2009

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9, Shane Acker 2009

9
di Shane Acker, 2009

C’era una grande attesa intorno al film tratto dal cortometraggio di Acker di qualche anno fa: un lavoro tanto bello da impressionare un maestro come Tim Burton e da convincerlo a produrne una versione per le sale. Ma è anche giusto, una volta tanto, che le aspettative vengano ridimensionate pesantemente dai risultati: per quanto sia impossibile dire che 9 è un brutto film, lo è anche negare che sia una sostanziale delusione.

Tutto ciò che è rimasto di stupefacente nel film di Acker, tutto sommato, sta a livello di progetto e spesso era già presente nel corto, anche se è senza alcun dubbio affascinante l’idea animista alla base del film, quella di una Terra post-apocalittica dove il lascito dell’umanità è affidato a nove pupazzi cuciti a mano. Il talento del regista è innegabile, ma non lo chiamerei autenticamente visionario:  in ogni caso, non abbastanza per far suo un film lungo poco più di un’ora e un quarto.

Se 9 colpisce da un punto di vista delle singole invenzioni visive, anche quando sono derivative (come le spettacolari macchine che ricordano quelle dei Terminator e dei Matrix) o stranianti (come l’estetica tutta sovietica dei flashback), è l’insieme a non funzionare, prima di tutto da un punto di vista prettamente estetico – e questo è il dato più dolente: il film non è certo noioso o spiacevole a vedersi, ma è anche piatto e inerme. Poi, per quanto riguarda la narrazione in sé, l’attenzione è invece tutta concentrata su un’azione inaspettatamente roboante, che ne fa un film più semplicemente rumoroso e meno filosofico di quanto ci si aspettasse.

Forse per un film così ambizioso trenta milioni di budget sono pochetti? Né la presenza di un mucchio di star nel cast di doppiatori né le musiche elfmaniane di Danny Elfman riescono a togliere dal film una patina videogiocosa da platform per la playstation che lascia davvero freddi. Insomma, tutto bene, ma per essere un film sull’immortalità dell’anima, di anima ne ha ben poca.

Il film non ha ancora una data d’uscita italiana. Ipotesi: lo faranno uscire, ma solo di pomeriggio, spacciandolo per un film per bambini. Non lo è.

Thirst, Park Chan-wook 2009

Thirst (Bakjwi)
di Park Chan-wook, 2009

Chi segue questo blog da qualche anno sa che Park Chan-wook è sempre stato uno dei suoi beniamini. Soprattutto per via del lungo periodo in cui, da queste parti come su altri blog a tema, il cinema asiatico ha avuto un posto di riguardo, una poltrona d’onore. Un film di Park Chan-wook, in particolare, ha ancora più significato, perché fu sostanzialmente Oldboy il film che fece da collante per eccellenza di questa rete vitale di blog, a cui orgogliosamente appartenevo, così come Lady Vendetta ne fu forse il culmine insuperato.

Ora le cose sono cambiate, così come è cambiato il cinema di Park Chan-wook, e come probabilmente è cambiato anche il mio approccio – soprattutto dopo un film bellissimo ma sinceramente transitorio come I’m a cyborg. Ma non pensiate che questa sia una stroncatura, né tantomeno una promozione a metà: Thirst è davvero un grandissimo film, un’opera insieme intima e magniloquente, un film che riesce a fa ruotare un triangolo noir sul perno del cinema horror intorno a temi portanti dell’immaginario cattolico ma il cui cuore fondamentale è una storia d’amore disperata, dolorosa, inevitabile e crudele. Tuttavia, nelle sue pieghe più nascoste, Thirst è difficilmente qualcosa cui si possa parlare con serietà e coscienza dopo una sola visione: è un film che mette alla prova, ogni istante, i suoi spettatori.

Ma grande lo è sin dall’approccio più superficiale, dalla prima impressione estetica e plastica, comunque un elemento portante nel cinema barocco e formalista (nel senso migliore, e non esclusivo, del termine) di Park. Indiscutibilmente: ma ovviamente c’è ben altro. Quello che muta profondamente rispetto al passato, semmai, è una posizione di maggior distanza dalle convenzioni che gli consentivano di mantenersi sui binari di una sostanziale riconoscibilità (e che spiegano il successo dei suoi film più celebri anche tra platee poco avvezze alle "bizzarrie" del cinema coreano): rispetto a una filmografia che già li faceva a brandelli con martelli e lame affilate, Thirst va decisamente oltre. Risultando in assoluto il film più libero e più scevro da condizionamenti di qualunque tipo che il regista coreano abbia mai girato.

Paradossale che questo possa accadere proprio su una base narrativa tra le più convenzionali della storia del cinema, quella del film di vampiri: ma fa parte del gioco, volutamente complicato e ridondante, di uno dei pochi registi al mondo che sia capace di ribaltare con questo coraggio i canoni e le regole del gioco stesso. In un certo senso, il film è come l’inquadratura conclusiva di Lady Vendetta, in cui l’intenso climax drammatico del finale era spezzato da un elemento quasi slapstick: l’inchiostro più semplice con cui Park firma questa dichiarazione sono gli accostamenti tra elementi apparentemente incompatibili oppure tra stili differenti, restituendo allo spettatore un senso di confusione sensoriale, di grande straniamento.

E forse, va detto, anche di eccessivo distacco: Thirst, per le suddette ragioni, non possiede certo l’immediato appeal dei film precedenti – ma badate bene, stiamo sempre discutendo all’interno di un contesto, quello della sua filmografia, di totale estranietà e straordinarietà rispetto al cinema contemporaneo. E non si esclude che per relativizzare a questo modo la sua inferiorità stia intervenendo un forte carattere emotivo, l’amore incondizionato per la cosiddetta trilogia della vendetta, per ciò che ha rappresentato.

Se fossi una persona più coscienziosa e saggia forse urlerei immediatamente al capolavoro, a un altro capolavoro. Non lo sono. Ma ehi, posso sempre diventarlo.

Il film non ha una data di distribuzione italiana. Uscirà mai in sala? Io dico di no. Nel frattempo il dvd statunitense (Regione 1) è già uscito.

Accident, Soi Cheang 2009

Accident (Yi ngoi)
di Soi Cheang (Cheang Pou-Soi), 2009

Si sente molto l’impronta produttiva di Johnnie To e della sua Milkyway in questo nuovo film del regista di Dog bite dog: Accident è un film costruito soprattutto su lunghe attese e su silenzi, con una coerenza indefessa nel perseguire il suo scopo (fino a diventare quasi un film muto) che trasforma una parabola determinista in una estremizzazione del punto di vista unico che ha le sue radici forse anche nel thriller d’autore americano (per esempio De Palma). Ma non si ceda alla tentazione di considerarlo nemmeno un mero thriller originale con (inevitabile) sorpresa finale.

Senza il pericolo di una sovraintepretazione, perché la metafora è alla portata di chiunque sia abbastanza attento da coglierla, Accident è indubbiamente un lavoro autoriflessivo: la squadra di killer che organizza omicidi che sembrano incidenti lavora esattamente come una troupe cinematografica in cerca della scena perfetta (o meglio, del piano-sequenza perfetto) guidati da un vero e proprio regista. Quello che accade in seguito (e che non rivelo) non fa che confermare l’ipotesi di un film, non solo sulla forza prorompente del caso, ma anche sul cinema e le sue allucinazioni. Sul suo più grande inganno: che la costruzione della realtà sia equivalente alla realtà stessa.

Dopo una serie di prove fortunate alternate a errori di percorso, Cheang si conferma con questo film uno dei registi più lucidi e virtuosi dell’ex colonia britannica, capace di costruire alcune tra le sequenze più belle e complesse del cinema hongkonghese recente, anche se non eguaglia la perfezione del maestro To e risulta fin troppo glaciale se confrontato con i suoi lavori precedenti. Se alcuni hanno infatti indicato Accident come il suo lavoro migliore, continuo a preferirgli lo spudorato e romantico squilibrio di Love battlefield.

In ogni caso, un ottimo film, da recuperare a ogni costo.



Il film è stato presentato in Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Non è ancora prevista una data d’uscita italiana: la mia ipotesi è che uscirà in DVD. Se avete fretta, su YesAsia si può acquistare il dvd hongkonghese (Regione 3) a una manciata di euro.

Friday Prejudice #195

[letteralmente]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Zombieland, Ruben Fleischer 2009

Zombieland
di Ruben Fleischer, 2009

Pur mostrandomi convenientemente gasato a priori, era difficile investire incontrastata fiducia in un progetto come Zombieland: un po’ perché Fleischer è un esordiente e i due sceneggiatori hanno un curriculum difficilmente verificabile, un po’ perché la horcom sembrava aver esaurito tutto quello che aveva da dire dopo essersi moltiplicata in un numero di epigoni di Shaun of the dead. E anche perché la stagione per il genere horror e le sue contaminazioni sembrava già troppo positiva.

E invece Zombieland finisce lassù, in cima alla lista. Lo riconosco, che a volte sembro entusiasta e poi in realtà si tratta di un dato relativo: difficile quantificarlo in senso oggettivo, l’entusiasmo. Stavolta però si fa sul serio: Zombieland è davvero uno dei film più divertenti, scatenati ed esaltanti dell’anno. Una "commedia on the road con gli zombi" ambientata in un’America abbandonata e dominata dai morti viventi, i cui relitti sono osservati con cinico distacco e dove l’ultimo dei sopravvissuti è colui per il quale un contagio globale non faceva poi questa gran differenza. Un film scritto e interpretato talmente bene da riuscire persino a mettere gli zombi in secondo piano. Tanto che a un certo punto quasi non servono più.

Tutt’altro che una robetta scema e vacua, insomma. Se Rhett Reese e Paul Wernick mostrano una consapevolezza impressionante delle regole (appunto) del gioco e ne fanno buon uso per compiacere il nerd e il cinefilo infarcendo il film di trovate, Ruben Fleischer stupisce con una messa in scena immediatamente esplosiva – i primi 5 minuti del film sono tra i migliori incipit dell’anno, se non il migliore. Il cast non potrebbe essere meglio assortito, soprattutto l’improbabile buddy relashionship tra Jesse Eisenberg e Woody Harrelson, ma anche Emma Stone (già addocchiata in Superbad e The house bunny) è adorabile. Mentre è proprio geniale la trovata delle sovraimpressioni tridimensionali: non soltanto un gioco ma un vero "svelamento" dei meccanismi narrativi e degli innesti della sceneggiatura.

E come se tutto questo non bastasse, c’è tutta la lunga sequenza ambientata nella villa di un certo attore: assolutamente sublime.

Il film uscirà in Italia, pare, nel maggio 2010 con il titolo Benvenuti a Zombieland. Alla faccia del tempismo.

Gli abbracci spezzati, Pedro Almodóvar 2009

Gli abbracci spezzati (Los abrazos rotos)
di Pedro Almodóvar, 2009

Se il cinema di Almodóvar ha preso sempre più una piega definitivamente cinefila, di questo percorso Los abrazos rotos è probabilmente il punto di arrivo e il culmine: la mescolanza di noir e melodramma pesca sia dalla tradizione americana che da quella europea, ma questa volta si scoprono davvero quasi tutte le carte: quando in un film un personaggio si avvicina a uno scaffale pieno di dvd e comincia a elencarne i titoli è chiaro dove si voglia andare a parare.

Ma l’ultimo lavoro del regista spagnolo non è soltanto straboccante e strabordante di citazioni, spudoratamente compiaciuto nell’omaggiare il suo cinema del cuore (da Sirk a Malle a Visconti) e il suo stesso cinema (la riproposizione finale del metodo-Almodóvar anni ’80), ma è anche un’opera splendida a vedersi grazie alla fotografia satura e precisa (di Rodrigo Prieto, che viene da Inarritu) e soprattutto un film complesso e stratificato su una magnifica ossessione. Duplice: quella per una donna e quella per un film, per cui i nuclei narrativi come il triangolo amoroso e tematici come la scopofilia (una delle citazioni più palesi è quella di Peeping Tom, capolavoro di Michael Powell), rimandano sempre e comunque a un fattore comune: l’eterno abbraccio tra la vita e l’immagine, unite e insieme spezzate dalla lama bidimensionale di uno schermo.

Forse l’intenzione di girare la sua confessione definitiva di fronte all’altare del cinema, di "girare il suo 8 e mezzo" insomma (non a caso il film è presente nello scaffale di cui sopra) fallisce sotto il peso di una sceneggiatura che sa lavorare alla perfezione su stilemi dei generi ma che giunti alla resa dei conti non evita di dilungarsi in didascalie che parlano sicuramente meno di uno sguardo di Penélope Cruz. Ciò nonostante, è proprio in quest’abbraccio non più filtrato tra il regista e la sua arte che ritroviamo il miglior Almodóvar, ne riscopriamo la passionalità – e, qua e là, persino il genio.

Friday Prejudice #194

[awww]

Toh, c’è il nuovo episodio di Friday Prejudice. Almeno è breve.

Nemico pubblico, Michael Mann 2009

Nemico pubblico (Public enemies)
di Michael Mann, 2009

Come sia andata, nel rapporto tra me e questo film, è cosa assai curiosa: mentre "manniani" ben più convinti di me hanno aspettato questo film come l’avvento di un messia per mesi per poi dirsi, almeno nella metà dei casi per quanto riguarda le mie conoscenze, sostianzialmente delusi di fronte al fatto compiuto, complice la freddezza della critica americana ho aspettato questo film con la certezza che non mi sarebbe piaciuto.Quando mi sono deciso ad affontarlo, l’ho fatto quasi con aggressività. Vieni e colpisci, Michael Mann. Non mi fai paura.

E non si può dire che Mann non ci abbia messo del suo, per non farsi piacere: perché la prima metà secca del film, dopo l’ottima partenza (anche se lontana millenni luce dall’incipit di Miami Vice), è un’esperienza piuttosto frustrante. Nei primi 70 minuti, tutto quel che ha da dire e da mostrare, il regista lo mette soltanto in ciò che lo interessa di più, da spudorato romantico qual è, ovvero nel rapporto amoroso, dichiaratamente distruttivo, utopico e fallimentare e proprio per questo incredibilmente struggente, tra il John Dillinger di Johnny Depp e la Billie Frechette di Marion Cotillard. E ancora di più, la dialettica tra John Dillinger e Melvin Purvis: che semplicemente, non esiste. Ed ancora presto per accorgersi che forse è semplicemente irrilevante.

Poi il film prende un’altra piega – prima di tutto inserendo una sequenza assolutamente fenomenale e rivelatrice come quella dei "due Dillinger" nella sala cinematografica (ben prima che il cinema finisca al centro di un’altra delle sequenze-cardine del film), e diventando poi tutto ciò che non era riuscito a essere fino ad allora, con un’accelerazione cupa e violenta che non lascia tregua fino ai due finali – uno che si confà ai toni più canonici dell’epopea gangster, l’altro disperato e struggente come l’ultima delle lacrime. E’ davvero un grande film, la seconda metà di Public enemies: persino l’arrancante fotografia digitale, che nelle scene dialogate e nelle più assolate sequenze della prima parte sembrava ingiustificata quando non irritante, crea finalmente il ricercato contrasto con la patina della ricostruzione storica – dopotutto, il set decoration è l’ultimissimo problema di Mann: dopo la Los Angeles di Collateral e la Miami di Miami Vice, Public Enemies è un film disperatamente antropocentrico. Un film in cui persino i grandangoli vengono usati per i primissimi piani, un film che si poteva girare anche in un teatro di posa vuoto.

E nonostante il crescendo d’azione e le sparatorie gli consentano, come già nei film immediatamente precedenti, di lavorare sul montaggio sfruttando proprio il digitale in modo furioso, e sulla costruzione dei corpi nello spazio in modo davvero sublime, la messa a fuoco di Public enemies rimane la stessa della prima metà, ben precisa – la speranza che John Dillinger ha visto negli occhi e nella bocca di una donna con cui ha scelto di danzare, di fare l’amore, e infine di provarci. Lo si vede dall’attenzione che Mann dedica a scene come quella, magistrale, dell’arresto di Billie, della rabbia soffocata di Dillinger che arretra e si allontana in lacrime. Da lì in poi, in mente c’è solo un destino macchiato di sangue, che è come la foto mancante sulla bacheca dell’ufficio dei federali, spiata dal punto di vista di un fantasma innamorato che si prepara a morire sul serio.

Moon, Duncan Jones 2009

Moon
di Duncan Jones, 2009

Presentato all’ultimo festival di Sundance e poi accolto in USA e UK con unanime entusiasmo, il primo lungometraggio diretto da Duncan Jones è davvero una bella sorpresa – forse, dandogli tempo, una di quelle che lasciano il segno: Jones si dimostra fin da principio un regista e soggettista abile e sensibile, ma il fatto che più sconcerta è come questo suo esordio vada in una direzione differente rispetto a quella che siamo abituati a vedere nelle opere prime – più cupa e "sottrattiva": una scelta impeccabile, per quello che vuole ottenere.

Infatti Moon è costato "soltanto" 5 milioni di dollari, eppure è anche uno dei film di fantascienza più rigorosi e profondi degli ultimi tempi: forse perché Jones ha il coraggio di non chinare la testa di fronte ai classici, di genere e non solo, ispirandosi addirittura con sfrontatezza a modelli "alti" come Solaris e 2001: Odissea nello spazio (il computer di bordo GERTY rappresenta una curiosa variazione sul tema di HAL) restituendo al grande schermo un’idea di fantascienza filosofica e metafisica che era andata perduta – il tutto con pochissimi elementi (un solo attore, ovviamente enorme, un set claustrofobico, un conto alla rovescia, una paura, una rivelazione, l’impulso alla libertà) che permettono di andare a fondo in una riflessione decadente e malinconica sull’uomo e la sua identità. Senza rinunciare all’impatto visivo, ovviamente, e soprattutto a una notevole ricerca, fin nel dettaglio, sull’armamentario futuribile – di cui il film fa sfoggio senza un briciolo di spocchia.

Difficile dire granché senza rivelare dettagli della trama: fatto sta che Moon riesce da solo a dare una boccata d’aria a un genere forse soffocato da un decennio di sensazionalismi, e che l’opera prima di questo 38enne inglese – che per un caso non tanto fortuito è pure il figlio di Ziggy Stardust – sembra già quella di un autore affermato, con una sua mitologia e, parrebbe, una sua ben definita impronta personale.

L’universo narrativo dovrebbe secondo le intenzioni di Jones dare vita a una trilogia*: speriamo, e confidiamo, che gli episodi successivi mantengano anche solo la metà di ciò che Moon promette.

Nei cinema dal 4 dicembre 2009

Il dvd britannico esce il 16 novembre e si può già acquistare.



*per quanto fonti riportino questa informazione, è in realtà improbabile che una trilogia si completi in questi anni: i prossimi progetti da regista di Duncan Jones dovrebbero infatti essere altri due film. Il primo è Source Code, scritto da Ben Ripley con Jake Gyllenhaal su un soldato che prima di un’esplosione si ritrova nel corpo di un’altra persona, e prima ancora Mute, un progetto più piccolo, un noir fantascientifico ambientato nella Germania del 2046.

Una notte da leoni, Todd Philips 2009

Una notte da leoni (The hangover)
di Todd Philips, 2009

Non ci sarebbe molto da dire su questo film, amatissimo dalla critica in patria e dagli amanti della commedia americana, che non si possa riassumere nella frase tanto sciocco quanto divertente. Insomma, se Cose molto cattive di Peter Berg aveva il coraggio di andare più in là su un canovaccio analogo mentre Philips si ferma alla divertita goliardia, e se il film non è proprio un gioiello di comicità raffinata (spesso è episodico e, come spesso accade, gioca molto su personaggi di secondo piano scelti dalla pletora di comici della nuova comicità USA: qui Ken Jeong e Rob Riggle), nonostante ciò The hangover è veramente uno dei film più spassosi dell’anno. Tutto lì, alla fine: ma volendo dire altro?

I punti di forza del film, che gli permettono di smarcarsi dagli ormai risaputi meccanismi della bromedy, misoginia scalpitante inclusa, sono fondamentalmente due. E il primo è ovviamente la struttura, che ha l’idea brillante di togliere del tutto dalla scena un elemento che chiunque si giocherebbe come cardine, cancellarlo e sostituirlo con tutta una specie di detection story e basando quindi l’intero film su un vero e proprio buco nero narrativo (che permette di giocare anche con aspettative e i meccanismi di sceneggiatura: la verità sul pollo?) per poi rivomitare il tutto fuori fuori alla fine, nei titoli di coda, quando si pensava che "la verità", tra virgolette, non sarebbe mai arrivata. Il risultato a quel punto è un’esplosione decisamente esilarante: ma non c’è dubbio, Philips e soci hanno scelto la strada più lunga, tortuosa e difficile. Onore a loro, visto che sono stati ben ripagati: scendendo a patti con il proprio cervello, ci si diverte davvero come pazzi. Tutto lì, alla fine: volevate di più?

Il "di più" è il secondo punto di forza, in realtà ancora più rilevante: ovvero il personaggio di Alan. Il vero elemento di rottura del film, una forza anarchica e devastante, a cui non sono solo affidate tutte le battute migliori ma che riesce tra le pieghe di frasi non dette ad aprire scenari quasi disturbanti – anche, perché no, en passant, sul contesto sociale in cui è inserito il film. Per lui e per Zach Galifianakis, scusatemi tanto, non ho parole se non di entusiasmo.

500 giorni insieme, Marc Webb 2009

500 giorni insieme (500 days of Summer)
di Marc Webb, 2009

Per un motivo o per l’altro, il lungometraggio d’esordio di Marc Webb, presentato al Sundance lo scorso inverno e poi a Locarno in estate, è divenuto uno dei casi dell’anno – anche per via del collegamento inevitabile tra il film e il suo target o pubblico di riferimento: può essere preso sul serio, si sono chiesti in molti, un film in cui l’incontro fatale tra i due protagonisti avviene grazie a una canzone degli Smiths, con tutto quello che gli Smiths rappresentano? Oppure, se esiste una linea del paraculo, questa è stata bellamente superata?

Sono la persona sbagliata a cui porre questa domanda: io avevo già preso sul serio Garden State, che innescava una storia d’amore in modo analogo ma con un pezzo degli Shins. E aggiungo due considerazioni: la prima, che essere paraculo non è un difetto di per sé, se poi viene fuori un bel film. E che una colonna sonora bella (o bellissima, come nel caso di questo film) non ha mai fatto male a nessuno. Comunque, tutte le considerazioni in merito si possono/potevano fare, e sono state fatte, anche a priori, ben prima di vedere il film. Una volta chiuso il capitolo, lo possiamo vedere, questo benedetto film?

Detto, fatto: e la verità è che forse è stata fatica sprecata: 500 days of Summer è una commedia romantica, punto. Divertente, e perfettamente inserito nel suo contesto, il film di Webb è in realtà molto più disilluso e cinico e molto meno pucci di quanto dia l’impressione: ma niente di rivoluzionario come, allo stesso tempo, niente per cui imbestialirsi – se si esclude la performance stralunata di Zooey Deschanel: e lì, va da sé, è solo questione di gusti. In un esordio, quanto si poteva chiedere di può rispetto a un film così ben scritto e così ben girato, anche se con le sue diaboliche tentazioni? Mi riferisco alla complessa struttura a incastro da primo della classe e a qualche derivetta da videoclip: ma se la prima è funzionale allo smarrimento amoroso del protagonista, anche le seconde (come il musical o la stilizzazione grafica) sono gestite con buon talento visivo.

Poi, le ambizioni si fermano a un certo punto, che a mio avviso è anche il punto giusto, è il punto che riesce a mantenere l’equilibrio tra la leggerezza del film e la sua "riconoscibilità", più generazionale che universale – anche se qua e là Webb prova e talvolta riesce anche a infilarci qualcosa di più: come la geniale e ultra-citata sequenza in split-screen su "aspettativa e realtà" che, toh, guarda caso, si applica così bene anche al film stesso. Una buona commedia romantica (o anti-romantica, fate voi) è merce rara, di questi tempi. Una di quelle che chiede tanto così, ma che stavolta restituisce qualcosa di più. Quanto basta? Quanto basta.

Nell’edizione italiana Summer si chiama Sole, e vabbè: ma per chiunque abbia visto il film o sappia di cosa diavolo parli, il titolo italiano è davvero un EPIC FAIL.

Nei cinema dal 27 novembre 2008

The house of the devil, Ti West 2009

The house of the devil
di Ti West, 2009

Quando un film prende esplicitamente la strada dell’omaggio cinefilo, è inevitabile che si passi attraverso una fase in cui ci si domanda come e quanto il film riesca a riprodurre o a far riaffiorare lo spirito di un determinato tipo di cinema. Dopo ciò, è ovvio, bisognerebbe andare anche a vedere se il film riesca effettivamente a funzionare al di là del gioco citazionista, anche del più filologico e/o appassionato.

In tal senso, The house of the devil è una gran bella sorpresa, e lo è su entrambi i fronti: osannato da alcuni blog americani come uno dei migliori horror dell’anno (o addirittura il miglior) ma sostanzialmente apprezzato anche dalla critica più "tradizionale", il terzo film di Ti West, passato al vaglio del video-on-demand per poi trovare una distribuzione nelle sale americane in occasione di Halloween, è tutte e due le cose. Prima di tutto, è un film che riproduce in modo perfetto, dalla fotografia alle musiche, dai titoli alla struttura, la sensazione palpabile di un horror girato negli anni ’80 (oltre che ambientato negli anni ’80, per rendere tutto ancora più chiaro)

Che l’interesse del progetto vada in questa direzione lo dimostra anche la scelta di girare in 16mm invece che lasciare più facilmente alla post-produzione il lavoro di riproduzione della "patina" di quegli anni. Ma pur essendo un film che sembra nato appunto per far gongolare gli appassionati del genere, The house of the devil è molto altro – è un horror scaltro e ambizioso, quasi "intellettuale" eppure sinceramente "scary", un cupo incubo satanista come non se ne fanno più e girato come nessuno oserebbe più fare: rimandando allo sfinimento il "succo" della questione, montando il senso d’angoscia fino all’inevitabile doccia di sangue.

Il film è infatti tripartito: nella prima mezz’ora non succede assolutamente nulla, tutto è giocato su accenni musicali e "canoni" visivi e sonori (o entrambi: il telefono pubblico che squilla). A mezz’ora c’è una prima esplosione di violenza, improvvisa quanto annunciata, che rimane isolata ma che permette di alzare il tiro: da quel momento in poi ogni minimo dettaglio può diventare, e diventa, un tangibile presagio di morte. Per la catartica mezz’ora finale, con una chiusa beffarda in linea con i classici, bisogna aspettare più di un’ora.

Un gran film, a tutti gli effetti – anche grazie a un gran lavoro sul cast: i due padroni di casa Tom Noonan e Mary Woronov sono una garanzia, e c’è anche la stupenda Greta Gerwig, musa del cinema mumblecore. Ma il grosso del lavoro se lo accolla la semi-esordiente, meravigliosa, protagonista: Jocelin Donahue.

Link: Nanni Cobretti su I 400 Calci, Hunter Stephenson su Slashfilm, Metacritic.

Friday Prejudice #193

[sulle due cime del Kilimanjaro]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Recount, Jay Roach 2008

Recount
di Jay Roach, 2008

Vincitore dell’ultimo Emmy come migliore film televisivo dell’anno passato (premio consegnato postumo anche al produttore Sydney Pollack), resoconto romanzato ma millimetrico del macello che avenne in Florida nelle settimane successive alle presidenziali statunitensi del 2000 e che portò all’elezione di George W. Bush, Recount ha prima di tutto un merito immediato: quello di far sì che ci si capisca qualcosa. Merito dell’impeccabile esordio alla sceneggiatura di Danny Strong, attore televisivo visto tra l’altro in Buffy e Gilmore Girls, mostra una grande scioltezza nel muoversi tra le regole elettorali e il loro sovvertimento, tra il desiderio eroico di democrazia e i compromessi di un sistema zoppicante.

Facile perdersi qualche passaggio storico o numerico, ma poco importa – anche perché come da tradizione anche Recount è un film di personaggi. La differenza la fa quindi anche il cast, con performace radicalmente distanti: un ritrovato Kevin Spacey, proprio perché nella parte di un personaggio dai caratteri smussati e poco incisivo; Tom Wilkinson che interpreta un repubblicano con professionalità e distacco, e non a caso è un attore britannico; e soprattutto Laura Dern (premiata con un Golden Globe) che porta sullo schermo una Katherine Harris sopra le righe, quasi parodistica, ritratta con un maturo senso del ridicolo e con spietata lucidità. Jay Roach, premiato anche lui con l’Emmy, in passato è stato un pessimo regista alla guida di celebri commedie, ma qui è irriconoscibile: astuto, preciso, gagliardo. Il piccolo schermo gli fa bene.

Il film è disponibile in DVD inglese e ve lo tirano dietro.

The Goods: Live Hard, Sell Hard. di Neal Brennan 2009

The Goods: Live Hard, Sell Hard
di Neal Brennan, 2009

"Ahhhh, it feels like a Smurf jizzed all over my face!"

Più che un film, The Goods sembra un esperimento di resistenza: quanto si può tirare la corda riproponendo pedissequamente gli elementi di film precedenti – in questo caso quelli, stracitati, della premiata ditta Ferrell-McKay? Si può ottenere lo stesso risultato cambiando semplicemente l’ambientazione e il cast (e nemmeno tutto) e lasciare che il pilota automatico faccia il resto? Un esperimento, dicevo: perché mettere Jeremy Piven a fare il verso a Will Ferrell in un quasi-sequel di Anchorman con la regia in mano a un (quasi) esordiente suona quasi masochistico. Uno va a cercare una spiegazione.

Quasi consolante, anche perché conferma presagite impressioni, che la risposta insomma sia proprio che no, non si può – e che stanno pure cominciando a rompere le balle, oltre che la corda. Si intenda, The Goods le sue risate le strappa, se non cercate altro potreste pure essere accontentati. Ma a funzionare è sostanzialmente solo il nutrito cast di caratteristi di contorno (in particolare Kathryn Hahn: il cielo la benedica, adesso posso avere un film tutto su Babs Merrick?) con un sistema che a posteriori lascia di stucco: a ciascuno viene affidata una gag, una sola, che sia riuscita o meno, da reiterare per tutto il film. Tutto lì. Il fatto che un paio portino a casa la giornata e due ghignate è più colpa della nostra contingente deficienza e dell’attrazione per sciocchezze simili che merito del film*.

Inutile dire che il resto sia quantomeno disastroso, Don Ready è il solito americano arrogante e presuntuoso fino all’ovvia redenzione finale ma stavolta non funziona, non buca lo schermo, fa pure un po’ innervosire. Colpa di Jeremy Piven? Fino a un certo punto: è anche colpa di una scrittura che non fa più un briciolo di sforzo, un cinema addormentato su se stesso che avrebbe bisogno di una scossetta e che invece si accontenta di ripetersi allo sfinimento.

*le due sequenze con Will Ferrell himself, prima con la "pioggia di dildo" e poi con i due angeli che insultano Piven in gospel, mi hanno fatto ridere come un cretino – e non nascondo un senso di leggera vergogna.

Nel paese delle creature selvagge, Spike Jonze 2009

Nel paese delle creature selvagge (Where the wild things are)
di Spike Jonze, 2009

(questo post, per forza di cose, è una rielaborazione più noiosa di quanto già detto di là)

Sapete che c’è? Che un po’ vi capisco. Sono molte le volte in cui, di fronte a un dissenso totale sullo stesso film da parte di persone intellettualmente abili, pur invocando un soggettivismo e un rispetto per le opinioni altrui che da queste parti sono sacri o quasi, non sono riuscito a capire dove stia il problema. Negli anni, tempo fa, li abbiamo chiamati "film divisòri", un termine scherzoso che nascondeva un certo imbarazzo e, in alcuni casi, ne sono sicuro, un certo livore e una sana incomprensione.

Stavolta è diverso: comprendo perfettamente, Where the wild things are è un film che può lasciare insoddisfatti, scontenti, arrabbiati. E se ne scrivo qui è perché questo è uno degli aspetti questo film che trovo più interessanti, almeno a posteriori. La mia interpretazione più semplice è che si tratti un film di fronte a cui bisogna per forza abbassare la guardia, un film che può non funzionare – o meglio: che non può funzionare da spalti scavati nelle trincee. Quelle delle opinioni degli altri, delle nostre aspettative, del filtro di cinismo che spesso e volentieri ha l’utile funzione del frutto proibito ma che, davvero, stavolta non ha senso di essere portato con sé in sala.

Non è un problema mio, forse, né vostro, né probabilmente del film, insomma: quello che Jonze è riuscito a portare sullo schermo con tutta questa fatica (che si vede, e che lo rende irrisolto, sì, ma anche materico e "pesante", quasi come i passi dei mostri selvaggi), è qualcosa di spudoratamente, oscenamente personale che non si ferma alla riproposizione meccanica di un sistema onirico né alla stesura di una tematizzazione del contrasto tra infanzia ed età adulta. Sarebbe troppo facile. Jonze invece ha puntato a un’immersione visionaria senza compromessi, senza nemmeno il beneficio dello scarto del punto di vista (ad eccezione di una brevissima scena verso la fine, il film è narrato esclusivamente attraverso l’osservazione di Max, artificio che rende quella stessa scena così straniante e "violenta"), una cosa piuttosto difficile da accettare, se non scendendo a patti con il proprio inconscio – e forse, a volte, con il proprio passato.

Pur non essendo il miglior film dell’anno né il capolavoro infallibile che qualcuno, forse scioccamente, dava per scontato (e perché mai, visto che non è diretto da un regista infallibile?), Where the wild things are è in realtà un film che mi ha colpito a livello più primordiale – che ha toccato me, personcina che scrive questo post, per il quale non riesco a provare una profonda simpatia (che, capiamoci bene, ha anche a che fare razionalmente con il risultato in sé, con ciò di cui il film parla, con ciò che il film ottiene, soltanto che è meno divertente discuterne ora), che mi ha trascinato e da cui io, insieme a molti altri, ho avuto la fortuna e la sfrontatezza di farmi trascinare, fottendomene.

Quindi ecco che c’è, che vi capisco. Ma stavolta, di essere nel torto, sono ben lieto.

Deadgirl, Marcel Sarmiento e Gadi Harel 2008

Deadgirl
di Marcel Sarmiento e Gadi Harel, 2008

Per avere una prima idea di cosa vi aspetta, potete dare un’occhiata alle motivazioni del rating "R" da parte della MPAA: "strong aberrant sexuality, graphic nudity, bloody violence and pervasive lanuage". Se non fosse abbastanza chiaro: Deadgirl è un film che raccoglie la vasta eredità dei film (non solo horror) in cui la metafora dominante è l’estremizzazione dei conflitti adolescenziali, in particolare all’interno dell’universo delle high school, spostando più in là i confini del raccontabile e – pur con un uso preponderante del fuoricampo – del rappresentabile.

Quel che Sarmiento e Harel ottengono è uno dei film più volutamente sgradevoli degli ultimi anni, e non solo per la puntuale scena di catrazione: due giovani "loser" trovano nei sotterranei di un ospedale abbandonato una donna nuda e apparentemente morta legata e nascosta sotto un telo di plastica. Ma la donna "non muore". Decidono di fare di lei quello che difficilmente un personaggio di un film, anche il più malato, avrebbe fatto. Non solo: nell’economia narrativa e alla luce del ritratto dei due personaggi, sembra quasi una scelta obbligata – che lo rende ancora più inquietante.

In realtà Deadgirl è un film più interessante che davvero riuscito, molto limitato sia produttivamente (e sospetto che non sia solo una questione economica) che nel suo concentrarsi su una serie ristretta di elementi narrativi e provocazioni gore. Ciò nonostante, è anche un film visivamente molto libero e indipendente, oltre che sinceramente disturbante: senza bisogno di usare la parola con la Z e senza addormentarsi sul facile grottesco, decide invece di andare a scavare con le unghie e con i denti nel purulento buco nero nascosto nel petto di una generazione.

Friday Prejudice #192

[donnole nude]

E il nuovo episodio di Perjantai Prejudice.

Orphan, Jaume Collet-Serra 2009

Orphan
di Jaume Collet-Serra, 2009

Sono molti gli elementi che danno una scossa a Orphan permettendogli di rendersi interessante (e non certo un horroraccio da due soldi), ma il primo è probabilmente la presenza scenica di Isabelle Fuhrman. Questo film sarà pure una spassosa sciocchezza, ma io di dodicenni che recitano così, e così bene, ne ho viste davvero poche. Il film passa e va, la Fuhrman resta. L’altro lato della medaglia è la coppia di "adulti" protagonisti, Vera Farmiga e Peter Sarsgaard, che sono veri attori, recitano, funzionano: la cosa fa la differenza più di quanto si possa immaginare.

C’è altro, in realtà: anche se, come capita spesso ai thriller che giocano molto su un twist narrativo così forte, gran parte del minutaggio è palesemente preparatorio e ciò che più caratterizza il film è la parte finale. Ma se Orphan riesce, con una perfetta sequenza-climax in montaggio parallelo, a imboccarci una svolta narrativa così sensazionale e bislacca senza farci dire bif, facendola seguire da una escalation di violenza che lascia a bocca aperta, gli facciamo passare qualche inconsistenza e lungaggine. Anche perché in tutta la lunga fase che porta a quel punto cruciale, Collet-Serra lavora benino sulla decostruzione del nucleo famigliare, centellinando inquietudini e dubbi anche piuttosto disturbanti (soprattutto sul malcapitato padre adottivo) – non andando molto in là, è vero, ma non è per forza un difetto.

Devo ammetterlo, nonostante non sia uno dei titoli migliori in una stagione davvero fortunatissima per il genere, mi sono divertito. E mica poco. Quanto basta. No, un po’ di più.

Parnassus, Terry Gilliam 2009

Parnassus (The imaginarium of Doctor Parnassus)
di Terry Gilliam, 2009

Mi sono reso conto che ci sono cose che concedo volentieri a Terry Gilliam e che non concederei quasi a nessun altro: la magia di Parnassus risiede forse proprio nel suo essere un film scombinato e scombiccherato? E inoltre, è un film sfortunato, mutilato, infine miracolato. L’artificio grazie al quale Gilliam ha risolto il dilemma della dipartita di Heath Ledger rivoltando la sceneggiatura e facendo ripartire da zero persino assunti di base del suo immaginario è geniale, ma non toglie che nel film, in ogni sua inquadratura, si senta il peso di un’assenza. Che non è soltanto quella dell’attore australiano, ma quella del film che era – come se dentro al corpo ciancicato di questo Parnassus si muovesse il fantasma di un Parnassus che non vedremo mai.

Per il resto, Parnassus è davvero il primo vero erede diretto di Le avventure del barone di Münchausen (con Christopher Plummer dove c’era John Neville e la splendida, ammaliante Lily Cole dove c’era una giovanissima Sarah Polley) ed è quanto di più lontano possa esserci dall’appeal commerciale di un Tim Burton ed è destinato, con il suo ritmo scivoloso e squilibrato, a fare arrabbiare il pubblico "medio" in caccia di volti da star – mentre sembra nato per fare la gioia di chi segue Gilliam da una vita: ci ritroverà quella stessa apparentemente ingenua e amabile spavalderia nel cantare le lodi della narrazione e nell’elogiare il potere dell’immaginazione, oltre che l’inimitabile modo in cui il regista ha sempre giocato con i piani del racconto, tra sonno e veglia, tra realtà e finzione, tra i baracconi di cartone di cui è fatto il mondo e la pulsione e il desiderio di cui sono fatti i sogni.