gennaio 2010

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Friday Prejudice #205

[all the single furries]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Baciami ancora, Gabriele Muccino 2010

Baciami ancora
di Gabriele Muccino, 2010

Non ho alcun problema a confessarvi che non provo per Gabriele Muccino quel livore che ho visto negli anni in molti cinefili italiani della mia generazione. Della sua filmografia italiana ho apprezzato alcuni titoli, altri meno; della sua parentesi americana (non ancora chiusa) ho gradito un film, disprezzato l’altro; ma più di tutto, sono sempre stato infastidito dalla tendenza a indicare nel suo cinema la fonte di tutti i mali nonché l’uso spesso sconsiderato di termini come "mucciniano" o "muccinismo".

Allo stesso modo, non ho alcun problema a confessarvi che a mio avviso L’ultimo bacio, film di cui questo nuovo lavoro è evidentemente il sequel, pur non essendo il suo film migliore né un film a cui sono particolarmente legato (in entrambi i casi risponderei senza esitare Come te nessuno mai), era decisamente un bel film. Quale scandalo: e invece si trattava di un giovane regista italiano che aveva saputo portare sullo schermo con enorme successo un film popolare con una padronanza davvero impressionante, visto il contesto, dei mezzi espressivi.

Solo per dirvi che se pensate che L’ultimo bacio fosse un film di merda e che Gabriele Muccino sia un poverino, non credo che ci sia bisogno che leggiate oltre, perché parlerò un’altra lingua.

Infine, venendo al dunque. Sia chiaro, Baciami ancora è un film per cui è impossibile entusiasmarsi, al giorno d’oggi: un po’ per la sua voluta e palese medietà, ma anche perché il Muccino spudorato e sbruffone dei primi film, quello dei piani-sequenza e dei carrelli circolari, è quasi del tutto scomparso, o almeno, il suo stile si è molto acquietato, intimidito. Motivazioni? L’esperienza statunitense, il non dover più dimostrare la sua bravura, ma soprattutto il fatto che lui stesso è invecchiato insieme ai suoi personaggi. E cresciuto.

Se il nuovo Muccino tornato in patria è anche meno cinico e disilluso, senza dubbio più romantico, forse anche un po’ più pacchiano, allo stesso tempo è infatti un regista e sceneggiatore più maturo, non più così insostenibilmente misogino (forse è la differenza più rilevante tra i due film) né così egotista, capace di fare persino un passo indietro nel fuoricampo quando è il caso, di stemperare le sue strillate nevrosi con l’ironia – ed è soprattutto in grado di farci bere un film corale di due ore e venti minuti come fosse acqua fresca.

Un film che non nasconde però le sue ambizioni – e proprio la lunghezza è un preciso sintomo: Gabriele Muccino ha voluto chiudere un sacco di questioni lasciate aperte dal primo film, riaprendone altrettante, affontate a volte con amichevole affetto, altre con un piglio francamente cupo. Niente di particolarmente profondo, si intenda: ma quelle quattro cose in croce che dice, sui rimpianti e sulle seconde occasioni spesso mancate, e sulla riscoperta tardiva di una felicità ormai perduta (o forse no), le dice come si deve.

Chiunque abbia detestato Muccino troverà in Baciami ancora un sacco di cose di cui lamentarsi, moltissime altre da deridere, in una vera e propria antologia di tutto ciò che del suo cinema ha sempre detestato. Con qualche aggiunta eccezionale: il make up di Giorgio Pasotti, le scene madri sotto la pioggia, la canzone di Jovanotti sui titoli di coda – quest’ultima, una pietra tombale su qualunque discussione in merito al film.

Eppure Baciami ancora, seppur sorpassato di molte lunghezze da altri più meritevoli colleghi capaci di accogliere molto meglio di Muccino l’eredità del miglior cinema italiano, è un film che mi sento quasi in dovere di difendere. O forse, più semplicemente, mi è piaciuto. Non tanto, ma il giusto, a sufficienza. Tutto sommato, non è che il film mi chiedesse di più. E sì, non ho alcun problema a confessarvelo.

Come Dio comanda, Gabriele Salvatores 2008

Come Dio comanda
di Gabriele Salvatores, 2008

Levataci di torno la premessa per la quale aver letto un libro da cui è tratto un film e poter così capire il lavoro di adattamento che è stato svolto è un aspetto interessante ma non è necessario né dovrebbe condizionare in alcun modo il giudizio sul film stesso e quella, nello specifico, per la quale io non ho letto Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, da sostenitore del cinema di Salvatores vorrei tanto essere più breve possibile nello scrivere quello che secondo me è, approssimativamente, il suo film meno riuscito. Meno riuscito di Amnésia.

Ne scrivo solo per una sorta di autoimposizione, per format, per coerenza. Ma preferirei dire: passiamo oltre, punto e a capo, il prossimo prego. Sarà un problema mio, ma non sono riuscito a capirlo, Come Dio comanda. Non tanto cosa volesse essere, ma proprio perché fosse necessario farlo. Da principio, mi risulta anche difficile non pensare che il film sia un pretesto per osare una cosa magnificamente differente come la terribile e interminabile sequenza centrale – cuore del film e, purtroppo, quasi la sua unica ragione di esistere.

Ho l’impressione però che la freddezza e persino il fastidio che mi ha lasciato il film siano dovuti soprattutto alla rigitidà letteraria dell’assunto narrativo, e ai personaggi che si chiamano e che dicono cose e fanno cose come solo i personaggi di un testo di Ammaniti potrebbero fare – tutt’altro che il mondo reale, semmai una versione gommosa e superficiale (anche in un’accezione positiva, altrove), che fa acqua da tutte le parti se si comincia a voler scavare nel tessuto sociale oppure nel cuore nero dell’umanità. Ambizioni malriposte.

Insomma, cosa c’è che non va in Come Dio comanda? Approssimativamente tutto, dalla fallita provocazione di un ribaltamento empatico così estremo, giù giù fino alle tremende scelte di soundtrack, con un Antony sul finale che grida vendetta a quello stesso Dio. Ma se proprio volete dare la colpa a qualcuno, datela a Elio Germano, attore altrove bravissimo che qui fa l’errore che in Tropic Thunder viene definito going full retard. Insomma, Salvatores era impegnato a pensare ad altro per poter badare anche alla direzione degli attori?

Ne sono quasi certo: il film è infatti, casualmente, stupefacente da un punto di vista visivo, con una fotografia (di Italo Petriccione) cupa e livida che riesce a riflettere da sola l’inquietudine, la paura, la solitudine e l’incomprensione della provincia molto più di quanto non riesca a fare la zoppicante sceneggiatura e un cast lasciato allo sbando. In questo Salvatores è ancora uno dei registi più preziosi che abbiamo, uno che non mette mai in secondo piano il livello plastico dei suoi film, uno che non inquadra mai niente a caso. Anche quando poi gli viene male. Passiamo oltre, punto e a capo, il prossimo prego.

L’uomo che fissa le capre, Grant Heslov 2009

L’uomo che fissa le capre (Men who stare at goats)
di Grant Heslov, 2009

Negli ultimi mesi, il film di Heslov ha avuto una notevole visibilità, anche nel nostro paese, accentuata senza dubbio da una delle più buffe locandine mai viste a memoria d’uomo e da un titolo altrettanto bizzarro, la cui motivazione risiede soprattutto nei protagonisti e nei ruoli che interpretano. In primis per la presenza di un baffutissimo George Clooney; ma effettivamente Goats ha uno dei cast meglio assortiti degli ultimi tempi. Ed è proprio grazie a loro (a patto di avere la fortuna di vederlo in lingua originale, ovviamente) e a un’ottima direzione d’attori che punta tutto sul contrasto riuscito tra la serietà del contesto e l’assoluta demenzialità delle situazioni raccontate (nonostante sia così importante per Heslov sottolineare che "c’è del vero"), che il film acquista valore: senza l’irresistibile talento leggero di Clooney e il fascino insito nel poter vedere Jeff Bridges interpretare un soldato hippie, Goats sarebbe una cosetta molto modesta. Una commedia antibellica indubbiamente divertente e di cui si apprezza la capacità di mettere uno accanto all’altro elementi incompatibili con un piglio tra il goliardico e il surrealista, ma con serissimi problemi a mantenere desta l’attenzione dopo la folgorante prima parte e in definitiva (te ne accorgi più o meno solo a film finito: io lo definirei un pregio) abbastanza inconsistente.

L’uomo che verrà, Giorgio Diritti 2009

L’uomo che verrà
di Giorgio Diritti, 2009

Quello che è riuscito a fare Giorgio Diritti con questo suo bellissimo, midiciale, straziante secondo lungometraggio di finzione dopo il "caso" di Il vento fa il suo giro ha davvero del miracoloso: narrare sullo schermo una pagina di storia italiana così dolorosa da essere quasi irraccontabile senza rinunciare in nessun modo alla meraviglia del cinema, accostando la matura consapevolezza del proprio doloroso messaggio a quella del linguaggio cinematografico, con un piglio spiccatamente neorealista (nell’accezione migliore e meno banalizzante del termine) e una realizzazione impeccabile che farebbe la gioia dell’Academy – se per una volta presentassimo loro il film giusto.

E come se non bastasse, Diritti non ha scelto certo la via più facile per raccontare la vicenda, bensì il più ostico, complesso, impossibile dei punti di vista: quello dei bambini, e quello delle vittime. L’uomo che verrà è un film che racconta l’insensatezza della Storia degli uomini attraverso gli occhi di chi non può comprenderla ("ecco una cosa che ho capito, che molti vogliono ammazzare qualcun altro") e di chi non ne ha alcuna intenzione ("chi se ne frega della storia e di chi la fa"), attraverso lo sguardo di chi vede soltanto l’essenziale, la morte, la vita, e che non può che lottare per la sopravvivenza di quest’ultima.

La scelta di Diritti, una scelta coraggiosa e che fa immediatamente la differenza nel film fin dalla prima sequenza, è quindi di accostarsi quieto dietro le spalle di Martina per parlare agli spettatori senza filtri e condizionamenti – non solo narrativamente ma anche a livello linguistico, con un uso sapiente quanto assolutamente spudorato della soggettiva – spalancando gli occhi di fronte a un mondo sporcato per sempre dall’insensata violenza dell’umanità.

Un mondo e un’umanità a cui viene data però ancora un’ultima possibilità: quella di raccontare alle nuove generazioni il proprio passato, di cantare anche a bassa voce le nenie di un tempo altrimenti soffocato dalla morte, perché l’uomo che verrà non deba ripetere gli stessi maledetti errori.

Un film dolente e universale, maledettamente stupendo.

Meriterebbe un post a parte la colonna sonora curata da Marco Biscarini e Daniele Furlati: tra ninna-nanne, trascinanti melodie morriconiane e inquietantissimi cori atonali, un autentico capolavoro. Si può acquistare su iTunes: lo stupefacente tema del film è la traccia 30.

Cold souls, Sophie Barhes 2009

Cold souls
di Sophie Barthes, 2009

Non è un caso che l’esordio di Sophie Barthes, regista francese trapiantata a New York, sia stato spesso confrontato con l’opera di Charlie Kaufman: difficile soprattutto non pensare a un film come Essere John Malkovich di Spike Jonze, ma se il suo spirito non è più così inusuale come sarebbe stato una decina di anni fa, Cold souls è comunque un film molto originale, non tanto per la bizzarria della sua trama ma per la lente surrealista attraverso cui la regista sceglie di guardare un mondo in cui sembrano annullarsi le distinzioni tra realtà e sogno.

A New York, e per l’esattezza a Roosevelt Island, esiste una società il cui servizio è l’estrazione e il deposito dell’anima, nel caso quest’ultima diventi troppo pesante per l’invidividuo. L’attore Paul Giamatti, in difficoltà di fronte all’interpretazione a teatro dello Zio Vanja e reso inerme da un’indefinibile depressione, decide di sbarazzarsi temporaneamente della sua, senza però sapere che è già in atto un fitto commercio in nero dalla lontana Russia. E quando la sua minuscola anima a forma di cece sparisce dall’archivio, sarà necessaria una visita ai minacciosi trafficanti di San Pietroburgo, con l’aiuto di una donna che fa da corriere di anime attraverso l’Oceano.

Coltissimo e colmo di riferimenti letterari e cinematografici, Cold souls è in definitiva un esordio davvero sorprendente, che seppure coltiva con malcelata superbia la palese ambizione di far parte di una precisa tradizione che va da Gogol a Bunuel, dal teatro dell’assurdo a Woody Allen, possiede senz’altro anche un avvicinamento ai dilemmi filosofici molto personale. E ambivalente: da una parte sardonico e distaccato, con una sceneggiatura divertita e a tratti quasi comica, in cui è d’aiuto la prova del protagonista, costretto nei panni di se stesso con spietata autoironia, e poi improvvisamente cupo e malinconico – un metodo che permette alla sagacia simbolista dello script di non annichilire il cuore dei suoi personaggi.

Ma Cold souls è anche un film con una New York onirica e spettrale, fotografata splendidamente da Andrij Parekh, con una riflessione per nulla banale sul lavoro dell’attore, e con quello che è probabilmente il miglior Paul Giamatti di sempre.

Non è prevista alcuna uscita italiana. Il dvd britannico esce a metà marzo, si può già ordinare.

Gamer, Neveldine/Taylor 2009

Gamer
di Mark Neveldine e Brian Taylor, 2009

Stavo cominciando a chiedermi quando il gioco di Neveldine/Taylor, il duo di autori di Crank e del suo sequel, avrebbe cominciato ad avere il fiato corto. E in un certo senso Gamer rappresenta proprio questo: lo stile incontrollato, beffardo e allegramente morboso dei due non è più così esaltante come nei due film precedenti. Forse perché privato della fisicità così specifica di un attore come Jason Statham? O forse perché le metafore distopiche sulla linea di classici come The running man ma aggiornate all’epoca dei Sims e dei FPS sono didascaliche e pretestuose?

Più probabilmente perché con questo terzo film i due registi cercano una via (relativamente) più tradizionale. Quello che resta di grande valore infatti, pur nella corpulenta e rumorosa sciocchezza di questo film, è la capacità innegabile di Neveldine/Taylor di gestire l’azione pura (e in questo caso anche la rappresentazione di un invidiabile armamentario tecnologico) con mezzi che altri considererebbero insufficienti: incredibile che un film così rutilante e spettacolare, a suo modo, sia costato solo una dozzina di milioni di dollari. Il problema del film credo risieda quindi più che altro nel suo tentare, tra una sparatoria sanguinolenta e l’altra, di rientrare all’interno di binari narrativi più canonici (il modo in cui è dipinto il villain del comunque ottimo Michael C. Hall, per esempio nel suo "classicissimo" svelamento finale) abbandonando troppo spesso la furia distruttiva per darsi a una satira un po’ tirata via, carente di ironia, o più semplicemente fuori posto.

Chiudendo un occhio, ci si può divertire. A volte però bisogna chiuderli entrambi.

An education, Lone Scherfig 2009

An education
di Lone Scherfig, 2009

La prima sceneggiatura scritta appositamente per il cinema da Nick Hornby è prevedibilmente un meccanismo di micidiale perfezione, tra dialoghi impeccabili e ribaltamenti di prospettiva, ma il film della danese Scherfig non è certo tutto lì: c’è anche l’affresco di un’Inghilterra anni ’60, periferica e suburbana, quasi inedita, in contrasto dai lustrini della capitale; e c’è uno dei cast più brillanti del cinema britannico recente. Anche perché il film non butta via niente: tra le cose migliori del film ci sono personaggi come quelli di Olivia Williams e Alfred Molina, capaci di esprimere tutta una vita in una scena. Normale però che sul film spicchi senza sforzi la performance, davvero impressionante, di Carey Mulligan, che grazie al suo talento fa prendere il volo al film. Che meriterebbe senza dubbio più spazio di quello che gli sto dedicando: ma tutto sommato, An education è un film che vive dei propri momenti, di sensazioni quasi palpabili: andate a vederlo e lasciate che vi parli di persona.

In sala dal 5 febbraio 2010

A single man, Tom Ford 2009

A single man
di Tom Ford, 2009

Non penso certo che lo stilista Tom Ford abbia fatto un completo buco nell’acqua con questo suo esordio dietro la macchina da presa, pur non trattandosi propriamente del suo mestiere: il film è tanto elegante quanto trasparente, curatissimo nei dettagli scenografici, molto chiaro nel suo intento. Che sembra essere quello di raccontare una storia di amore, perdita, solitudine, incomprensione, abbandono, morte, elementi ben più rilevanti rispetto alla peculiarità della storia d’amore stessa. E lo fa, senza dubbio, con ammirevole coerenza.

Ciò non toglie che A single man sia a mio avviso un’occasione perduta, nonostante gli ottimi auspici e l’accoglienza straordinaria. Le ragioni del mio disappunto sono diverse, tra cui forse l’approccio molto elementare di Ford (anche sceneggiatore) alla struttura narrativa, una messa in scena manierista e glaciale che sembra rifarsi più che altro a una tradizione pubblicitaria (anche se "alta"), e soprattutto la sensazione un po’ fastidiosa di presunzione sulla profondità della propria opera che va al di là delle effettive capacità del suo autore – come se bastasse a commuoverci il fatto che si sta raccontando una storia commovente. E non ultima, va da sé, la noia.

Così che A single man, con i suoi ralenti autocompiaciuti, l’ossessione quasi feticista per il dettaglio, il vestito giusto, il volto giusto, mi è sembrato un film che scambia il prendere tempo con la riflessione filosofica, una focale corta in più degli altri per uno sturbo estetico, mi è parso insomma un film per il suo autore più che per il pubblico, senz’altro un film più bello da vendere che da vedere – oltre che migliore nei suoi singoli elementi che nel suo svolgimento. Allo stesso modo ho trovato però particolarmente riuscita l’idea di utilizzare l’alternanza tra saturazione e desaturazione in senso espressivo, per restituire (alla perfezione, a un livello quasi inconscio) l’idea di un mondo ingrigito dalla solitudine che riesce, talvolta, a riprendere colore di fronte alla riscoperta bellezza della vita.

Posto che l’interesse di Tom Ford, confermato dal fascinoso cast, sembra quello di far parlare i volti più che far parlare gli attori, è comunque difficile dire più di tanto sull’interpretazione sommessa e convincente di Colin Firth o su quella, più abitualmente sopra le righe, di Julianne Moore, entrambe rovinate dal doppiaggio italiano.

Friday Prejudice #204

[la rivincita]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice. Sai mai, magari sbagliate film.

La principessa e il ranocchio, Ron Clements e John Musker 2009

La principessa e il ranocchio (The princess and the frog)
di Ron Clements e John Musker, 2009

Da queste parti, nella Disney a due dimensioni, più che la fiducia, si è da tempo perso l’interesse: La principessa e il ranocchio, diciamo per amor di sintesi, non aiuta certo a riavvicinarsi alle sorti dell’animazione 2D. Non che ci sia niente di male, nel ritorno alla regia di Clements e Musker (La sirenetta, Aladdin, Hercules, Il pianeta del tesoro): il loro è un film innegabilmente piacevole e inaspettatamente fresco nonostante sia volutamente datato e dannatamente tradizionale (non che sia un male di per sé), e in qualche modo riesce a riportare interesse, anche con l’ausilio di qualche scaltrezza, in un sistema produttivo che lo strapotere della Pixar ha necessariamente relegato nelle seconde file. Però, a un certo punto, uno fa cadere l’occhio per sbaglio sul budget, più sostanzioso di quello (per dirne uno) di Piovono polpette e quasi il doppio di Coraline, e visto l’effettivo risultato è forte la tentazione di chiedersi: ne vale veramente la pena, pur di potersi riempire la bocca con considerazioni malinconiche su quanto erano più belli "i cartoni" quando li facevano a mano? Poi vabbè, nel film ci sono molte cose che funzionano alla perfezione (il villain) così come altre lasciano invece a desiderare (le canzoni: dimenticabili, dimenticate). Il film sta nel mezzo: indubbiamente "carino", divertente e spassoso, ma assai poco consistente, e altrettanto utile.

Un matrimonio all’inglese, Stephan Elliott 2008

Un matrimonio all’inglese (Easy virtue)
di Stephan Elliott, 2008

C’è qualcosa di impalpabilmente insoddisfacente nella perfezione di questo film: parlo soprattutto dell’aspetto scenografico, fotografico, della direzione degli attori. Difficile pensare che dietro la macchina da presa ci sia il regista di Priscilla, né tantomeno che vi si sieda un regista australiano: Elliott con questo film sembra abbracciare, anche se in fondo malinconicamente, un cinema britannico spesso accantonato a causa del pastiche: normale che il risultato sia così impeccabile, ma allo stesso modo era forse inevitabile un certo sentore di vetusto e stantìo.

Ad ogni modo, Easy virtue è uno dei film meglio recitati degli ultimi tempi: è grazie alle performance degli attori, soprattutto un gigantesco Colin Firth e un’eccezionale Katherine Parkinson, che Elliott riesce a trasmettere il racconto di due mondi che si scontrano la cui peculiarità è soprattutto il punto d’osservazione, il divertito cinismo che arriva dal trono del terzo incomodo – con uno spassionato tifo per il personaggio di Jessica Biel (qui più brava che bella, ed è tutto dire). L’impero inglese viene lasciato, in definitiva, ad ammuffire insieme ai drappi e al mobilio di un altro secolo: forse anche Easy virtue è un tiepido addio, per quanto tardivo.

Adam, Max Mayer 2009

Adam
di Max Mayer, 2009

Il film scritto e diretto da Max Mayer rientra con facilità nella categoria "film che non hanno fatto la differenza": non arriverei a dire che mi abbia particolarmente infastidito, ma sono lungi dall’affermare che sia un film riuscito.

Sì, lo sguardo di Mayer è molto onesto e accorto. Sì, la performance di Hugh Dancy è misurata e credibile. Sì, Rose Byrne mi piace davvero tantissimo. Sì, il film riesce a evitare tutto sommato quasi ogni rischio patetico del dramma incentrato su una patologia, affrontando la sindrome di Asperger da un punto di vista differente, raccontando una storia d’amore originale e inusuale – o meglio, applicando i canoni di una love story normale a questo contesto ribaltato, trasformandola in una storia di accettazione e normalizzazione.

Il film però non va molto al di là di quest’idea e della sua innegabile sensibilità: troppo concentrato sulla correttezza della prospettiva, si dimentica di suscitare un qualsivoglia interesse che vada al di là delle prove d’attore, spostando l’asse di un film curioso e interessante a tanto così da un produzione Hallmark. Non è che sia un gran complimento.

La data d’uscita di gennaio è temporaneamente sparita, ma il film dovrebbe comunque uscire nei prossimi mesi nei cinema italiani, distribuito da 20th Century Fox.

Friday Prejudice #203

[boom boom boom*]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

*I wanna hear you say ehi oh! EHI OH!

La prima cosa bella, Paolo Virzì 2010

La prima cosa bella
di Paolo Virzì, 2010

L’anno del cinema italiano non poteva iniziare sotto un segno migliore: ma il nuovo film di Paolo Virzì è molto più che un buon auspicio: la storia dolce e amara di una madre bellissima e travolgente, di un passato burrascoso rivissuto attraverso gli occhi e la memoria di un figlio triste a cui "ha rovinato la vita", di una città da cui fuggire ma con cui prima o poi si deve tornare a fare i conti, la storia di un padre, di un fratello e di una sorella e di una famiglia, la storia, di disarmante sincerità, di un amore scontato ma grande come un’intera vita, di una sera, di una fotografia e di una canzone. E molto più banalmente, una delle opere più felici del regista toscano.

Il mio problema, al momento, è che la visione di La prima cosa bella è stata una delle esperienze più coinvolgenti e commoventi della mia recente vita di spettatore. Forse è un problema mio, anzi, lo è sicuramente – ma resta che ho qualche problema a razionalizzare, a spiegarvi perché il film è imperdibile, semplice eppure stupefacente, perché Paolo Virzì e Francesco Bruni non sono mai stati così in forma, perché sono gli eredi più veri e profondi della miglior commedia all’italiana, del mondo che la sua lente deformante e spietata rende ancora più bello e toccante, oppure perché Micaela Ramazzotti è sempre più sorprendente o perché a Stefania Sandrelli voglio bene come se fosse una di famiglia.

Fidatevi e basta.

Avatar, James Cameron 2009

Avatar
di James Cameron, 2009

Sono già pronto. Da sabato scorso, quando ho visto il film, mi sono preparato a tutto: so già perfettamente cosa sentirò e leggerò da domani in avanti, durante i pasti, sui mezzi pubblici, al bar, nei vostri status di Facebook. Leggerò e sentirò che il film è semplicistico, banale e scontato, che è "un’americanata", che la storia non è all’altezza degli effetti speciali, che gli effetti speciali sono belli ma che film è "una cazzata".

Lasciatevi dire una cosa: PFFT. Non avrei altro da aggiungere su questo argomento: se dopo quasi tre ore di questo spettacolo allucinante e spudorato, con i vostri occhialetti 3D sugli occhi e una poltrona bella comoda, uno schermo grande e senza vicini di posto che vi portano fuori strada sbuffando, se dopo questo venite a dirmi che la storia però è la solita solfa, concedetemi di pensare che sia anche un po’ un problema vostro. PFFT.

Che poi, lo sapete che c’è? Che questa benedetta "storia", con cui molta gente si sta mostrando tanto ossessionata, "il contenuto", non è una cosa così semplice. Anzi. La battaglia che mette in campo il film non è semplicemente quella tra buoni e cattivi sullo sfondo di un amore impossibile: gli ultimi hanno il volto di un’umanità sconfitta, una razza in fuga, dichiaratamente vicina all’estinzione, probabilmente per sua stessa mano, una cultura morente perché ha dimenticato il rapporto tra il corpo e il mondo. E sì, lo so bene, che ho scritto "corpo", e sto per scriverlo di nuovo. E al di là dei più semplici e meno sottili richiami e ricorsi storici, le opposizioni del film sono palesemente costruite su quello: da una parte c’è l’ossessione umana dell’alterità, con gli avatar alieni e i robot-marionetta, e dall’altra un popolo che tramite connessioni organiche è un tutt’uno con il mondo, una sintesi tra cultura e natura. Altro che superficiale sfoggio di effetti speciali.

D’altra parte, poi, c’è tutta la creazione di un mondo e delle sue leggi, che Cameron affronta con una ybris a tanto così dal delirio di onnipotenza, chiedendo allo spettatore di abdicare alla propria immaginazione per dedicarsi incondizionatamente alla sua, ficcando dentro l’atmosfera di Pandora i sogni e gli incubi di una dozzina d’anni, con una foga incontrollabile e un entusiasmo compositivo che lascia senza fiato. E scegliendo come veicolo narrativo di questo suo mondo una vicenda che, più che "banale", definirei piuttosto archetipica (oltre che profondamente cameroniana) ma con caratteri fiabeschi che si adattano alla perfezione alle ambientazioni del film, tanto sognanti quanto terrificanti.

Ma se anche fosse, se anche avesse ragione chi dice che il film è scritto in fretta e furia perché l’importante sono le battaglie, le fughe, i voli e le esplosioni, sinceramente: chi se ne frega. Primo, perché l’evoluzione tecnologica sarebbe già di per sé portatrice di significato, soprattutto in un film così, che al di sotto della meraviglia visiva fa pulsare una riflessione spietata, disillusa e crudele del futuro del genere umano e (ancora una volta) delle sue preziose macchine – così come lo sono, portatori di significato, le visioni, i sogni, e le passioni che prendono vita nell’incarnato blu e negli incredibili occhi (finalmente!) del popolo Na’vi.

Ma ancora di più, perché Avatar è prima di tutto uno spettacolo sconvolgente ed emozionante, un film che stai a guardare dall’inizio alla fine con gli occhi e la bocca e il cuore spalancati, sognando di trasferirti tra le foreste di Pandora, sognando di volare, di volare a cavallo di draghi multicolore dannazione!, sognando di fonderti con la natura, con le maledette piante!, di sentire pulsare dentro il tuo corpo le voci dei tuoi antenati, dei tuoi simili, di tutti i popoli a venire. Una cosa così.

Ti stramo, Pino Insegno e Gianluca Sodaro 2008

Ti stramo
di Pino Insegno e Gianluca Sodaro, 2008

Una volta ogni tanto mi piace mettermi a difendere l’indifendibile, con il rischio che un appoggio relativo al sistema venga scambiato per una convalida entusiasta e assoluta: pazienza, questa non è la prima né sarà l’ultima volta che mi trovo a fare l’avvocato del diavolo. Ho una pellaccia.

Perché sono sicuro che state pensando che a un film diretto da Pino Insegno, presenza malefica e detestabile della televisione italiana, oltre che tra i più orgogliosi rappresentanti della lobby dei doppiatori, oltre che membro della terribile Premiata Ditta che al cinema ci provò già nel 1995 con il terribile L’assassino è quello con le scarpe gialle, non dovrebbe essere nemmeno concessa dignità di post. E perché mai? Mettiamo da parte gli atteggiamenti snob e concentriamoci sulle intenzioni e, ex post, sui risultati.

Le prime sono quantomeno rispettabili, se non condivisibili: le parodie demenziali di film, generi o filoni, nel cinema americano hanno una lunga tradizione, ma in Italia sono praticate poco, spesso malamente, soprattutto negli ultimi decenni – dopo aver fatto la fortuna, a modo loro, di star come Totò o Franchi e Ingrassia. L’intento dei due registi e della sceneggiatrice Francesca Draghetti (anche lei della Premiata Ditta: la meno insopportabile delle due) è quindi quella di fare un film italiano che si rifaccia in tutto e per tutto al linguaggio degli spoof americani, un’operazione simile a quella che Ezio Greggio compì nel 1994 con Il silenzio dei prosciutti rifacendosi al suo amico e mentore Mel Brooks.

Ma laddove Greggio omaggiava alcuni suoi film del cuore scomodando un cast di caratteristi statunitensi, il bersaglio di Insegno e Sodaro è tutto italiano, ed è – ovviamente – il cinema adolescenziale portato al successo da autori come Volfango de Biasi, Federico Moccia e Fausto Brizzi: il sottotitolo del film, Ho voglia di un’ultima notte da manuale prima di tre baci sopra il cielo, non lascia certo molti dubbi. E che dire, oh, perlomeno abbiamo un nemico in comune: alla fine provo più antipatia per quel tipo di cinema che per l’intenzione di fare un film demenziale che lo sfotta – seppur bonariamente, amabilmente, senza avere la pretesa che lasci il benché minimo graffietto sulla fiancata di un sistema che vale milioni di euro.

E come è andata, insomma? Chiaro: non è certo così come non poteva essere un lavoro di fino, né si tratta un’operazione particolarmente raffinata. Va bene, d’accordo, il film è una sciocchezza e gli attori (tranne Ughetta D’Onorascenzo, che interpreta Didi) sono tutti dei cani da galera: e questo potevate capirlo da soli. Ma forte del fatto di essersi costruito addosso una delle aspettative più basse che la storia del cinema italiano recente ricordi, Ti stramo in realtà fa molti più sforzi del previsto, e pur non riuscendoci sempre perché alcuni personaggi sono davvero improponibili e imbarazzanti (la sorellina cicciona e ninfomane, il dj napoletano), azzecca un numero decente di gag, a volte spingendo sul tasto dell’assurdo (la gag dell’idrante) o dell’idiota (la gag del delfino), altre volte rubacchiando qua e là dai classici del genere, e finisce per far ridere più di quanto io sia disposto ad ammettere in questa sede.

Siamo lontanissimi dalle opere migliori dei fratelli Zucker e di Jim Abrahms, e grazie al cazzo: ma Ti stramo ha molta più dignità dei film con cui Jason Friedberg e Aaron Seltzer si sono arricchiti in questi anni.

No, non mi hanno pagato.

Primer, Shane Carruth 2004

Primer
di Shane Carruth, 2004

E’ bene fare una precisazione: se non avessi avuto a disposizione il tasto "pausa" e sotto gli occhi una sinossi dettagliata del film da seguire passo passo, non credo che sarei riuscito a capire granché di quel che accade in questo film, soprattutto nei primi e negli ultimi 20 minuti. In verità, anche con questi aiuti non sono certo di avere compreso totalmente la struttura temporale di Primer.

Ma questo non fa che aumentare il fascino di un film piccolo ma a suo modo estremo nell’applicare la sua idea di partenza: quella di un film sul viaggio nel tempo che non scenda mai a patti con lo spettatore ma piuttosto con la realtà e la scienza, che non presenti insomma soluzioni condiscendenti nel dispiegarsi del paradosso. Insomma, il nucleo del film è questo: se qualcuno inventasse davvero un modo per viaggiare nel tempo (a) lo farebbe per sbaglio (b) farebbe uso più ingegneria che filosofia, più cinismo che avventura e (c) farebbe un gran macello.

Soltanto un ingegnere matematico come Carruth, al suo esordio, potrebbe aver pensato di realizzare qualcosa del genere, un film sul viaggio nel tempo così anticlimatico e così complesso – ma anche così affascinante: Primer è un’opera che mette alla prova il cervello dello spettatore, che non lascia la possibilità di distrarci un minuto e che lascia in bocca una sensazione di angoscia, di mutazione, di disillusa disfatta, anche senza bisogno comprendere tutti i passaggi – anche perché, dopo una visione sola, è una bella sfida.

Ma non c’è solo questo: c’è anche una messa in scena calibrata, talentuosa e inquietante, che sa utilizzare le luci e i colori in senso davvero espressivo. E al di sotto del caos temporale, una storia di ambizione e ybris che lascia di sasso. In ogni caso, massimo rispetto a Carruth per aver realizzato tutto ciò, di fatto, con solo 7 mila dollari e un paio di settimane di riprese, scrivendo, dirigendo e interpretando il ruolo di protagonista – anche se poi ha passato due anni della sua vita a montarlo.

Primer fece innamorare molti al Sundance, qualche anno fa. Ora il pubblico, qui presente, richiederebbe a gran voce a Carruth un’opera seconda. Stiamo pronti col bigino.

Il film non è mai uscito in Italia, se volete il dvd uk costa una decina di euro.

Eric Rohmer R.I.P.

[adieu]

È morto Éric Rohmer. Aveva 89 anni.

Big fan, Robert D. Siegel 2009

Big fan
di Robert D. Siegel, 2009

Tra i film accolti più calorosamente nell’edizione 2009 del Sundance Film Festival c’è stato sicuramente l’esordio alla regia di Robert D. Siegel, che si è fatto le ossa come redattore del celebre sito satirico The Onion per poi scrivere niente meno che la sceneggiatura di The Wrestler. Ma se c’è un motivo per cui il film ha ottenuto l’attenzione dei media, soprattutto sulla rete e nei blog specializzati, è il protagonista Patton Oswalt.

Da noi è quasi del tutto sconosciuto, ma Oswalt è uno dei più bravi e applauditi stand-up comedian della scena alternativa americana già dagli anni ’90, e negli ultimi anni è uscito definitivamente allo scoperto anche presso il grande pubblico, prima con un ruolo fisso nella lunga sit-com King of the queens (comunque inedita in Italia), poi grazie al doppiaggio di Remi nell’edizione originale di Ratatouille, e ultimamente in diverse serie tv molto popolari tra cui United States of Tara e Dollhouse. Quella di Big Fan era una scommessa non da poco, se si ha presente il personaggio: incentrare sulla fisicità dell’attore una storia drammatica di solitudine e alienazione sociale.

Paul Aufiero è un parcheggiatore quasi 40enne, vive ancora con la madre, e nella vita ha un solo interesse e una sola ossessione: i New York Giants. Una sera incontra in un locale il suo eroe. Che lo massacra di botte e lo manda all’ospedale. L’apporto di Oswalt, che interpreta il protagonista con un’intensità e insieme un’ironia sconvolgenti, è stato ben più che determinante per il film, e ha permesso a Siegel di muoversi agilmente in due direzioni: la prima è il ritratto di un tifoso americano ma soprattutto quello, cinico e caricaturale, dell’imbarazzante fauna di Staten Island che gli gira intorno; la seconda è la tesissima discesa all’inferno di Paul fino all’incontro con la sua nemesi, un tifoso dei Philadelphia Eagles.

Questo misto di esasperata tensione à la Taxi driver e di soffocata comicità beffarda si può confrontare facilmente con Observe and report, anche per la sfida al typecasting del suo protagonista. E anche se il film di Jody Hill è ben più compiuto e crudele di questo, anche Big fan rientra senza dubbio tra i film indipendenti americani più stimolanti, bizzarri e squilibrati dell’anno appena trascorso.
 

Dubito che il film abbia la benché minima intenzione di uscire in Italia. Il DVD (USA-Regione1) esce il 12 gennaio. Fate i vostri conti.