisogno dell’intervento finzionale per diventare emozionante.

Anche perché due personaggi così belli (il quieto batterista-filosofo con la passione per la pittura, il cantante appassionato e dal cuore d’oro, e il loro rapporto d’amicizia) non sarebbero mai usciti così bene da una tradizionale sceneggiatura. Né forse il mondo che gira loro intorno, quello delle donne che appoggiano o malsopportano, quello delle grigie case alla periferia di Toronto, delle storie e dei lavori da dropout, di una frustrazione lunga trent’anni per un sogno coltivato una vita intera, l’unica cosa che ti faccia andare avanti, mai davvero avverato – ma sempre con il sorriso, un po’ storto, sulle labbra: non poter mai dire di non averci provato fino in fondo, finché il corpo e la mente reggono, a realizzare i propri sogni.

Significativo che a scrivere e dirigere il documentario sia Gervasi, che (come rivela l’inquadratura finale) ha fatto il roadie con gli Anvil ai tempi della loro massima popolarità: il film sta appiccicato ai suoi protagonisti e li guarda con una passione e un’empatia che soltanto un fan potrebbe mostrare – e la cosa, invece di rendere il film stucchevole, fa di The story of Anvil un’opera appassionante e innegabilmente sorprendente, a suo modo unica. Anche i metallari piangono.


Il film non ha una data d’uscita italiana ma il dvd edizione inglese è disponibile a pochissimi euro.