gennaio 2010

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Drillbit Taylor, Steven Brill 2009

Drillbit Taylor
di Steven Brill, 2008

I numi tutelari di questo film sono principalmente due: il primo è il compianto John Hughes, da cui nasce, secondo i credits, l’idea dei tre geek tormentati tra i corridoi delle superiori che decidono di assumere un barbone come guardia del corpo. Il secondo, più diretto e ancor più decisivo, è la sublime serie tv Freaks and geeks: andata in onda una decina di anni fa (ma mai sbarcata in Italia) la serie creata da Paul Feig e prodotta da Judd Apatow, ambientata in una high school del Michigan nel 1981 e trombata dal network dopo una sola bellissima stagione, raccoglieva proprio l’eredità di Hughes adattandola ai tempi e con un cast di future star (James Franco, Seth Rogen, Jason Segel), e ha rappresentato il vero terreno fertile sui cui è cresciuta la commedia americana degli ultimi anni.

In questo film Apatow infatti produce, Seth Rogen è co-autore della sceneggiatura, e i tre ragazzini protagonisti, con le dovute varianti del caso, sembrano un rip-off assai meno riuscito del trio di irresistibili freshman della serie, Sam Neal e Bill. Ma non c’è dubbio che rispetto agli altri due bellissimi script firmati da Rogen per il cinema, Superbad e Pineapple express, qui i risultati siano diversi. Forse perché il target è decisamente più basso (Drillbit Taylor è sostanzialente la versione tween di un prodotto di Apatow) ma probabilmente anche per demerito di Brill, amico di lunga data di Apatow e di Adam Sandler, che non mostra particolare talento né interesse per la messa in scena. E ancora di più perché, tolto Owen Wilson e Danny McBride, sufficientemente spassosi, il cast fa pena: senza un cast come si deve, è difficile azzeccare un film del genere. E infatti.

Niente di che, insomma. Ma almeno non fa piangere sangue come Anno uno e qualche risata la tira via.

Sherlock Holmes, Guy Ritchie 2009

Sherlock Holmes
di Guy Ritchie, 2009

Trovo che sia abbastanza sciocco che si possa andare a vedere un film come Sherlock Holmes di Guy Ritchie per poi indignarsi (o soltanto per potersi indignare) del fatto che il personaggio di Arthur Conan Doyle non risponda alle proprie aspettative o all’idea che ci si è fatti, nel tempo, di questo personaggio. Primo, perché è chiaro il film risponderà solo e unicamente alla visione del testo originale da parte dell’autore. Secondo, perché è una capricciosa perdita di tempo: se pensate che il film possa ferire il vostro immaginario state a casa vostra, giusto? Il discorso ovviamente si applica a una serie infinita di testi culturalmente rilevanti, per esempio i libri di Tolkien o gli eroi della Marvel.

Detto questo, in realtà, ho trovato lo Sherlock Holmes di Ritchie assai più conforme alla mia idea di Holmes rispetto a quel che mi aspettassi – presuntuoso, antipatico e (solo?) ubriacone, mena le mani come un professionista, lavora di deduzione, possiede il talento (la cui rappresentazione filmica è tra i punti di diamante del film: Sherlock Holmes, a modo suo, è un time traveler) di vedere il mondo come collezione di elementi e non solo come flusso. E alla fine il regista si mette un po’ in secondo piano, soprattutto rispetto ai suoi film passati, mantenendo del suo stile soprattutto lo spirito un po’ goliardico e cazzone, mettendo da parte deviazioni metafisiche (presenti in Revolver ma, tra le righe, pure in Rocknrolla) e lasciando stavolta più spazio alla crew tecnica: in Sherlock Holmes hanno una rilevanza impressionante le (assolutamente splendide) scenografie e i costumi che con piglio steampunk ricreano una Londra elegante e fangosa, una strepitosa città-cantiere dove si muovono cupi complotti all’ordine costituito.

Ovviamente la mano di Ritchie si fa sentire, senza dubbio nel montaggio delle (ottime) scene d’azione, tra cui spicca l’eccezionale scena in slow-motion dell’esplosione, ma soprattutto nella direzione sopra le righe e quasi cartoonesca degli attori: con una coppia come Robert Downey Jr. e Jude Law ha gioco facile. E qui interviene uno dei fattori più interessanti del film, così come uno dei più risaputi (e chiacchierati): come può svilupparsi la trattazione della coppia Holmes-Watson ai tempi del "bromance"? Il film dà una sua risposta, alquanto seducente, ma mantenendo un registro scherzoso che permette di non prendersi mai sul serio – ammiccando, semmai, giusto a chi vuol sentire.

Un mero divertissement, siamo d’accordo, ma di quelli implacabilmente irresistibili.

Friday Prejudice #202

[fuck yeah tony jaa]

Pim pum pam, il nuovo episodio di Friday Prejudice.

The invention of lying, Ricky Gervais e Matthew Robinson 2009

The invention of lying
di Ricky Gervais e Matthew Robinson, 2009

Non è una gran sorpresa che questo film sia costruito su un’idea brillante (riassumendo: l’umanità non ha sviluppato la capacità di mentire, finché un timido e vessato impiegato non "inventa la bugia") anche perché è una considerazione che poteva essere fatta a priori, leggendo una qualunque sinossi. La vera sorpresa sta nel modo del tutto personale in cui Gervais e Robinson applicano questo ribaltamento.

The invention of lying infatti, forse a causa dell’invalicabile "britannicità" del suo protagonista e co-regista, chissà, è un film ancora più strano e avulso dal sistema della commedia americana di quanto il suo bizzarro soggetto possa far credere – non tanto per il tema affrontato ma soprattutto per il procedimento sbilanciato, quasi brutale, con cui il tema viene sviscerato. Soprattutto nella lunghissima prima parte, costruita quasi unicamente su estenuanti dialoghi (ovviamente privi di menzogne) che insistono sul contesto più che sulla narrazione rasentando l’esercizio di stile, e che pur giocando ad armi impari con la resistenza dello spettatore, sono diverse spanne sopra la media della commedia odierna.

Nonostante l’evidente "povertà" del linguaggio cinematografico, ridotto davvero all’osso, forse per letterale incapacità o forse per lasciare più spazio alla sceneggiatura e al lavoro degli attori, qualche artificio sinceramente un po’ facilone (perché la voce fuori campo omnisciente di Gervais nell’incipit?), e qualche colpo a vuoto nella seconda metà, una volta superata la svolta narrativa che da commedia surreale trasforma il film in una più prevedibile ma ficcante satira religiosa, non sminuiscono l’ammirazione per la bravura di Ricky Gervais nel sapersi districare su terreni differenti dai suoi successi televisivi – in attesa che impari davvero a fare il regista, quasi tutto il resto è da amare alla follia.

Ovviamente, se non vi piace Ricky Gervais, statene tranquillamente alla larga.

Il film non ha ancora una distribuzione italiana.

Whip it, Drew Barrymore 2009

Whip it
di Drew Barrymore, 2009

Certe volte la capacità di adattarsi a un canone senza farsi divorare da esso mi sa colpire di più della ricerca dell’originalità a tutti i costi. Oppure, per meglio dire, l’aderenza a un modello prestabilito può non essere condannabile di per sé – così come, senza dubbio, non può considerarsi necessario e sufficiente per portare a casa un’opera riuscita e compiuta. Tutto ciò per dire che Whip it è un oggetto che scatenerebbe l’entusiasmo (o l’ilarità) di qualunque strutturalista: il suo progetto narrativo è infatti ben più che prevedibile, i suoi componenti fanno riferimento alla struttura del "film sportivo" fin nel dettaglio, senza sgarrare di un millimetro, mettendo al margine svolte narrative che, spesso e volentieri, fanno la fortuna del cinema indipendente e la gioia del suo pubblico. Tutto va, per farla breve, come deve andare.

Eppure l’esordio alla regia della notissima attrice, ultima erede di una delle più lunghe dinastie della storia dello spettacolo americano, è perfettamente riuscito, a modo suo. Scritto dalla pattinatrice Shauna Cross sulla base di un suo stesso romanzo semi-autobiografico, Whip it è un film che, per raccontare la sua piccola storia di emancipazione femminile, sceglie senza troppi imbarazzi di sfruttare a fondo proprio la sua stessa rasserenante supponibilità. A costo di farvi arrabbiare: non solo perché rinuncia a prendersi le sue dovute libertà, evita il più possibile di uscire dai confini e dal seminato, ma è anche ambientato in un contesto sociale e culturale che sembra appiattire e livellare i contrasti a cui la sceneggiatura stessa farebbe riferimento: viene raccontato un mondo soffocante da cui è impossibile fuggire, ma sullo schermo vediamo in realtà un mondo senza veri cattivi – un mondo in cui, in fondo, è facile smarcarsi e fuggire verso il lieto fine. Ma questo in fondo è anche il modo, sostanzialmente iperbolico, in cui quasi qualunque adolescente vede e racconta gli ostacoli sulla strada del riconoscimento di sé. Non riesco, insomma, a non provare una punta di entusiasmo per il modo in cui la Barrymore è riuscita, con delle premesse così preoccupanti (e in un’opera prima, seppur tardiva) a fare un film così maledettamente piacevole, e un film così serenamente onesto da premesse così conformiste.

Tra le sue fortune c’è anche quella di aver avuto dietro la macchina un direttore della fotografia come Robert Yeoman, collaboratore fisso di Wes Anderson, che riesce a lavorare su elementi visivi come (per esempio) i contrasti di colore tra le divise, lasciandosi andare di tanto in tanto (comunque più di quanto faccia il resto della crew: un esempio tra tutti è la scena d’amore subacquea), regalando altresì alcune sequenze sportive di notevole impatto – così che la regista possa concentrarsi su qualcosa che fa più parte del suo DNA: la direzione degli attori. Ed è qui, nel cast quasi tutto femminile del film (la solita – irresistibile – Ellen Page, una sorprendente Marcia Gay Harden, una stupenda Kristen Wiig, la Barrymore stessa, spassosa), che troviamo il vero elemento di alterità del film: forse è la spiegazione del perché Whip it, la sua rigidità strutturale, riesca a farsela perdonare, in men che non si dica.

Davvero notevole la lista di 57 canzoni che costituiscono la bellissima traccia sonora del film, tra cui tre pezzoni di Jens Lekman, un paio dei Go! Team, gli Strokes, i CYHSY, i soliti MGMT, eccetera.

Whip it non ha ancora una distribuzione italiana.

American Splendor, Shari Springer Berman e Robert Pulcini 2003

American Splendor
di Shari Springer Berman e Robert Pulcini, 2003

Si può pensare quello che si vuole di American Splendor, ma una cosa è quasi certa: che non esistono molti film come American Splendor. Perché i due registi, che non a caso vengono dal documentario, riescono a realizzare, allo stesso tempo, un film tratto dai fumetti di Harvey Pekar, un biopic di finzione su Harvey Pekar, e un documentario su Harvey Pekar – senza che i tre linguaggi, diversissimi, si annullino a vicenda.

Anzi, è proprio dalla ricchezza di questa strana alchimia che nasce l’assoluta unicità di American splendor: una complessità che però la Berman e Pulcini decidono di affrontare con grande ironia e gusto dell’assurdo e del paradosso, facendo convivere sullo schermo la linearità del miglior cinema indipendente a un impianto quasi teorico sull’identità e l’alterità tra artista e personaggio, e mettono in scena un gioco di specchi tra realtà e finzione dando l’impressione che non si possa fare altrimenti – come se non ci fosse altro modo di raccontarla, la storia di Harvey Pekar. Probabilmente è così.

Grandissima la prova d’attore di Paul Giamatti, magnifica quella di Judah Friedlander.

Wet Hot American Summer, David Wain 2001

Wet Hot American Summer
di David Wain, 2001

Ambientato in un campo estivo nell’estate del 1981, l’esordio cinematografico del regista di Role Models è un caso tipico di film ignorato alla sua uscita e divenuto un cult movie negli anni successivi, attraverso il web e l’home video, ed è un incrocio tra un "summer camp movie" e la parodia degli stessi – con un tono che mescola una malinconia tipica della commedia del decennio a venire con una demenzialità che ricorda più propriamente uno spoof.

Una delle (poche) ragioni per recuperarlo è il cast davvero ricco e pieno di attori che diventeranno pezzi grossi della commedia USA, come Paul Rudd, Amy Poehler, Elizabeth Banks, Ken Marino di Party Down. Con Janeane Garofalo a fare da mentore, insieme al David Hyde Pierce di Frasier. Dalla sua invece Bradley Cooper, che ora è una delle star del cinema americano, esordisce in sala con questo film – facendo sesso con Michael Ian Black in un capanno degli attrezzi.

Chiaramente il film è sciocco, frammentario e volgarotto, ma con le sue pretese veramente rasoterra riesce ad assestare qualche colpetto al classismo degli adolescenti americani. Dire che non mi sono divertito, poi, sarebbe disonesto: il montage della gita in città con la direttrice è assolutamente geniale, così come la gag ricorrente dei bambini morti per la negligenza di Paul Rudd. E tutte le scene in cui Paul Rudd e Elizabeth Banks limonano duro.

Max Manus, Joachim Rønning e Espen Sandberg 2008

Max Manus
di Joachim Rønning e Espen Sandberg, 2008

Non è proprio semplicissimo muoversi nella ristretta e poco diffusa cinematografia norvegese, ma è pur vero che almeno un titolo all’anno spicca sugli altri per il suo successo critico e/o commerciale. Ed è facile identificare questo singolo film con il vincitore del nazionale Amanda Award (Amandaprisen). Nel 2007, per esempio, ci fu lo straordinario Reprise. Nel 2008, l’altrettanto sorprendente The man who loves Yngve.

Quest’anno a vincere l’ambito premio* è stato invece questo biopic in forma di dramma storico-bellico ambientato durante l’occupazione nazista della Norvegia, il cui protagonista, che dà il nome al film, è un vero mito nazionale della resistenza. E non sorprende che la rappresentazione delle sue eroiche e patriottiche imprese debba fare i conti con un approccio piuttosto tradizionale alla materia, prima di tutto da un punto di vista narrativo.

Ma se probabilmente per i norvegesi tutta la questione storica è più intellegibile (e pare abbia scatenato una polemica in patria sul ruolo della resistenza) ciò non toglie che il film sia un prodotto di impeccabile e innegabile professionalità – oltre che inaspettatamente vendibile: non è poco già il fatto che le vicende di Manus conquistino e appassionino senza troppi sforzi, nonostante siano ambientate in un contesto che, fuori dai confini della Scandinavia, è assai poco raccontato.

A tratti poi, Max Manus riesce a raggiungere un’intensità davvero notevole – quasi sempre grazie alla fantastica e mimetica prova d’attore di Aksel Hennie. Il resto lo fanno l’eccellente fotografia, il montaggio, l’accuratissima ricostruzione storica. Non sposta di un millimetro verso nord il baricentro del cinema europeo, ma non è nemmeno una cosa da poco.

In ogni caso un bel passo avanti, per Rønning e Sandberg. I due non muoiono dalla voglia di farvelo sapere, ma il loro esordio alla regia era stato Bandidas.

*Oltre al premio come miglior film dell’anno, Max Manus ha vinto gli Amanda come miglior attore, attrice non protagonista, fotografia, sceneggiatura, sound design e il premio del pubblico.

Il film non ha una data d’uscita italiana, così come non ce l’ha la sua "controparte" danese, Flame & Citron di Ole Christian Madsen.