[eccolo eccolo eccolo eccolo]
Eccolo, il nuovo episodio di Friday Prejudice.
Mettere questa foto sotto quel banner – priceless.
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Beautiful (Areumdabda)
di Jeon Jae-hong, 2008
L’opera prima di Jeon Jae-hong è tratta da un racconto di Kim Ki-duk, che ha contribuito anche alla produzione del film, e non si può dire che non si veda. Quello che sorprende è come, nei risultati, l’allievo sia riuscito ad affiancare il maestro, almeno per quanto riguarda le sue opere più recenti. O persino a superarlo: su temi non del tutto distanti, per esempio, Beautiful è senz’altro più riuscito di Time.
Lo stile di Jeon è però molto più pragmatico rispetto ai toni rarefatti delle ultime opere del regista di Bonghwa, con un’attenzione maggiore nei confronti dell’elemento materiale più che di quello spirituale, e una sorta di strano e crudele realismo fiabesco che sostituisce ai paradossi spaziotemporali quelli narrativi, per il gusto puro del racconto morale.
Nel raccontare la storia di una giovane donna vessata dalla sua stessa bellezza (o meglio, dagli uomini che non riescono a controllarsi in sua presenza), Jeon costruisce infatti un affascinante ribaltamento narrativo, e lo spinge fino in fondo – senza paura di mostrare i lividi, il vomito, il dolore – ricavando una parabola sulla bellezza e sulla sua ricezione senza dubbio universale, ma che contiene anche un retrogusto decisamente amaro di critica sociale sulla repressione sessuale e sulla condizione delle donne nella società coreana.
Difficile dire che sia un’opera del tutto completa, segnata com’è da una certa semplificazione, da una fotografia capace ma che delega il fascino estetico ai volti degli attori, e da un (probabilmente ricercato) didascalismo nel trasmettere il suo messaggio. Ma è anche uno degli esordi più promettenti del cinema asiatico degli ultimi tempi – e sarà meglio tenere d’occhio questo nome, nel futuro.
Stupenda e bravissima la protagonista Cha Soo-yeon.
Il film è stato presentato nella sezione Panorama dell Festival di Berlino 2007. Non è per ora prevista alcuna uscita italiana. Il DVD coreano (Regione 3) si può acquistare qui.
Cadillac Records
di Darnell Martin, 2008
Dopo Walk hard, il film di Jake Kasdan che si prendeva affettuosamente gioco dei luoghi comuni del biopic musicale, guardare un film come questo non sembra più la stessa cosa. Anche perché Cadillac records sembra modellato con quegli stessi stampini: un film che, nel raccontare la storia ventennale della Chess Records, etichetta che lanciò artisti come Muddy Waters, Chuck Berry e Etta James, sceglie sempre e comunque le soluzioni più convenzionali.
A salvare il secondo film della regista 44enne Darnell Martin dal baratro della noia più totale intervengono due fattori. I più ovvi: prima di tutto, le musiche curate da Steve Jordan. In secondo luogo, le performance degli attori, come già era successo con Eddie Murphy in Dreamgirls. Qui si tratta di una cosa abbastanza differente: Cadillac Records è basato su una sceneggiatura originale, non particolarmente brillante, della stessa Martin, non è propriamente un musical, e ha meno intermezzi musicali, ma il film di Bill Condon appare comunque a due anni di distanza come un cugino non troppo lontano, anche solo per alcuni temi affrontati, il sentore di "oscar movie" che aleggia sul film, o per la presenza di Beyoncé Knowles.
Ed è proprio la ex-Destiny’s Child la migliore del gruppo: se la sua devozione è spiegata anche da una partecipazione produttiva, questa nei panni della mitica Etta James è una prova che per lei potrebbe rappresentare un notevole salto di carriera. Dietro lei, i "veri" protagonisti del film (Adrien Brody-Leonard Chess e Jeffrey Wright-Muddy Waters) fanno il loro lavoro, ma la scena la rubano il Eamonn Walker di Oz nel ruolo di Howlin’ Wolf e soprattutto il Chuck Berry figaiolo di Mos Def.
Sostanzialmente, Cadillac Records è un film di cui, se volete, possiamo parlare male per tutto il 2009, e io vi darò corda – ma al quale non posso negare di avere assistito da cima a fondo, inspiegabilmente, senza lamentarmi troppo.
Il film non ha ancora una data d’uscita italiana ma, suppongo, prima o poi spunterà fuori.
Zack and Miri make a porno
di Kevin Smith, 2008
"I’m a guy. You give me a two popsicle sticks and a rubber band and I’ll find a way to fuck it like a filthy MacGyver."
Mi sembra già di leggere le critiche che questo film subirà, se mai riuscirà a trovare un posticino nella sessuofoba distribuzione italiana – o quantomeno un titolo e una traduzione che non ne massacrino la divertità ingenuità: da una parte si spenderanno parole sull’eccesso di volgarità (arrangiatevi), e dall’altra, soprattutto, l’incontrollata deriva sentimentale che caratterizza la seconda parte del film. Ma non vedere tratti profondi di coerenza in questa bizzarra dualità che caratterizza Zack and Miri significa anche fraintendere l’intera opera del regista di Red Bank – che per arrivare a questo risultato ha attraversato anche tentativi sfortunati come Jersey Girl.
Ma se il cinema di Kevin Smith è stato spesso e volentieri attraversato da un romanticismo esasperato oltre che dalla più nota political uncorrectness, allora Zack and Miri è davvero un possibile punto d’arrivo – o di svolta – della sua filmografia. Oltre ad essere scritto con una leggiadria, una ricchezza di dialoghi spassosi e un’autoironia che creano un corto circuito irrestistibile con la "pesantezza" dei corpi e soprattutto delle parole (il porno del titolo è più parlato che mostrato, come previsto) il film è infatti soprattutto una storia d’amore perfettamente inserita nel canone del romance americano degli ultimi 20 anni – quello degli amici che diventano amanti, quello in cui non conta tanto cosa succeda alla fine ma come succeda.
In ogni caso, a Smith è riuscito un piccolo miracolo: rinnegare parzialmente l’universo ristretto per cui i fan lo seguono dai tempi di Clerks (il cosiddetto View Askewniverse: per capirci, siamo in Pennsylvania e non nel New Jersey), prendere uno degli attori più in voga nella commedia americana odierna e seguire solo apparentemente le orme della commedia di Judd Apatow (full frontal maschile incluso), infarcire il tutto di un linguaggio talmente colorito da far impallidire alcune delle sue opere precedenti, e confezionare ugualmente quella che non solo è una commedia tra le più piacevoli di questi ultimi tempi, ma anche un film del tutto smithiano – mostrando un’elasticità e una personalità che in passato erano forse messe in secondo piano rispetto al senso d’appartenenza e di riconoscibilità, malinconico o sarcastico che fosse.
Eccellente e ricchissimo il cast di contorno: spiccano il duetto tra Brandon Routh e Justin Long, e l’ammirevole abnegazione al ruolo di Jason Mewes e Jeff Anderson. Vedere per credere.
The good, the bad, the weird
(Joheunnom nabbeunnom isanghannom)
di Kim Ji-woon, 2008
Il cinema coreano, si dice spesso, non sta attraversando il migliore dei suoi momenti. Ma ancora più della carenza di titoli che raggiungano i livelli di qualche anno fa, colpisce l’assenza di titoli che sappiano "bucare" l’attenzione internazionale attraverso acclamate (o chiacchierate) presenze nei festival o il sempre più dispersivo passaparola nella rete. Il quinto film del quarantaquattrenne regista di Seoul, in uscita in alcuni fortunati mercati europei in questo periodo, è un’eccezione.
Ma fino a un certo punto: vista la spendibilità internazionale di un film simile (anche soltanto perché chiunque conosce il western di Sergio Leone a cui il film di Kim si rifà vagamente, tanto più dopo il revival applicato da Tarantino di Kill Bill vol. 2, rispetto a cui TGTBTW è un po’ fuori tempo massimo) e vista la sua natura di annuale blockbuster sudcoreano (quello che il sublime The host fu per il 2006 e, ahinoi, D-War per il 2007) mi sarei aspettato, come dire, più rumore. Ma alla fine, chi se ne frega: peggio per chi se lo perde, uno dei film più divertenti della stagione e senza dubbio uno dei migliori western, sui generis, degli ultimi anni.
Infatti, nonostante qualche problema spiccato ed evidente – la durata prima di tutto, e taccio su tutto il resto perché preferisco concentrarmi su ciò che funziona – TGTBTW è uno spettacolo esaltante e spassoso, l’esempio che in Corea del Sud c’è ancora gente capace di fare cinema di puro intrattenimento senza far svaccare il tutto in puttanate cheap e modaiole. Certo, Kim Ji-woon abbassa notevolmente le sue ambizioni rispetto ai suoi bellissimi film appena precedenti, rinunciando a parte del suo fiammeggiante stile e lavorando più sul carisma degli attori: se su Song Kang-ho è inutile spendere altre parole di lode, la caratterizzazione più micidiale è quella dello spietato killer emo-punk con il volto della superstar Lee Byung-hun.
Ma anche se l’intensità di Memories e A tale of two sisters, e anche del troppo spesso sottovalutato A bittersweet life, sono distanti, non si pensi a un film sciacquato né tantomeno pigramente addormentato sulla scia del tarantismo più bieco: la messa in scena è ancora qualcosa di assolutamente straordinario, e se il ritmo si perde via nelle sequenze di raccordo, quelle più movimentate – oltre che ovviamente interminabili: si chiude definitivamente il cerchio tra lo spaghetti western e il cinema d’azione asiatico – sono quasi impensabili per la ricchezza e la cura delle inquadrature e dei movimenti di macchina, in una mescolanza irrefrenabile di grottesca esagerazione barocca e di rigorosa precisione che, davvero, non ha eguali al mondo. Figuriamoci nel western.
[tre cose]
1. Oggi è il compleanno di questo blog. Sono cinque anni. Cinque. CINQUE.
2. Oggi inizia la quarta annata solare di Friday Prejudice, cliccando qui.
3. Oggi, mi dicono, inizia pure il duemilanove. Auguri.
Ember – Il mistero della città di luce (City of Ember)
di Gil Kenan, 2008
Non ero partito con le migliori intenzioni, lo ammetto – ma meglio per me. Anzi, meglio per Gil Kenan, che nella devastante mediocrità dell’infornata natalizia di quest’anno è apparso nelle sale italiane con questo piccolo film fantasy che non si situa però sui varcati territori di C.S.Lewis e Tolkien, ma appartiene più propriamente al mondo grottesco di registi come Terry Gilliam e Tim Burton – più il primo, a dire il vero.
Certo, l’armamentario post-apocalittico sfoggiato dal capacissimo regista di Monster house, dal direttore della fotografia Xavier Pérez Grobet, e soprattutto dal reparto tecnico (all’interno di uno spettacolare e claustrofobico set ricreato interamente nella zona portuale di Belfast), non ha nulla di innovativo né particolarmente originale – e il film si inserisce immediatamente nel filone dei prodotti pronti per i pomeriggi delle festività televisive nel giro di una manciata di anni.
Però, l’impegno per fare un cinema d’avventura per tutta la famiglia ma che mantenga un livello decoroso di dignità intellettuale si vede – per esempio nella sequenza da brividi della "assegnazione" – e ripaga. Almeno, quanto basta.