The informant!, Steven Soderbergh 2009
The informant!
di Steven Soderbergh, 2009
Non ricordo quando sia nata la mia antipatia nei confronti di Steven Soderbergh, so solo che è stata una costante che mi ha fatto compagnia nel corso degli anni. I suoi film, invece, ho smesso di guardarli del tutto: non riuscendo a vedere tutto, se proprio devo scegliere, preferisco eliminare uno come Soderbergh, no? Questo per dire che mi fa un effetto un po’ strano parlare bene di un suo film, ma non so bene perché: The informant! aveva tutte le carte in regola per essere un lavoro riuscito, e lo è.
Il film comunque è costruito quasi interamente su una trovata di sceneggiatura (opera di Scott Z. Burns) davvero brillante, ovvero l’uso del flusso di coscienza nella voce fuori campo del protagonista con tutto ciò che ne consegue per l’architettura stessa del film e del personaggio – oltre che, ovviamente, sulla prova davvero gigantesca di Matt Damon, che supera se stesso, e non soltanto per aver preso qualche chiletto. Non c’è molto altro, ma basta e avanza: la sfida di rendere così gradevole un film ambientato nel contesto meno interessante e stimolante che si possa immaginare è senz’altro vinta.
Davvero riuscito e originale il lavoro sul cast secondario, uno più ricchi e bizzarramente assortiti degli ultimi anni, con moltissimi volti noti tra cui spiccano Joel McHale (conduttore dell’adorabile show The Soup e protagonista della splendida serie Community), Scott Bakula, Thomas F. "Biff" Wilson, ma anche comici usati contro le aspettative come Scott Adsit di 30 Rock, Tony Hale di Arrested development e Chuck, e il nostro amato Patton Oswalt.
The Box, Richard Kelly 2009
The Box
di Richard Kelly, 2009
Quando uscì il disastroso Southland Tales, eravamo tutti molto ben disposti nei confronti di Richard Kelly e alla fine, tutto sommato, gliela facemmo passare liscia. Va bene, il film faceva schifo al cazzo, ma era uno schifo sostanzialmente comprensibile: un regista a cui tutti hanno dato del genio per mesi per aver fatto un gran bel film ha finito per crederci davvero, ha fatto un film mostruosamente ambizioso, e ha sbracato. In fondo è una favola che abbiamo sentito mille volte, quella della maledetta opera seconda.
Ma un film come The Box non lo perdoniamo così facilmente: qui Kelly ha superato di parecchio il confine del buon senso, e in nome di un rispettabilissimo disinteresse nei nostri confronti, tutto preso dalle sue fissazioni e dall’evidente intenzione di giocare a fare il David Lynch della situazione, ha confezionato una baracconata plasticosa, noiosissima e ridicola – e prodotta, ancora una volta, con l’ambizione palese di crescere nel tempo come cult movie. Ho un’idea invece: che ne dici di dirigere un cazzo di film come si deve e basta, la prossima volta?
Ma come diavolo fai a rovinare in questo modo un racconto breve di Richard Matheson, che dovrebbe quantomeno bastare a se stesso per portare a casa un’operina decente? Semplicissimo: abbandoni l’autore a metà strada e fai tutto il resto di testa tua. Pe la primissima parte infatti, Kelly mostra almeno di avere qualche idea chiara (anche se orrida, come questa oscena patina sfumata con cui è fotografato il film) e di saper costruire un buon contesto scenografico traendo ispirazione a destra e a manca e rallentando tutto, forse per soddisfare un’idea un po’ distorta del cinefilo-target. Poi, dopo un tot, il film va completamente a puttane.
Così una pregevole novella costruita su un semplice paradosso temporale circolare diventa, da un certo punto in poi, un delirio incontrollato dominato dal ridicolo involontario, con una Cameron Diaz sperduta, imbambolata e costretta pure a zoppicare – il tutto, ovviamente, senza un briciolo di ironia: The Box farebbe anche sorridere di per sé, ma è proprio questa sua completa assenza di senso dell’umorismo, questo suo prendersi sul serio come ennesimo pilastro del pensiero visionario di Richard Kelly, a decretarne il definitivo e tombale fallimento.
Friday Prejudice #208
[ferma così, ora tirami quel candelabro]
Il nuovo episodio di Friday Prejudice, come i buoni sapori di una volta.
Amabili resti, Peter Jackson 2009
Amabili resti (The lovely bones)
di Peter Jackson, 2009
Se il nuovo film di Peter Jackson non funziona a dovere, a parer mio, la colpa può essere data, più che alla frammentazione dei suoi elementi visivi e narrativi, alla difficoltà nell’amalgamarli. Nonostante molte critiche si concentrino su aspetti più superficiali, legati magari a scelte specifiche del regista o a inconciliabili differenze nel gusto estetico, il problema più spiccato di Amabili resti sembra risiedere semmai nell’accettabilità e nella fluidità dei suoi contrasti – anche se, dopotutto, non stiamo parlando di un regista leggiadro ma anzi di un autore che ha sempre avuto la "gravità" tra le caratteristiche portanti della sua personalità.
Questo per dire anche che le scelte fatte da Jackson per raccontare la sua storia sono tutt’altro che scorciatoie: Amabili resti è anzi senza dubbio uno dei suoi film più adulti, forse il più programmaticamente duro e inquietante, a dispetto dell’impressione che la colorata visionarietà delle sequenze post-mortem e il messaggio di incontrovertibile e quasi religiosa speranza possono suscitare. Ma forse il regista neozelandese ha alzato persino troppo il tiro, e questo suo film strano e facilissimo da detestare perde per strada, soprattutto nella seconda parte, tutto l’impossibile equilibrio che si era voluto creare, quello tra la dolcezza e lo splendore visivo dell’immaginazione infantile e una storia cupissima, violenta e terrena, crudele e beffarda (la punizione del male da parte del fato, o di chi per lui, vale ugualmente come riscossa se non se ne è a conoscenza?) sulla perdita dell’innocenza – peraltro anche più ambiziosa di quel che sembri, perché non è solo quella di una ragazza e della sua famiglia, ma anche di un immaginario infantile tutto occidentale: "non erano ancora gli anni dei volti sui cartoni del latte", si dice nei primissimi minuti.
In questa opera sbilanciata e per molti versi "sbagliata", resta comunque molto di cui essere soddisfatti. Tra cui una prima parte sostanzialmente perfetta e la gestione magistrale dei meccanismi del thriller. Quando però interviene la parte ultraterrena, il film comincia a zoppicare: non che ci sia niente di condannabile di per sé nella vertiginosa immaginazione con cui sono composte le sequenze del post-mortem, derise a destra e a manca perché troppo sgargianti e kitsch (e non a torto) ma costruite su un uso liberissimo e sfrontato della rielaborazione onirica, soltanto questa parte così importante e sentita del film finisce per annacquare le cose migliori, che stanno tutte sulla Terra, come le sequenze tesissime e disperate che portano alla morte di Susie Salmon, annunciata fin dalle prime righe della sceneggiatura, rese ancora più angoscianti dalla regia di Jackson (tra cui l’uso saltuario del grandangolo, un vezzo che Jackson non ha mai abbandonato fin dagli esordi) e dall’interpretazione di Stanley Tucci. Come si è già detto: questione di equilibri sballati. Con una conseguenza positiva, però: che dopo un po’ si riporta il baricentro del film su quello che conta davvero, sul dolore e sulla rabbia di chi resta – permettendoci di chiudere un occhio (o due) sulla faciloneria con cui a tratti è guardata la strada di chi va.
Interessante vedere in questi giorni come si sottolinei spesso la distanza, anche qualitativa, dal romanzo (che purtroppo il sottoscritto non ha letto), senza accorgersi che questo è prima di tutto un film profondamente jacksoniano, e senza bisogno di scrivere "terra di mezzo": il regista ha fatto ancora completamente suo un libro molto amato, riuscendo anche stavolta a fare trasalire i fan del testo d’origine, e inserendo direttamente l’opera sul percorso iniziato da Creature del cielo – ma soprattutto da Sospesi del tempo, un film (bellissimo e purtroppo poco visto e conosciuto) in cui il regista aveva già espresso tutto il suo interesse nei confronti dell’esistenza dopo la morte.
Agora, Alejandro Amenábar, 2009
Agora
di Alejandro Amenábar, 2009
Se è vero che il film ha fatto così fatica a trovare un posto nelle nostre sale, non è difficile capire il perché: una delle sue caratteristiche primarie a livello narrativo è la totale identificazione con i "pagani" contro la presa di potere dei seguaci di Cristo nella città di Alessandria, a pochi decenni dall’Editto di Costantino. E di questi ultimi viene restituito un ritratto che raramente era stato più furioso: i cristiani sovvertono l’ordine costituito con il sangue e con il peso delle pietre, scagliate contro i politeisti, contro gli ebrei, le donne, e infine contro la stessa scienza.
Ma nonostante questa sia una scelta che segna fortemente il film, perché in fondo si tratta di una sfida aperta a una delle egemonie culturali più radicate al mondo, in Agora c’è anche molto altro – nonostante sia facile scambiarlo, se guardato da una certa distanza o in modo distratto, per il solito peplum modaiolo che inserisce trasversali romantiche in un contesto storico come è quello della caduta della biblioteca di Alessandria d’Egitto. Il romanzo c’è, e la storia della filosofa e matematica Ipazia (una stupenda Rachel Weisz) diventa anche un triangolo amoroso dai confini definiti, ma Agora è tutt’altro che un fumetto superficiale. E la differenza sta, ancora una volta, tutta nella prospettiva.
Narrativamente infatti Agora non gioca soltanto con il ribaltamento culturale, ma anche spingendo al massimo il contrasto tra l’ossessione di Ipazia per la cosmogonia e per la teoria di Aristarco (poi rivelatasi, come sappiamo, veritiera) e il caos che regna fuori dalle mura della biblioteca – come se la ricerca della Verità fosse l’ultimo baluardo per la salvezza di un’umanità trascinata tra guerre fratricide, lapidazioni, stupri e violenze dalla forza inarrestabile dell’irrazionalità religiosa. In tal senso, il finale del film è infinitamente tragico per sua stessa natura, proprio perché sappiamo bene che queste sono le basi di oltre 10 secoli di oscurantismo a venire: riuscite a immaginare una conclusione più cupa?
Ma la profonda personalità prospettica di Amenábar la troviamo anche a livello visivo: se molto del film, come già narrativamente, si rifà a meccanismi piuttosto ordinari o quantomeno riconoscibili, c’è tutta una parte del film in cui si osa affrontare le imprese dell’uomo da un punto di vista inedito che ha la forza di una presa di posizione, di uno sguardo sul mondo. Ovvero, le riprese dall’alto, tra inquietanti plongée che trasformano gli uomini in guerra in rumorosi insetti sporchi di sangue e le silenziose inquadrature del nostro pianeta visto dallo spazio che rimettono ordine e proporzione tra le cose del mondo. Noi uomini che ci ammazziamo sulla Terra, affogando la nostra ignoranza nel sangue dei deboli, e i pianeti e il sole che intorno a noi continuano a fare il loro lavoro.
Nei cinema italiani con Mikado dall’Aprile 2010
Codice Genesi (The book of Eli), Albert e Allen Hughes 2010
The book of Eli*
di Albert e Allen Hughes, 2010
Il nuovo lavoro dei fratelli Hughes, quasi un decennio dopo From Hell, è uno di quei film che ti fa venir voglia di dividere nettamente e pigramente quello che funziona da quello che non funziona. Spoiler alert: non è una buona notizia per il film.
Nel primo piatto ci mettiamo senza dubbio l’impianto scenografico e tutto questo décor da western post-apocalittico nel senso più letterale possibile, ovvero l’idea non originalissima ma efficace di ambientare gran parte del film in un vero e proprio saloon, ma anche la fotografia livida, nebbiosa e fangosa dell’esperto Don Burgess e soprattutto quello che è l’aspetto più convincente del film: l’approccio cupo e davvero morboso degli Hughes alla carne umana, tra cannibalismi, corpi mozzati, decapitazioni, arti in putrefazione, e via dicendo.
Purtroppo l’altro è però un piatto pesante: nonostante pavoneggi spaventose ambizioni, The book of Eli è infatti un film fatto di poco, oltre che costruito interamente su una rivelazione finale, a quel punto ben poco necessario – e che peraltro si fa troppo attendere. Per colpa della mediocre sceneggiatura dell’esordiente Gary Whitta, la rielaborazione dei temi biblici diventa una parabola didascalica e prevedibile sul futuro dell’umanità in cui le riflessioni sul potere della parola scritta restano solo sulla carta. Non aiutano le performance del cast: Washington è perfetto nel ruolo del novello profeta, ma Gary Oldman è un villain sopra le righe, banale e stilizzato fin dalla sua prima apparizione (legge una biografia di Mussolini?), e soprattutto Mila Kunis, per quanto sia sempre stupenda, pare capitata lì per sbaglio senza capire una mazza che le accade intorno, e recita come se fosse in un film di Kevin Smith.
Gli Hughes di loro ci mettono qualche bella trovata di regia, tra cui un uso curioso e spiazzante del piano-sequenza virtuoso durante una rumorosa sparatoria nel deserto, ma i tempi decisamente più rilassati rispetto a un normale action hollywoodiano, uniti alla pomposità degli assunti filosofici e teologici della seconda parte, lo rendono uno dei film più pretenziosi di questa stagione. Nemmeno questa è un buona notizia.
Nelle sale dal 26 febbraio 2010*
*il film esce in italia con il titolo Codice Genesi. Che non solo è il più ridicolo titolo italiano della stagione, è anche uno spoiler – no, davvero: che tristezza – e scriverlo là sopra in grassetto mi faceva brutto.
Dare, Adam Salky 2009
Dare
di Adam Salky, 2009
Presentato al Sundance dello scorso anno, il primo film (o meglio, il primo lungometraggio di fiction) di Adam Salky è una sorta di triangolo amoroso i cui protagonisti sono tre studenti del liceo alle prese con la scoperta della propria personalità e della propria sessualità, diviso in tre segmenti ben distinti, raccontati dal punto di vista di ciascun personaggio, fino al ricongiugimento delle parti nel finale.
Insomma, niente di nuovo: ma Salky e lo sceneggiatore David Brind hanno un talento non comune nel tratteggiare il ritratto di questi teenager ricchi e annoiati che vivono in ville vuote e irreali, emotivamente vessati oppure completamente abbandonati dai propri genitori, tra paliativi delle figure parentali e una ricerca del proprio posto nel mondo che deve fare i conti con aspettative sociali, con la voglia di trasgredire, ma anche con la scoperta dei propri limiti nell’accettazione di una libertà sessuale tanto sbandierata a parole.
Ma il maggior motivo di interesse di questo piccolo film indipendente, all’interno di un cast di volti giovani assai interessante, a parer mio è la presenza magnetica di Emmy Rossum – che finalmente, dopo anni di parti minori o di film clamorosamente sbagliati come Il fantasma dell’Opera di Schumacher, trova nel personaggio di Alexa l’occasione per dimostrare tutto il suo talento.
Black Dynamite, Scott Sanders 2009
Black Dynamite
di Scott Sanders, 2009
Se non avete mai visto un film blaxspoitation in vita vostra e vi capitasse di trovarvi di fronte a Black Dynamite, la reazione potrebbe essere di rigetto o di fastidio, ma più probabilmente di confusione: che diavolo sta accadendo? Il film di Scott Sanders, volenterosamente scritto e interpretato da Michael Jai White (già protagonista di Spawn e di Blood and bone, riconoscibile come boss Gambon in The Dark Knight), è infatti lo spoof dei film pensati esclusivamente (e spesso cinicamente) per un pubblico di colore che hanno dominato una certa fetta di cinema americano di genere dai primissimi anni ’70 per mano di registi come Melvin Van Peebles e Gordon Parks e che lanciò star come Richard Roundtree, Pam Grier e Fred Williamson.
Un minimo di conoscenza, anche solo teorica o frammentaria, è necessaria, non tanto per per cogliere il senso dell’operazione ma per divertirsi come deficienti – come ho fatto io, puntualmente. Un film fuori tempo massimo? Forse sì: a che serve in fondo, ci si può chiedere, una parodia demenziale della blaxpoitation dopo così tanto tempo, a una dozzina d’anni da Jackie Brown? Che cosa importa: ciò non toglie che Black Dynamite sia un film maledettamente azzeccato, per come riesce (come nelle migliori parodie) ad affrontare il suo obiettivo in due direzioni. Una più affettuosa che fa leva sul fascino retrò e malinconico di un cinema che ora sembra impensabile ma che ai tempi riempiva le sale; l’altra più cattivella, che si concentra sulle imprecisioni e sul dilettantismo, sui microfoni in campo, sulla recitazione improbabile e sulle sceneggiature striminzite e machiste piene di catch phrase, tutti elementi che facevano comunque parte del gioco.
E alla fine Black Dynamite, senza prendersi sul serio nemmeno per un minuto ma non rinunciando mai a fare le cose come si deve, fa la stessa impressione dei film che prende amorevolmente in giro: quella di un cinema fuori dai tempi, forse anche fuori dagli schemi, di sicuro di un cinema che non si fa più – o almeno, che non si fa più così bene.
Il dvd americano (regione 1) è distribuito a partire dal 16 febbraio. Distribuzione italiana? Ahah.
Fantastic Mr. Fox, Wes Anderson 2009
Fantastic Mr. Fox
di Wes Anderson, 2009
Il cinema di Wes Anderson mi dà spesso l’impressione, a volte dovuta all’effettiva esperienza, che non sia fatto per piacere a tutti, che non possa esserlo, e che in fondo sia giusto così. Non saprei, però: io mi sono sempre bevuto ben volentieri i suoi bellissimi, sfrontati e spudorati film con un piacere quasi incondizionato, non comprendendo quasi mai le critiche che gli vengono di volta in volta rivolte – se si esclude una parziale freddezza nei confronti di alcuni aspetti di The life aquatic with Steve Zissou.
In tal senso, ho l’impressione che Fantastic Mr. Fox potrebbe rappresentare un punto di svolta nella ricezione che il pubblico ha del regista – a mio parere uno dei più talentuosi registi americani della sua generazione, indubbiamente uno dei più interessanti. Il motivo è semplice: a questo film non si può dire davvero niente. E non solo perché si tratta di un film irresistibile e meraviglioso: quella è solo la mia opinione. Trattandosi comunque di un’opera profondamente personale e piena dei suoi riconoscibili cliché (dopotutto, il controllo totale dei suoi film, veri storyboard filmati, trova nello stop-motion una tecnica ideale) la migrazione integra dei caratteri più enfatici e stilizzati del suo cinema all’interno di un’universo animato permette a Anderson di abbandonare il senso di distacco che quegli stessi caratteri possono provocare in un film in carne e ossa.
Fantastic Mr. Fox riesce poi a cogliere in pieno lo spirito dei libri di Roald Dahl, tra una riuscita satira (decisamente andersoniana) dei meccanismi famigliari e la pura gioia del racconto, con una sceneggiatura (scritta insieme a Noah Baumbach) ricca di trovate surreali, una messa in scena coloratissima e ipercinetica che non lascia un attimo di tregua, un lavoro eccezionale sul casting vocale, insomma, un’impressione di incontrastata soddisfazione – come quella di un film che stavamo aspettando da tempo, senza saperlo. Chiamatela pure felicità. E questa volta ci cascherete anche voi.
Nelle sale dal 2 aprile 2010*
(se volete saggiamente recuperarlo in lingua originale per godervi le voci di Clooney, Streep, Murray, Schwartzman e molti altri, il dvd e il blu ray inglesi del film arrivano all’inizio di marzo)
Paranormal Activity, Oren Peli 2007
Paranormal activity
di Oren Peli, 2007
Non dovrei venire a dirvelo io, che tutto ciò che sta al di fuori di un film come questo, tutta la menata dell’horror più terrorizzante di sempre, delle polemiche delle associazioni, della gente che sviene, vomita o muore in sala, e via dicendo, si chiama marketing – peraltro non proprio all’avanguardia ma decisamente efficace, a quanto pare – e che non ha nulla a che fare con il film. Parliamo del film, invece.
Che, come previsto, è una roba piuttosto vecchiotta, che presenta sullo schermo esattamente quello che pensate di trovarci se del film sapete anche solo due o tre cose. Nessuna sorpresa, dunque, tranne un rilevante particolare: pensavo sarebbe stato un horror lo-fi molto sciocco ma molto spaventoso, invece ho trovato un film che non fa granché paura (a meno di non desiderarlo con tutto il cuore) ma che cerca quantomeno di fare degli sforzi nella rappresentazione delle dinamiche di una coppia in cui lui si trova invischiato in un’ossessione scopofila bella e buona, facendoci pure la figura dell’uomo più imbecille mai nato. In tal senso, il film è quasi più interessante e, oserei dire, più teso e inquietante come dramma da camera (letteralmente) che come film su una persecuzione demoniaca. Chi trova l’ironia in tutto ciò vince un orsacchiotto.
Comunque, molto rumore per nulla: davvero nulla di memorabile, a parte la notte in cui lei rimane alzata accanto al letto. Lì, ammetto di essere caduto di faccia nella trappola. Particolarmente idiota però la scelta di chiudere con un finale wannabe-shock, in linea con i gusti di un pubblico becero, una mossa che rischia di vanificare in parte gli sforzi di indipendenza del resto del film. Per dire, il finale originale era moscio, ma questo è davvero una cazzata.
Nine, Rob Marshall 2009
Nine
di Rob Marshall, 2009
Non si può certo dire che il nuovo musical di Rob Marshall partisse dai migliori presupposti per farsi amare dal suo pubblico: confrontarsi a viso aperto con una leggenda del cinema come Fellini (uno di quegli autori di cui gli americani si riempiono da sempre la bocca senza averne necessariamente la minima conoscenza), è sempre difficile. Si può fare, nessuno lo vieta, non è impossibile: ma ci vuole una dose inumana di coraggio e di talento anche solo per riuscire a imporre la propria personalità.
Ecco, Nine è un film quasi completamente privo di entrambi: il talento, innegabile per esempio nella composizione del ricchissimo cast, viene completamente messo da parte in favore di una sceneggiatura ridicola che spende i pochi soldi rimasti dai cachet delle star in duetti imbarazzanti e di una regia praticamente inesistente. Per non parlare del coraggio: probabilmente resasi conto dell’inconsistenza dell’operazione, la produzione punta quasi completamente sul fascino erotico immediato delle sue protagoniste femminili. Anche perché le canzoni fanno cagare, tutte, e quindi c’era poco altro su cui scommettere.
Incredibile comunque che in un film che dovrebbe essere anche una riflessione sul cinema ci sia così poco cinema, e che tutto si riduca all’alternanza di balletti statici, leccati e noiosissimi girati su una singola scenografia, manco fossimo a Ballando con le stelle, e di scene girate a casaccio con gli attori che si sforzano di recitare con un indigeribile accento italiano*. Ma è inutile tirarlo proprio fuori, Fellini: Nine è l’adattamento del musical di Maury Yeston e Arthur Kopit, punto, null’altro – e tanto di cappello a tutti per essere riusciti a trasformare 8 e mezzo in una storia di corna. E a rendere insopportabile Daniel Day-Lewis. Hai detto niente.
Uno dei film più malriusciti e sgradevoli di questa stagione, senza dubbio il più legnoso e inerte, mortifero senza il fascino della decadenza, con tutta probabilità il più lontano dalle sue ambizioni, insomma, brutto senza riserve.
A parte una: Marion Cotillard. Che spreco ma, dannazione, che donna.
*il post si riferisce ovviamente all’edizione originale, in cui tutti gli attori recitano appunto in inglese con un pesante e posticcio accento italiano ma dicendo "Pronto?" quando rispondono al telefono e "Ciao" quando si salutano
Tra le nuvole, Jason Reitman 2009
Tra le nuvole (Up in the air)
di Jason Reitman, 2009
Una delle doti principali del terzo film di Jason Reitman, la più evidente, come già in molti hanno sottolineato, è quella di essere assolutamente cosciente dello spirito del tempo: una caratteristica che aggiunge immediatamente maturità e umanità a un regista interessante che fino a ora era forse ancora in cerca della sua personalità, come i personaggi dei suoi film. In tal senso, Up in the air è la fusione perfetta dell’arguzia "politica", tra virgolette, di un film come Thank you for smoking e dello sguardo più intimo di Juno – due caratteri che comunque già sapevano convivere nei film precedenti, l’uno nascosto tra le pieghe dell’altro.
Ed è proprio nella coesistenza di questi due elementi che risiede il segreto del successo del film – uno di quelli che sembrano indirizzato a due pubblici diversi ma che, per una volta, finisce per soddisfarli entrambi – e forse anche l’impronta stilistica, l’attesa marca del cinema di Reitman. Se Up in the air va insomma in una direzione chiara, inquadrare un film di personaggi e di "scrittura" all’interno di un preciso, trasparente e anche abbastanza spietato contesto di recessione economica, né l’interesse sociologico né quello più tradizionalmente narrativo sembrano lottare per avere la meglio. E il film finisce per essere moltissime cose, ben più che un film sul mondo del lavoro o una commedia amara: parla dell’America di oggi, del sua solitudine e della sua incertezza, di obiettivi, sogni e ossessioni, e della redistribuzione della felicità.
Ma al di là di queste considerazioni, la forza di Up in the air si trova anche nell’eccezionalità dei suoi elementi, quelli sotto gli occhi di tutti, a prescindere dalla loro composizione: tre performance eccezionali, una regia precisa, presente senza protagonismi, e soprattutto una sceneggiatura davvero bella e intelligente, impreziosita dai dialoghi, spesso incredibili, ma soprattutto dal coraggio di affrontare il difficile peso della realtà. Quella in cui le cose non vanno sempre nella direzione sperata. Ma, qualche altra volta, sì.
Triangle, Christopher Smith 2009
Triangle
di Christopher Smith, 2009
In un certo senso, il godibilissimo e spassoso Severance mi aveva messo in guardia: a scanso di un colpo di fortuna, Christopher Smith poteva essere davvero uno dei registi di genere britannici più interessanti in circolazione. Il suo terzo film non conferma soltanto questa impressione, la rilancia del doppio: e improvvisamente, l’etichetta di regista di genere comincia a stargli anche un po’ stretta.
Il problema di un film come Triangle è la difficoltà di spiegare perché sia imperdibile senza intaccare il meccanismo di svelamento che è ben più che buona parte del gioco. Ma che non è comunque tutto: al di là dell’emicrania narrativa che il film diventa dopo meno di mezz’ora, c’è una cupissima discesa all’inferno, ancora più frustrante perché inevitabile da un certo punto in poi, una messa in scena eccellente, e una gestione perfetta dei topoi (il viaggio in barca, la nave fantasma, i corridoi deserti, il deja-vu, e via dicendo) oltre che un gusto spiccato nel ribaltamento di questi ultimi.
Ma c’è soprattutto una capacità di gestire con impassibile coerenza gli incasinatissimi paradossi della sceneggiatura: la vera differenza sta però nell’atteggiamento di Smith nei confronti dello svelamento. Triangle non lascia la canonica sorpresa alla fine ma preferisce creare una condizione e insistervi con spirito analitico e sadico, fino alle estreme conseguenze. Per intenderci: una volta capito il meccanismo, si è soltanto a metà del viaggio, e a metà del film. Il resto è tutto un ostinato e maledetto accanimento: ed è forse proprio questo a renderlo uno dei film più curiosi, inconsueti ed esaltanti degli ultimi tempi.
Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana. Il dvd inglese esce all’inizio di Marzo.
Un altro post: Dolores Point-Five sui 400 Calci.
Il mondo dei replicanti, Jonathan Mostow 2009
Il mondo dei replicanti (Surrogates)
di Jonathan Mostow, 2009
Penso che sia estremamente interessante che siano usciti nel giro di così pochi mesi tre film come Avatar, Gamer e Surrogates: tre film che condividono non soltanto da un punto di vista narrativo una visione di un futuro forgiato dalla realizzazione tecnologica della telepresenza ma anche a livello teorico una vera ossessione per l’alterità e per l’incorporazione – simile in qualche modo a quella che alla fine degli anni ’90 aveva prodotto film come The Matrix, Strange Days o Nirvana.
Banalità, ma è un tema che senza dubbio meriterebbe di essere spolpato e sviscerato. Magari in altra sede, però: anche perché il film di Jonathan Mostow ne è la peggiore applicazione possibile. Involontariamente ridicolo fin dalle primissime battute per infelici scelte di casting e make-up, Surrogates fallisce sotto ogni punto di vista, sia come noiosissimo sci-fi-action movie (nonostante l’innegabile cura di alcune scene d’azione) che come improbabile pamphlet antitecnologico. Probabilmente perché è scritto con la mano sinistra e con il culo, il che non aiuta mai.
O forse perché Mostow mostra, come già ha fatto in in passato (Terminator 3, o di come quando azzecchi tre minuti di film faccia più male di quando lo sbagli del tutto) non solo di non avere (più?) personalità, e ci avremmo fatto il callo, ma anche di essere un regista senza un briciolo coraggio e di ironia. Neveldine & Taylor con Gamer su premesse simili hanno fatto una sciocchezza, d’accordo, ma almeno l’hanno buttata sul ridere e hanno puntato sul grottesco: Surrogates invece è un film palloso e reazionario che non osa mai spingersi al di là dello spendere il proprio budget ed è un bruttissimo film convinto di essere una gran bella serissima figata.
Julie & Julia, Nora Ephron 2009
Julie & Julia
di Nora Ephron, 2009
Ci sono poche sceneggiature che hanno segnato la mia vita quanto quella di When Harry met Sally: come "commedia romantica preferita di tutti i tempi" è una scelta assai banale ma obbligata, così com’è quasi obbligato citarla più o meno ogni volta che si parla di Nora Ephron, così com’è inevitabile aggiungere che erano moltissimi anni, per quanto mi riguarda dal bellissimo Sleepless in Seattle, che Nora Ephron non azzeccava davvero un film tra quelli da lei scritti e/o diretti. Michael? Bewitched? Please.
Invece Julie & Julia mi ha completamente conquistato: forse perché è un film mozzato in due per via del suo inusuale (in un’applicazione simile) montaggio parallelo e quindi di per sé un film stranamente fuori dal baricentro della commedia americana, tanto più di quella "al femminile", ma allo stesso tempo estremamente rasserenato, accomodante e affettuoso nei confronti dei suoi personaggi. Il segreto però è soprattutto nel meccanismo perfetto in cui la Ephron riesce a fare dialogare il passato e il presente, l’artificio narrativo assolutamente impeccabile su cui si basa il film. Roba da manuale: al di là dei dialoghi, buoni, è questione di struttura, di mestiere: ci mancava, una Nora Ephron così.
L’altro segreto del film, più chiaro e prevedibile ma sostanziamente intoccabile, è la performance delle due protagoniste – che vengono fuori quasi come la rappresentazione di due metodi diversi, quasi un passaggio di testimone in un certo senso, tra l’immedesimazione pura e magistrale di Meryl Streep e l’irresistibile naturalezza di Amy Adams, una delle più brave e interessanti attrici americane della sua generazione. In definitiva, un film scaltro e intelligente allo stesso tempo, ma di una piacevolezza quasi imbarazzante. Un film gustosissimo – e, in tutta sincerità, la ricetta era davvero difficilissima.