2010

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[duemiladieci: il classificone]

[la lista si riferisce alla distribuzione italiana nell'anno solare, e quindi include soltanto film usciti nelle sale italiane di prima visione tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2010]

1. Inception di Christopher Nolan
2. Toy Story 3 di Lee Unkrich
3. Scott Pilgrim vs. the World di Edgar Wright
4. The Social Network di David Fincher

5. L’uomo che verrà di Giorgio Diritti
6. La prima cosa bella di Paolo Virzì
7. Il profeta di Jacques Audiard
8. Avatar di James Cameron
9. L’uomo nell’ombra di Roman Polanski
10. Animal Kingdom di David Michôd

11. Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson
12. Bright Star di Jane Campion
13. My Son, My Son, What Have Ye Done di Werner Herzog
14. Dragon Trainer di Dean DeBlois e Chris Sanders
15. Vendicami di Johnnie To
16. American Life (Away We Go) di Sam Mendes
17. An Education di Lone Scherfig
18. The Town di Ben Affleck
19. Shutter Island di Martin Scorsese
20. Agora di Alejandro Amenábar
21. L’Illusionista di Sylvain Chomet
22. Splice di Vincenzo Natali
23. The Hole di Joe Dante
24. L’esplosivo piano di Bazil (Micmacs) di Jean-Pierre Jeunet
25. Shadow di Federico Zampaglione

Fuori Concorso:
Porco Rosso
di Hayao Miyazaki

Menzione speciale:
Buried di Rodrigo Cortés
Panico al villaggio di Stéphane Aubier e Vincent Patar
Tra le nuvole di Jason Reitman
Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul

Outsiders:
(i 5 migliori film che sarebbero in classifica ma in Italia non escono)

1. Dogtooth di Yorgos Lanthimos (dvd)
2. Triangle di Christopher Smith (dvd)
3. The Loved Ones di Sean Byrne (dvd)
4. Dream Home di Pang Ho-Cheung (dvd R3)
5. City of life and death di Chuan Lu (dvd)

E come ogni anno, ricordate: nessuna classifica sarà mai la vostra classifica.

Buon Anno!

The winning season, James C. Strouse 2009

The winning season
James C. Strouse, 2009

Strano che si sia parlato così poco di questo film dalle nostre parti, al di là della solita cecità (per ora) della distribuzione italiana: uscito in sordina a settembre negli USA a quasi due anni dalla presentazione al Sundance, pur rispettando dal primo all’ultimo i cliché del film sportivo il film di Strouse è in realtà una delle commedie americane più gradevoli dell’anno. Merito soprattutto della performance da applausi di Sam Rockwell nel ruolo di un ex giocatore di basket fallito e alcolizzato che ritrova la voglia di allenare grazie a una ciancicata squadra femminile di una scuola superiore, ma anche del resto cast (come la deliziosa Emma Roberts: un’autentica rivelazione, per quanto mi riguarda) e della sceneggiatura dello stesso Strouse, capace di far tesoro dei meccanismi del genere per restituire in modo davvero convincente, con oliatissime armi da cinema indipendente, il riscatto di un uomo di fronte a se stesso e a una “nuova famiglia” trovata sul campo. È difficile spiegarvi come The Winning Season riesca a far funzionare alla perfezione tutto questo senza risultare risaputo, banale o stucchevole: la soluzione migliore in casi come questi è – recuperare il film e giudicare da soli.

Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame, Tsui Hark 2010

Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame (Di Renjie)
di Tsui Hark, 2010

Tra le figure più importanti della new wave, Tsui Hark è stato un produttore leggendario e il regista di alcuni dei film più belli e importanti del cinema hongkonghese (A Better Tomorrow 3, Once upon a time in China e The Blade sono i must assoluti della sua ampia filmografia) ma anche il responsabile di una breve e spesso vituperata “fase americana” di cui Double Team rappresenta il punto più basso. Il suo ritorno a Hong Kong, più veloce di quello dell’ex sodale John Woo, ha dovuto senza dubbio tenere conto di questa caduta, ma anche della modifica radicale del sistema produttivo, dovuta tra le altre cose all’annessione e alla raggiunta notorietà globale dei suoi autori. In tal senso, l’episodio più felice del decennio scorso fu Seven Swords, non del tutto riuscito anche se robusto e interessante; ma Tsui con Detective Dee mette da parte molte delle ambizioni epico-storiche di quel film e si butta in un divertente pastiche che si rifà a una tradizione di puro intrattenimento, davvero radicata nel cuore più autentico del cinema di Hong Kong: una detective story in costume che mescola le coreografie spettacolari di Sammo Hung a toni da scanzonata commedia fantasy-horror vecchio stile, virando qualche volta in farsa ma senza mai sfociare nel ridicolo, con un uso sfacciato della CGI che non centra sempre il bersaglio ma che infastidisce meno del previsto. E se forse Detective Dee non è memorabile quanto il carisma dei suoi protagonisti avrebbe potuto far sperare (Andy Lau è sempre Andy Lau, Li Bingbing è splendida, il ritorno di Carina Lau è la ciliegina sulla torta), è davvero godibile, fresco e vitale: un buon segno – inaspettato – per la carriera del regista, e per estensione anche per il cinema dell’ex colonia.

L’edizione dvd cinese è priva di limiti regionali. In alternativa ci sono le edizioni R3 malese e hongkonghese, quest’ultima anche in blu-ray RegioneA: si trovano tutte facilmente su YesAsia.

A cena con un cretino, Jay Roach 2010

A cena con un cretino (Dinner for Schmucks)
di Jay Roach, 2010

Dinner for Schmucks è uno di quei film dove per sopperire alla mancanza di una sceneggiatura o di una regia capace si infilano sullo sfondo duecento personaggi secondari. In fondo, in giro di talenti autentici ce ne sono tanti, e il film ne fa sfoggio: oltre ai protagonisti Paul Rudd e Steve Carell, ci sono l’eccellente Zach Galifianakis, David Waillams di Little Britain, Chris O’Dowd di The IT Crowd, la corrispondent del Daily Show Kristen Schaal, ma non c’è niente da fare, con Jay Roach alla regia la commedia ispirata a un celebre film francese di Veber diventa sciapa, frigida, priva di mordente. A nulla servono le performance del cast, il ribaltamento di normalità e idiozia affoga in un fiume di appiccicosa melassa, la sana cattiveria è sostituita da un caricaturismo pietoso, le potenzialità screwball e cartoonesche vengono svilite dall’assenza di ritmo e di personalità: si salva in corner la bravissima Lucy Punch, forse i titoli di testa con i topini imbalsamati e Fool on the hill – ma potevo vivere tranquillamente senza.

Per la cena vera e propria si deve aspettare, e soprattutto sopportare, moltissimo: e una volta giunti a quel punto si ridacchia quasi per sfinimento, come a dire: ok, io adesso ridacchio, contento?, tu però finisci in fretta che non se ne può più.

Due cuori e una provetta, Josh Gordon e Will Speck 2010

Due cuori e una provetta (The Switch)
di Josh Gordon e Will Speck, 2010

Vi capita mai di vedere un trailer e di pensare che dopo quei due minuti scarsi non abbia più tanto significato andare a vedere il film che il trailer promuove, perché avete la netta sensazione che vi abbiano già detto tutto quello che c’era da dire? Domanda retorica: lo so bene, che vi capita spesso. Ma il più delle volte è un’impressione fallace che il film, bello o meno, riesce a spazzar via. Anche perché si suppone che un film, anche il meno riuscito, abbia delle qualità oltre quei trenta o novanta canonici secondi.

Se avete visto il trailer di The Switch, invece, avete perlopiù visto tutto quel che c’era da vedere. E non è un grandissimo complimento: il film di Gordon e Speck è una delle commedie recenti più insoddisfacenti, e non solo per questa sua scarsezza di argomenti, di caratteri, di idee, e per il fatto che tutto va come deve andare (o meglio: che non può andare in modo diverso), ma anche per la sua incapacità di scegliere un registro tra i toni più triviali, perché dopotutto lo sperma scorre come se fosse acqua fresca, e quelli più stucchevoli, perché dopotutto è pur sempre un film con Jennifer Aniston.

Ecco, poi ci sarebbe tutta una serie di considerazioni da fare sulle commedie con Jennifer Aniston, film ambientati in mondi paralleli in cui uno come Jason Bateman è uno sfigato sociopatico che deve solo sognarselo l’amore di una tale faccia da schiaffi, tra l’altro fotografata sempre con questi primissimi piani da diva intensa che nemmeno la Garbo. Generalmente riesco a evitare, e senza bisogno di pormi il problema in prima battuta, stavolta ho ceduto e l’ho fatto per affetto nei confronti di Bateman ma, cielo!, se mi sono pentito

Blake Edwards R.I.P.

È morto Blake Edwards.

Cattivissimo Me, Pierre Coffin e Chris Renaud 2010

Cattivissimo Me (Despicable Me)
di Pierre Coffin e Chris Renaud, 2010

Si può dire senza troppi indugi, alla Universal è andata piuttosto bene: nonostante il plot simil-superomistico sembrasse in conflitto con alcuni esemplari della concorrenza (Gli Incredibili da una parte ma soprattutto Megamind dall’altra), Despicable Me riesce a vivere di vita propria e a funzionare benissimo, grazie alla semplicità della scrittura, “famigliare” ma non stucchevole, e all’ottimo lavoro degli animatori francesi (il film è stato interamente realizzato a Parigi), e tutto questo con un budget dimezzato rispetto ai lavori della DreamWorks.

Ma il film, comunque gradevolissimo, non sarebbe la stessa cosa senza i Minions, che sono il suo vero valore aggiunto, nonché l’unica, vera “invenzione” di questo film: un esercito di piccoli, rumorosi e imbranati operai giallognoli al servizio del protagonista, che entrano subito e di diritto nella galleria delle migliori spalle del cinema d’animazione.

Davvero irresistibili.

Bonus: dalla colonna sonora, “Minions Mambo” di Pharrell Williams feat. Lupe Fiasco.

Cyrus, Jay e Mark Duplass 2010

Cyrus
di Jay e Mark Duplass, 2010

Come ho scritto dall’altra parte, aspettavo i Duplass al varco, ma con una solida fiducia: tra gli artefici del mumblecore sspesso citato su questo blog, i due fratelli di New Orleans sono quelli che hanno mostrato in passato (Mark anche come interprete) una maggior dimestichezza nell’utilizzare (e ribaltare, all’occorrenza) i meccanismi e i linguaggi della commedia. E in Cyrus, loro prima produzione “importante” (sette milioni di budget, patricinio di Ridley e Tony Scott), i Duplass sono riusciti a trasferire nei corpi di tre star come Jonah Hill, John C. Reilly e Marisa Tomei la freschezza che ha dato loro notorietà all’interno dei festival di cinema indipendente.

Il tratto più distintivo, al di là dello stile naturalistico della messa in scena, sembra essere la bravura nel raccontare una storia che si regge soprattutto su dinamiche quotidiane e “banali”, su rapporti tra i personaggi che possono sì giocare scaltramente con riconoscibili ingranaggi ma che non si fanno mai divorare da essi. In tal senso il film è di un’asciuttezza atipica sia nella narrazione che nella messa in scena (basti pensare a come si conclude, negando il gusto per la chiusa ad effetto o per la sagacia fine a se stessa, rivolgendosi invece a una realtà dove il lieto fine esiste), ma non si pensi a un’opera improvvisata o dilettantistica: i Duplass sanno il fatto loro, il film è scritto in modo intelligente e, pur non puntando troppo in alto, nella sua metodica calma riesce a essere divertente e commovente senza apparire artificioso.

Il più grande merito di Cyrus è però quello di aver puntato le luci e di aver scommesso tutto su Jonah Hill che, dopo cinque anni passati alla corte di Judd Apatow, con questa performance sottile, misurata, perfida ma profondamente umana, mostra (non è la prima volta, ma in modo definitivo) la sua caratura, tanto da riuscire a mettere in ombra un pezzo grosso come John C. Reilly. Se tutti lo sapessero dirigere così.

The Killer Inside Me, Michael Winterbottom 2010

The Killer Inside Me
di Michael Winterbottom, 2010

Ho visto The Killer Inside Me un paio di settimane fa ma non credo di avere molto da dire. Mi è piaciuto, anche se con le dovute riserve. Per dare un po’ di aria alla stanza, per l’occasione ho pensato di invitare a discuterne qui due amici blogger che la pensano in modo molto diverso sul film di Winterbottom: Giorgio AKA JunkiePop e Mattia AKA TobWaylan. Modera il sottoscritto, facendo meno fatica possibile.

Di cosa parla The Killer Inside Me? Raccontamelo.

JP: l’apice di una dissoluzione morale a cui solo l’essere arruolato nelle forze dell’ordine (dato che Casey Affleck, il protagonista, è uno sceriffo) conferisce uno scudo, una scusa per nascondersi.

TW: The Killer Inside Me principalmente tratta della violenza nascosta nell’ordinario e di come questa, una volta risvegliata, porti ad una lenta ed inesorabile disgregazione della normalità. Poi dovrebbe parlare anche dei meccanismi perversi di una mente criminale ma qui la sceneggiatura non riesce a valorizzare il nichilismo di Thompson (autore del romanzo) finendo di mostrare degli avvenimenti sì inesorabili ma anche privi di una vera e propria ragione.

La fotografia ha un ruolo molto importante nel film.

JP: io amo la fotografia di Stephen Shore, l’ho rivista parecchio in molte inquadrature. Non dico che sia stata ispirata, ma la compressione dei colori nell’apertura di spazi acuisce il senso di claustrofobia e violenza del tutto. Insomma sembra quasi cercare di costringere un mare in un bicchiere.

TW: la fotografia è quella che ci si potrebbe aspettare da un film ambientato negli anni ’50: desaturata come una vecchia fotografia e tanto rosa per opacizzare il tutto. Bella, non si può dire il contrario.

Winterbottom è un regista talentuoso ed eclettico o un cinico furbetto?

JP: Winterbottom ama disturbare col suo cinema, siamo passati dai suicidi di Jude alle trombate di 9 songs a Guantanamo. Il cinema di Winterbottom è questo, l’elemento di disturbo che rende la storia ad un livello ancora più profondo. A molti irrita, io lo trovo coerente.

TW: Winterbottom qui pecca di troppa sicurezza, forse accecato da un soggetto così imponente decide di eliminarsi e farsi schiavo di una sceneggiatura macchinosa (e schiava anch’essa, praticamente un macchinoso riassunto del libro, con battute citate paro paro) sicuro che le cose sarebbero andate bene lo stesso. Quel che io ho visto è stata una regia piatta e inesistente, priva di quella personale visione che differisce una trasposizione cinematografica dalla fredda illustrazione.

E Casey Affleck?

JP: quella di Affleck (è la seconda volta che fa un Ford bastardissimo) è la classica interpretazione che col senno di poi verrà giudicata sontuosa. L’altro lato di Robert Ford, se vogliamo metterla così, quello trovava alibi alle proprie bugie, questo ci rinuncia praticamente, mette le forze dell’ordine quasi di fronte al proprio io. A me ha ricordato parecchio il Volontè di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

TW: per fare il pazzo psicopaticato Casey Affleck è perfetto, forse troppo in questo caso. Sarebbe stato più giusto un attore dal fare più ordinario ma non mi lamento.

Il film mi è piaciuto, quindi sono più vicino al parere di JP. Ciò che mi ha convinto meno è invece il modo didascalico con cui si abbozza una lettura psicanalitica del personaggio. In particolare, c’è una scena in cui Affleck guarda lo scaffale dei libri, ci sono la Bibbia e L’interpretazione dei Sogni di Freud, uno accanto all’altro. Affleck prende in mano la Bibbia e trova tra le sue pagine un complesso edipico grosso così.

JP: ma secondo me in film come questo che osano il passo più in là per colpire lo spettatore il ritorno alla didascalia attenua gli effetti e riconduce la trama e i personaggi a una giusta comprensibilità. Metti Il nastro bianco di Haneke, ugualmente didascalico dall’inizio alla fine ma con una funzione di “paletto” della trama.

TW: Manco me lo ricordavo sto passaggio. È una chiara metafora di come la Bibbia sia il male originale.

Si è parlato molto delle scene di violenza nei confronti dei personaggi femminili.

JP: torno al Winterbottom disturbante. Levi pompini e trombate a 9 songs cosa rimane? Il suo cinema è questo, è parte fondamentale, quasi insostituibile in gran parte della sua cinematografia. Non solo questo, la violenza era parte cruciale dell’iter narrativo. Su American Psycho scusate, poi, per caso si facevano carezze con margheritine? Dipende cosa trasponi e chi lo traspone.

TW: polemizzare sulla violenza e urlare alla misoginia vuol dire non aver capito nulla di quello che il film vuole raccontare. In generale il post-femminismo è il male e non ce ne libereremo mai.

È arrivato il momento di convincere i lettori.

JP: Andateci e non voltatevi nelle scene fondamentali, se perdete quei 3/4 minuti perdete il cuore del film. The killer inside me è un film raro, e non intendo con questo dire sia un capolavoro, ma un film concreto, sostanziale e soprattutto scritto come poche altre cose in quest’anno.

TW: The Killer Inside Me è un film privo di personalità dove Jessica Alba è più cagna del solito e tutti gli altri attori a parte Affleck sembrano macchiette. Non voglio convincervi a non vederlo, voglio convincervi a risparmiare quei 5 / 7 euro di biglietto ed investirli nel romanzo (e non fatevi fregare dalla nuova edizione post film da 16 euro, si trova dagli 8 in giù) per poi vedervelo a gratis facendovi prestare il DVD e capire cosa non bisogna fare quando si ha in mano un dannato capolavoro. Se poi in questo modo scoprirete Jim Thompson, ancora meglio.

duemiladieci: venticinquedischi

[i miei 25 album del 2010]

arcade fire / robyn / the record’s / the national / a toys orchestra
janelle monae / band of horses / marina & the diamonds / midlake / belle and sebastian
lcd soundsystem / beach house / uochi tokimassimo volume / shout out louds
the new pornographersmenomena / my bubba & mi / aucan / stars
baustelle / caribou / wild nothing / first aid kitpamela hute

UPDATE: la fretta è cattiva consigliera: pensando erroneamente che fosse del 2009 (è uscito a gennaio), ho colpevolmente tralasciato uno degli album italiani più belli dell’anno, tanto che forse l’avrei fatto rientrare tra i primi 10. Per farmi perdonare gli dedico questo paragrafo. Il gruppo si chiama Heike Has The Giggles, e il disco si intitola Sh!.

E questo è il video di Robot.

Easy A, Will Gluck 2010

Easy A
di Will Gluck, 2010

La commedia americana ambientata nelle scuole superiori è forte di una tradizione molto radicata negli ultimi decenni, da alcuni film di John Hughes in poi, tra il grande e il piccolo schermo, ma i casi esemplari, i casi di eccellenza, scarseggiano. Inserendosi in un filone ben preciso, ovvero quello delle riletture di classici della letteratura in un’ottica adolescenziale (come già Emma per Clueless e La bisbetica domata per 10 cose che odio di te, qui è La lettera scarlatta) Easy A è riuscito nel difficile compito di non sfigurare di fronte a film molto amati come Mean Girls o i titoli sopracitati, diventando anzi una delle teen comedy più azzeccate degli ultimi anni e anche, critica alla mano, una delle commedie più applaudite dell’anno.

Tutto merito della protagonista, si sarebbe portati a pensare: la spettacolare Emma Stone, che avevamo già addocchiato dai tempi di Superbad e The House Bunny (dove era al centro di un makeover da brutto anatroccolo più estremo di questo) ha appena 22 anni ma è già un’attrice con una precisa e spiccata personalità, non soltanto per i suoi caratteri innati (la voce roca, il viso asimmetrico, gli occhi perforanti) ma anche per un talento e un senso dell’umorismo davvero eccezionali. In realtà, di punti di forza il film ne ha da vendere: la sceneggiatura arguta e “cinefila” dell’esordiente Bert V. Royal, autentiche idee di regia (come quella usata per rappresentare la diffusione capillare del gossip tra i corridoi di un liceo) che sono una rarità in questo campo, e un cast di comprimari di prim’ordine – tra cui i genitori “perfetti” interpretati da Patricia Clarkson e Stanley Tucci, che dimostrano ancora una volta come si possa interpretare un personaggio memorabile (e più in generale: costruire un film così bello, fresco, gradevole e divertente) anche senza forzare la mano sulla political incorrectness.

Tornando a John Hughes, che le commedie ambientate negli anni della high school abbiano nel cinema del compianto regista e più in generale nei film del “brat pack” un vero nume tutelare non è certo un fatto nascosto o segreto: ma Easy A ci tiene a renderlo ancora più esplicito con una sequenza centrale e irresistibile in cui la protagonista Olive, interpretata da Emma Stone, si lancia in questo soliloquio:

Whatever happened to chivalry? Does it only exist in 80′s movies? I want John Cusack holding a boombox outside my window. I wanna ride off on a lawnmower with Patrick Dempsey. I want Jake from Sixteen Candles waiting outside the church for me. I want Judd Nelson thrusting his fist into the air because he knows he got me. Just once I want my life to be like an 80′s movie, preferably one with a really awesome musical number for no apparent reason. But no, no, John Hughes did not direct my life.

Il film uscirà in Italia il 4 marzo 2011 (!) con il titolo Easy Girl. E vabbè.

Il dvd US-R1 esce prima di Natale, quello UK-R2 il prossimo febbraio.

Reign of Assassins, Su Chao-Bin e John Woo 2010

Reign of Assassins (Jianyu)
di
Su Chao-Bin e John Woo, 2010

È facile entusiasmarsi all’idea che John Woo abbia diretto finalmente un wuxiapian a quasi un quarto di secolo dalla rivoluzione neo-noir di A Better Tomorrow, soprattutto dopo Red Cliff, prima di cui si tendeva più che altro a dare per spacciata la carriera di uno dei più grandi e importanti registi dell’area cinese. In realtà la vicenda è andata in modo diverso: il film è effettivamente stato scritto e diretto dal taiwanese Su Chao-Bin, ma la consulenza del Maestro sul set è stata tale e talmente continuativa da convincere la produzione ad apporre anche il suo sigillo accanto a quello del regista. L’altra interpretazione è che la mossa sia stata effettuata per vendere meglio il film all’estero: e non c’è dubbio che abbia funzionato, visto la proiezione del film a Venezia e lo stesso incipit di questo post.

Se non sorprende che Woo si sia interessato a un film in cui le marce narrative sono ingranate da personaggi che si rifanno i connotati con tale leggerezza, rimandando immediatamente i fan ai fasti di Face-Off, tolta questa curiosa considerazione autoriflessiva (e magari l’uso delle dissolvenze incrociate, per i più nostalgici) Reign of Assassins è un wuxia davvero divertente e appassionante che riesce a vivere benissimo al di là del marchio apposto o della distinzione di meriti tra il veterano autore e l’allievo alla sua opera terza. Un film che riesce a unire con sapienza sequenze d’azione assolutamente spettacolari ed esaltanti (più per gli amanti del “cavo” che per quelli delle arti marziali “pesanti”) a un racconto che gioca molto sull’ironia e sul romanticismo ma senza buttarla mai nella farsa né sbracandosi nel melò, riuscendo grazie al carisma del cast a costruire anche dei personaggi credibili al di là dell’incredibilità del racconto – in particolare Turqoise, l’assassina ninfomane intepretata dalla stupenda Barbie Hsu, diventata immediatamente uno dei miei personaggi preferiti del cinema di quest’anno.

Da qualche parte se ne dice male, da altre parti si legge che Reign of Assassins sarebbe “il miglior wuxia dai tempi de La Tigre e il Dragone“. Il netto sospetto, ovviamente, è che chi lo scrive non abbia visto altri film di questo genere in questi 10 anni, e io stesso non credo di averne visti abbastanza per giungere a una conclusione così radicale, ma senza dubbio il film di Su e Woo è un’opera valida, che non aggiunge niente alla storia del genere (a parte il movente del villain, che si scopre verso la fine del film, che mi ha sorpreso molto, e che se ve lo raccontassi in due parole rischierebbe di passare per la cazzata del secolo) ma che si inserisce con dignità e con freschezza in uno dei filoni più leggendari del cinema cinese e hongkonghese, senza sfigurare.

Fate molta attenzione ai (bellissimi) titoli di testa animati: raccontano più di quanto non sembri.

L’edizione dvd hongkonghese del film è già in commercio: purtroppo è Regione 3, ma sono sicuro che siete perfettamente in grado di dezonare il vostro lettore.

Su Yesasia trovate anche il blu-ray Regione A.

Non mi risulta prevista un’uscita italiana. Chi sa, parli.

I saw the devil, Kim Ji-woon 2010

I saw the devil (Akmareul boattda)
di Kim Ji-woon, 2010

Negli ultimi tempi da queste parti si è accennato spesso ai bei giorni in cui si inseguivano i migliori autori del cinema asiatico, e in particolare di quello coreano, con una tendenza al namedropping che vira verso il ridicolo scioglilingua, ma da cui non si riesce a esimersi quando si è trascinati nel vortice maliconico dei ricordi. In questo panorama, Kim Ji-woon rischia sempre di essere messo in disparte o dimenticato, o di fare la figura dell’amico vestito bene che fa una gran scena alle feste finché non apre bocca e dice un sacco di cazzate. Non sono assolutamente di questo avviso: al di là dell’apprezzamento che ho sempre riservato nei suoi confronti pur non inserendolo nell’Olimpo dei “grandi” del cinema di Seoul dello scorso decennio, non solo i suoi film sono stati artisticamente all’altezza di una cinematografia esaltante nel corso degli anni, con pochi titoli ma ben piazzati e ben riusciti, ma anche commercialmente rilevante – persino in un contesto esecrabile come quello italiano, se consideriamo il caso di Two Sisters. La cosa che più mi colpisce di Kim, a parte ovviamente la sua eccezionale bravura tecnica, che mettiamo da parte subito perché è l’aspetto su cui pacificamente non si può che alzare le mani (tant’è che ce la fa vedere, e ce la fa vedere tutta), è la sua capacità di muoversi sui terreni calpestatissimi dai suoi colleghi, con il rischio di arrivare fuori tempo massimo, portando a casa però risultati ineccepibili o addirittura sorprendenti. Kim rispose al dilagante (o dilagato) j-horror con il fenomenale ghost drama già citato, al post-tarantinismo e forse al post-johnnietoismo (e a molto altro, badate, sto semplificando per amor di sintesi) con il noir stilizzato di A bittersweet life, alla moda globale del western leoniano con il divertentissimo The good the bad and the weird. Allo stesso modo, I Saw the devil è un altro tassello di un genere, o di un percorso, ben noto agli amanti del cinema asiatico, il revenge movie - oppure chiamatelo come vi pare. Gli elementi che lo compongono sono altrettanto conosciuti, lo spettro del sequestro di persona, la violenza che esplode indistinta, il disagio del dilemma tra giustizia, vendetta, legge, morale, l’inesplicabilità del male, la sua rappresentazione e via dicendo. Il lavoro di Kim non sarebbe nemmeno complicato, il progetto del film suona vacuo e prevedibile quando non fine a se stesso, ma la sua particolarità e il suo grande punto di forza (quando si comincia a pensare che non vada da nessuna parte) sta proprio in questo suo fare inceppare il racconto diventando presto un vero e proprio “disco rotto” su cui si consumano in un alternarsi spietato e sadico, più sulla lunga misura che nei singoli colpi di cric in testa, le differenti furie dei suoi protagonisti – giocando facile da un lato, rischiando davvero un po’ di più quando il punto di vista unico è quello di un assassino “senza movente”, ma anche senza virate psicanalitiche, con una narrazione che da un certo punto in poi è asciugata e ridotta a zero fino al finale che scopre le carte con decisa chiarezza (forse troppa) sull’idea che Kim voleva veicolare. La consueta sfrontatezza che già caratterizzava le sue opere precedenti, applicata alla violenza, è però ciò che del film passa più facilmente – non è certo una cosetta per anime candide, insomma, ed è anche difficile far passare (a voi in primis, a me stesso in seconda battuta) questa insistenza a volte parecchio compiaciuta per giustificata scelta artistica, ma I Saw the Devil, se pure imperfetto, pieno di difetti e lungi dall’essere il miglior film di Kim Ji-woon,  è anche un film dissennatamente coerente, oltre che visivamente stupefacente, e non ultimo è un film che fa tremare, che fa incazzare, dalla rabbia e dalla paura. Sono piccole emozioni che mi piace coltivare, una volta ogni tanto. Poi però metto su Scarpette Rosse.

Di tutt’altra opinione il miglior cineblogger dell’universo, ovvero Luotto Preminger dei 400 Calci. Prendiamo e portiamo a casa.

Mario Monicelli R.I.P.

[addio]

Mario Monicelli è morto oggi a Roma. Aveva 95 anni.

Irvin Kershner R.I.P.

[goodbye]

Irvin Kershner è morto oggi a Los Angeles, aveva 87 anni.

Leslie Nielsen R.I.P.

[goodbye]

È morto Leslie Nielsen.

Amore a mille… miglia (Going the distance), Nanette Burstein 2010

Amore a mille… miglia (Going the distance)
di Nanette Burstein, 2010

A meno che non abbia voglia di superare i confini e i cliché del suo genere (cosa che il film della Burstein non fa, per fortuna) una commedia romantica ha bisogno di un numero limitato di fattori per poter funzionare. Pochi ma buoni: quel che c’è deve girare alla perfezione. È il caso di Going the distance, che sfrutta davvero bene i suoi elementi: due attori in forma, valide caratterizzazioni di contorno, una buona sceneggiatura, un senso dell’umorismo irresistibilmente immaturo, e soprattutto un’idea forte (per quanto di estrema semplicità: “la storia d’amore a distanza, discuss”) in un contesto altrettanto solido, quello arcidiffuso della crisi economica e del mondo del lavoro.

Al di là di questi elementi, che bastano senz’altro a farne un film più gradevole della media, ciò che rende particolare e inusuale Going the distance (e unico motivo per cui la regista di American Teen si dimostra la guida ideale) è l’idea di raccontare una storia d’amore che è anche una sorta di racconto di formazione tardivo: i due protagonisti hanno superato i trent’anni ma sono in qualche modo “in ritardo” sui tempi della loro generazione, ciascuno per le sue ragioni vivono e si comportano come due ventenni, sia in rapporto alle relazioni sentimentali che al lavoro che alla famiglia. Lei ha inseguito per anni un amore sbagliato, deve ancora finire l’università, si mantiene facendo la cameriera inseguendo una carriera impossibile (o quasi) in un giornalismo che le crolla intorno; lui fa un lavoro senza prospettive per un’etichetta musicale, non capisce niente delle donne, non piange per amore, e convive in un appartamento “da studente” dalle pareti sottilissime con un amico che caga con la porta aperta. Un aspetto che in magari in Italia non suonerebbe poi così strano, ma tra New York e Los Angeles è tutto un altro paio di maniche.

Il pacchetto è chiuso da un’ottima colonna sonora (in cui spicca Harold T. Wilkins dei Fanfarlo, roba che ti taglia le gambe a prescindere) e dalla coppia di comprimari formata da Charlie Day di It’s Always Sunny in Philadelphia e Jason Sudeikis del Saturday Night Live – che è tra le cose migliori del film, se non altro per i dialoghi dell’esordiente Geoff LaTulippe, ma alla fine Going the distance non sarebbe la stessa cosa senza la simpatia, l’immediata “normalità” di Drew Barrymore e Justin Long. Non sarebbe nemmeno la sua ombra.



Questa scena mi ha fatto molto ridere.

Harry Potter e i doni della morte – Parte 1, David Yates 2010

Harry Potter e i doni della morte – Parte 1 (Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1)
di David Yates, 2010

Tra tutti i registi chiamati a dirigere di volta in volta i film tratti dai libri di J.K.Rowling, David Yates è quello che suscita meno simpatie – presso il sottoscritto, senza dubbio, ma anche in generale tra i fan e gli spettatori meno accidentali. Ma i suoi non sono brutti film, e nelle sue mani la saga ha continuato a essere piuttosto piacevole pur non sollevandosi più da una sorta di grigia medietà. Credo sia soprattutto per una questione di principio: ciò che rendeva particolare la saga prima del suo arrivo era proprio il differente approccio che Columbus, Cuaron e Newell avevano portato nelle storie potteriane, facendole passare attraverso i filtri del cinema per ragazzi, della favola dark, della commedia romantica. Yates ha contribuito a riportare la serie a risultati meno sorprendenti, forse più funzionali allo sviluppo narrativo e soprattutto alle esigenze della produzione.

Tra i Potter diretti da Yates, quindi, questo è decisamente il meno anonimo, e quindi in qualche modo è il più interessante. Ma per una ragione che potrebbe trovare più delusioni che entusiasmi nel pubblico, una motivazione legata strettamente a ciò che effettivamente accade in questo lasso di tempo: poco o niente. O meglio: gran parte del film è impiegata a risolvere questioni che attengono ai rapporti tra i tre protagonisti, intenti nel frattempo a spostarsi di nascondiglio in nascondiglio. Il senso è chiaro: risolvere issue personali prima di tutto, per poi buttarsi a capofitto nel finale “vero” e nella battaglia definitiva con Voldemort. Ma la figura che ci fa questa prima parte è quella di una lunga, lunghissima premessa, piena di attese (talmente insistite da includere in una scena una sorta di autoparodia) che forse si poteva tagliuzzare qui e là e che, come fa notare giustamente Gabriele Niola, non si capisce come possa interessare una generazione (o più in generale una platea) che si autoproclama iperattiva e ipercinetica.

E se l’altra caratteristica dei film di Yates è il loro essere sempre più delle opere per iniziati, che richiedono insomma una sorta di fresca preparazione, se non sui libri almeno sui sei film precedenti, I doni della morte la porta all’estremo: personalmente ho fatto molta fatica a seguire le vicende, soprattutto il namedropping continuo, e ho trovato buffo che spesso nel film siano i personaggi stessi a fermare l’interlocutore chiedendo “eh?”, “cosa?”. E soprattutto: “chi?”. Certo, non mancano le buone invenzioni e i momenti riusciti, Yates ci mette qualche idea di regia in più, il film è tematicamente molto forte nonché molto più adulto dei precedenti (senza tirare in ballo il sangue e il ruolo prominente che ha qui la tensione sessuale tra i tre protagonisti, Azkaban era un film sulla paura, questo è un film sulla paura della morte, fate un po’ voi), e questa indole un po’ più autoriale-tra-virgolette e un po’ meno luna park credo non faccia male a nessuno, ma l’impressione è che potremo giudicare le scelte di questa prima parte soltanto quando avremo visto la seconda.

The Social Network, David Fincher 2010

The Social Network
di David Fincher, 2010

Ogni stagione esce almeno un film su cui tutti devono avere un’opinione. Spesso, ma non sempre, il film merita queste attenzioni: The Social Network, senza dubbio, è uno di questi casi. Il vantaggio di questo rumore è la maggior visibilità di un film che sicuramente non rischiava di passare inosservato ma forse di essere frainteso da buona parte del pubblico, attratta magari in sala dalla sirena di Facebook. Gli svantaggi per chi scrive di cinema per passione sono però, da una parte, l’impressione di raggiunta saturazione, persino di ridondanza, per cui qualunque cosa ci sia da dire sul film sembra già stata detta (che sia stata letta o meno), e dall’altra la difficoltà di farsi largo tra i commenti di chi si occupa di cinema una settimana all’anno, giusto perché esce un film che parla di Facebook e di Mark Zuckerberg.

L’osservazione più curiosa che ho fatto nelle ultime settimane, mentre il film cominciava a essere visto (in patria è uscito circa due mesi fa, e la circolazione di uno screener ha reso semplice la sua reperibilità in lingua originale), è invece la netta divisione tra fan di David Fincher e quelli dello sceneggiatore Aaron Sorkin – gli ultimi a difendere il ruolo di primissimo piano del geniale autore di The West Wing nella riuscita del film, i primi a sottolineare (non del tutto a torto) che in un caso come questo è tra le mani del regista, della sua “visione del mondo” e della sua “idea di cinema”, che tutto torna. Ma è proprio in questa sintesi clamorosa che ho trovato il primo aspetto davvero straordinario di questo grande film: la capacità di Fincher di appropriarsi degli estenuanti e stupefacenti dialoghi di Sorkin, gli stessi che insieme a una costruzione narrativa perfetta che unisce una struttura circolare a un uso virtuosistico delle analessi vanno a formare quella che è la miglior sceneggiatura americana dell’anno (e di molti anni a questa parte), riuscendo a domarli in una forma cinematografica intensa e poderosa.

Altro che cinema di dialoghi filmati: basti pensare a sequenze come quella della discoteca, che ti investono in faccia come un treno in corsa, e in cui è evidente l’alchimia perfetta tra la sceneggiatura, la regia, il lavoro ammirevole del direttore della fotografia Jeff Cronenweth, lo stesso di Fight Club (che si permette di rischiare poco, ma quando lo fa raggiunge risultati meravigliosi, vedasi l’incredibile sequenza della gara di canottaggio), e la spettacolare colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross. Quest’ultimo, un aspetto a cui Fincher dà sempre moltissima rilevanza. Non a caso lo score è così prominente, perché aiuta a ottenere una continua sensazione di minaccia, presagio e forse di paranoia, che va a braccetto con lo spirito del protagonista. Che Fincher sia in grado di gestire in modo sublime la scottante materia sorkiniana lo dimostra comunque fin dalla prima memorabile sequenza, autentico pezzo di bravura (il primo di una lunga lista) che riesce a dare in pochi minuti l’idea del ritmo instancabile del resto del film, e mentre i dialoghi gettano le basi tematiche e narrative dell’intera pellicola restituisce dignità alla forma spesso vituperata del campo/controcampo.

Per il resto, The Social Network è tutto ciò che avete sentito, in qualche caso qualcosa di più: tra i risultati più felici di uno dei più interessanti registi contemporanei, è una grande storia americana di solitudine e rivalsa al cui centro c’è questo Mark Zuckerberg, antieroe sociopatico e sgradevole che grazie all’interpretazione (ben oltre la mimesi) di Jesse Eisenberg catalizza in un continuo rimbalzare tra empatia e repulsione le ansie e le frustrazioni di un’intera generazione – o meglio, di un intero sistema sociale. Ma è anche una storia di amicizia virile che (come già era successo in altri film di Fincher, come per esempio Zodiac) sembra prendere sempre più in prestito toni e linguaggi da dramma romantico, con le cause milionarie al posto dei tavoli dei divorzi, trasformandosi in una bizzarra ma commovente storia d’amore cieco e impossibile. E poi, quello che hanno detto tutti: un film che inquadra il presente con una lucidità frastornante e ipnotica, nascondendo dietro il racconto di un’ossessione una disamina spietata delle dinamiche contemporanee – un film che ora osserivamo con grandissima ammirazione, persino con timore, con un misto di entusiasmo e profondo disagio emotivo, ma a cui, con tutta probabilità, se tutto va come previsto, tra qualche anno guarderemo come a un’opera che ha raccontato, e segnato, un’epoca.

The Other Guys, Adam McKay 2010

The Other Guys
di Adam McKay, 2010

Dopo Land of the Lost, avevo dato più o meno per spacciata la formula che aveva portato Will Ferrell al successo (innumerevoli epigoni compresi) e ai risultati più esilaranti della sua carriera, il cui culmine insuperato è ancora il Roy Burgundy di Anchorman: una decadenza che si poteva già intravedere nella stanchezza del divertente (e basta) Semi-Pro e che sembrava definitiva. Ma The Other Guys mi fa ricredere quasi del tutto: Ferrell si è tirato indietro in fase di sceneggiatura, ma è il “suo” film più divertente dai tempi di Talladega Nights.

Al dì là del fatto che Adam McKay è in stato di grazia e la sua sceneggiatura scritta insieme a Chris Henchy è un ricettario eccellente (e “quotabilissimo”) di situazioni comiche e dialoghi riuscitissimi, il film trae molto giovamento dall’equilibrio tra Ferrell e Mark Wahlberg, tutt’altro che una spalla. E inoltre, il personaggio di Ferrell non è più lo screanzato ignorante per cui  ha passato il testimone alla triade Jody Hill – Ben Best – Danny McBride (plus David Gordon Green): era ora che l’attore si inventasse qualcosa di nuovo e fresco. Sorpresa: funziona benissimo. Il terreno su cui si muove non è certo dei più vergini, e questo non è il primo caso recente di “parodia” (tra virgolette) del buddy movie: ma se The Other Guys non è Hot Fuzz, ecco, non è nemmeno Cop Out.

La parte più immediatamente irresistibile del film è quella iniziale, con Samuel Jackson e The Rock che fanno i duri da action movie, che si risolve in una delle morti più farsesche che io ricordi: ma McKay riesce a non bruciare tutto subito e il film, a differenza di molte commedie simili, non conosce la classica fase di stanca della parte conclusiva. E anche se la forza del film sta tutta nella riuscita delle singole soluzioni (potremmo passare ore a elencare: la madre di Eva Mendes che viene usata come tramite per messaggi amorosi tra la figlia e Ferrell, Michael Keaton che cita di continuo le TLC senza rendersene conto, il dialogo del tonno e del leone), The Other Guys non si fa divorare dall’abituale abuso del cast di caratteristi (qui pochi e buoni) e ha una sua strana e delicata coesione grazie alla quale non sembra mai di assistere a una collezione di sketch. Ma a un film ben definito, con due personaggi veri. Bene così.

Il film ha già il suo titolo italiano, I poliziotti di riserva, ma per ora non sembra esserci una data d’uscita e il sito italiano della Sony non lo include nella pagina degli sneak preview: qui sento puzza di straight-to-video. Dato che il film in italiano perderebbe praticamente tutta la sua comicità verbale, il consiglio è di recuperarlo in lingua originale: il dvd Regione 1 esce tra un mesetto, quello britannico a gennaio.