marzo 2010

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Friday Prejudice #213

[riconciliazione!]

C’è il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Happy Family, Gabriele Salvatores 2010

Happy Family
di Gabriele Salvatores, 2010


[questo post non è inedito ma è già stato pubblicato in forma di articolo su SKY.it e lo ripropongo anche qui, con poche modifiche, per semplice pigrizia: perché dover trovare altre parole per finire a dire la stessa cosa?]

Uno dei caratteri fondamentali del cinema di Gabriele Salvatores è quello di essersi quasi sempre voluto discostare, pur rimanendo all’interno di un’ottica commerciale destinata al grande pubblico, dai percorsi canonici del cinema italiano. Il suo nuovo film, che si intitola Happy Family, non fa eccezione: si tratta sì di una commedia, un genere coltivato dal regista in passato ma poi abbandonato, ed è senza dubbio radicata nella tradizione italiana. Ma, ammette anche il regista (e si vede, eccome), il film vuole essere "un ponte" tra questo pesante lascito e la commedia d’autore americana, dalle famiglie disfunzionali di Wes Anderson alle cerebrali sceneggiature metacinematografiche di Charlie Kaufman.

E non è una missione da poco, quella di Happy Family: un film che da lontano potrebbe dare l’impressione di una commedia tradizionale e familiare (in entrambe le accezioni) ma che, ce ne accorgiamo subito, sembra più un trattato pirandelliano su autore e personaggio. Il protagonista, intepretato da Fabio De Luigi, si presenta infatti come uno scrittore all’opera su una sceneggiatura di un film i cui protagonisti, i membri di due famiglie milanesi, si presentano a loro volta, uno per uno, sguardo in macchina, allo spettatore. E nelle cui vicende, messo alle strette dai suoi personaggi, dovrà trovare posto l’autore stesso.

L’alternarsi continuo di statuti di realtà è un rischio che Salvatores affronta con spudorata schiettezza e voglia di sperimentare, decidendo di giocare fino in fondo, arrivando a immaginare di mollare Happy Family a metà, con un finale aperto, di "quelli che piacciono ai critici" (sic). Forse non agli spettatori? Sicuramente non ai suoi personaggi. Che infatti si ribellano, e lo spingono a chiudere la partita. E in questa schermaglia tra realtà e scrittura, tra vita e teatro (il film è tratto da una pièce di Alessandro Genovesi, che qui diventa sceneggiatore insieme allo stesso Salvatores), è importantissimo il ruolo che assume la città di Milano. Anch’essa, un tempo ambientazione favorita dal regista per le sue storie e poi abbandonata.

Una Milano che ha due facce, in Happy Family, e due anime: la prima è un costruita, "falsa", rappresentata, è il set di cartone, colori sgargianti e angolazioni surreali su cui si muovono le vicende dei personaggi. La seconda è quella dell’inserto in bianco e nero che Salvatores, con sprezzo del pericolo, inserisce a metà film, accompagnandolo con le note di Chopin, alternando i tasti monocromatici del pianoforte alle guglie del Duomo e alle strisce pedonali. Un "notturno milanese" che suona quasi come un film nel film, un omaggio tardivo che fa pulsare per qualche minuto nel petto del film una vibrazione neorealista. Per poi tornare sulla scena.

Ma Happy Family, film enormemente ambizioso e insieme estremamente lieve, caratterizzato da una cura artistica e produttiva assolutamente superiore alla media (impareggiabili la fotografia di Italo Petriccione e le scenografie di Rita Rabassini), ha un’altra freccia al suo arco, ultima ma non certo meno importante: fa ridere. Specialmente nei ritrovati duetti tra Diego Abatantuono (irresistibile) e Fabrizio Bentivoglio, in una sorta di malinconica reunion dei tempi del bellissimo Turné. In fondo, è una commedia. Missione compiuta.

Armored, Nimród Antal 2009

Armored
di Nimród Antal, 2009

Com’era già successo con Vacancy, anche questo nuovo film del californiano di origini ungheresi Antal, regista del venturo sequel-reboot Predators, parte da presupposti semplici, prevedibili, diciamo pure "banali": Armored è una nuova variazione sul medesimo tema delle Iene di Tarantino, con una rapina andata a male e un capannone in cui giocare al massacro. Eppure, anche in questo caso, e in misura decisamente maggiore, i risultati sono superiori alle aspettative.

Armored è infatti uno dei thriller più irresistibili della stagione, nonostante lo scarso gradimento presso la critica: Antal mette in scena una trafila senza precedenti di ex star con facce e barbe da b-movie, dà uguale dignità a ciascun attore e fottendosene bellamente della sceneggiatura (che è quel che è, ma a un certo punto chissene) si concentra su una messa in scena secca ma esplosiva, costruendo legami tra i personaggi come fossero animali, che comunicano attraverso versi, sudori e sguardi, senza menarla troppo sulla tradizione tragica delle conseguenze dell’avidità umana ma facendo piuttosto in modo che la (notevole) violenza scaturitane suoni, semplicemente, come qualcosa di inevitabile.

Assolutamente micidiale, in senso buono, la presenza scenica di Matt Dillon. Davvero. Datemene ancora.

Il film dovrebbe uscire prossimamente nelle sale italiane con il titolo Blindato.

Defendor, Peter Stebbings 2009

Defendor
di Peter Stebbings, 2009

In un periodo in cui spuntano come funghi le variazioni sul tema del vigilante, e le storie di supereroi inserite in contesti reali, Defendor riesce a trovare il suo posto con onore. Non prendendo certo la strada più facile: l’esordio alla regia del caratterista Peter Stebbings, anche sceneggiatore, è fatto di accostamenti abbastanza rischiosi, si muove su scivolosi territori psicanalitici, alterna un umorismo understated a una progressione narrativa drammatica, applica i linguaggi della pop culture e del fumetto a un contesto metropolitano degradato e decadente.

Un rischio che però ripaga con i risultati: Defendor è un film piccolo ma davvero appassionante, innatamente modesto, quasi per ammissione, ma impeccabile nella forma (davvero) e nei contenuti. Destinato forse a una fama di cult movie dopo il disinteresse mostrato dai suoi stessi distributori: negli Stati Uniti il film è stato infatti accantonato dalla Sony per l’uscita nei cinema, e uscirà direttamente in dvd ad aprile, dopo essere stato proiettato in modo del tutto indipendente dai suoi produttori in qualche sala. Un vero peccato.

Molto del merito della riuscita di Defendor va ovviamente a Woody Harrelson: ultima di una serie di performance davvero memorabili in un momento particolarmente felice della sua carriera, il suo Arthur Poppington, indifeso e insieme eroico baluardo di un’alienazione urbana destinata al riscatto, non è certo uno scherzetto ma un personaggio profondamente umano. E complimenti anche a Kat Dennings, a suo modo: rendere credibile una "battona dal cuore d’oro" non è da tutti.

The private lives of Pippa Lee, Rebecca Miller 2009

The private lives of Pippa Lee
di Rebecca Miller, 2009

Quarto film di una regista che si è fatta notare nel cinema indipendente soprattutto per ritratti femminili, come quelli del suo film più famoso, Personal velocity, anche Pippa Lee non fa eccezione: racconta infatti la lunga storia di una donna che durante la sua vita ha sempre abdicato alla propria personalità vivendo piuttosto le aspettative degli altri e assumendosi anche le loro responsabilità, dalla madre ossessiva e nevrotica al marito anziano, burbero e adultero.

Un complesso viaggio psicologico che però sceglie quasi sempre la leggerezza della commedia, con un piglio ironico e aspro insieme, e con toni molto attenuati che contribuiscono a ridurre l’impatto potenzialmente nocivo di alcuni inserti particolarmente bizzarri. Pippa Lee risente però di una difficoltà, quella di saper mettere a fuoco non solo il suo personaggio, ma anche il mondo che la circonda,  facendosi spesso soffocare dalla ricchezza del cast (eccessivo e ridondante ma non sempre all’altezza della situazione: tremendi Keanu Reeves e Alan Arkin, mentre la piccola parte di Monica Bellucci è a suo modo riuscita) e dagli aspetti corali della vicenda e a volte distrarre o portare fuori strada anche dalla scelta (comunque giustificata e, perché no, acuta) di narrare la storia di Pippa attraverso il montaggio parallelo, tra passato e presente.

In ogni caso, Pippa Lee è un film che parla il suo personale linguaggio con schiettezza e senza paura di accorciare le distanze, un film senza dubbio confusionario ma piacevolmente lieve e molto generoso. Sospettiamo che molto del merito vada, oltre che a Pippa ovviamente, alle attrici che la interpretano: una devota Robin Wright e una sorprendente, bravissima, ben più che avvenente Blake Lively.

Il film dovrebbe essere nel listino CDI, ma non è ancora prevista una data d’uscita, né è dato sapere cosa si inventeranno stavolta per il titolo italiano. Se avete fretta, il dvd britannico è già in vendita a pochi euro.

The Road, John Hillcoat 2009

The road
di John Hillcoat, 2009

C’è qualcosa che manca, nell’adattamento di John Hillcoat di uno dei più celebrati libri degli ultimi anni? Forse, mi spingo a dire, il problema è qualcosa che c’è. Ma si tratta di sfumature, una nota musicale di troppo (soprattutto) oppure un minuto di troppo speso a concentrarsi su qualcosa sacrificando qualcos’altro. Sfumature. Il problema qui non è un ipotetico e poco interessante "tradimento del testo", ma semmai un’eccessiva attinenza. Dalla quale scopriamo, per l’ennesima volta, che ciò che funziona sulla carta non funziona automaticamente allo stesso modo sullo schermo.

Tutto sommato però, Hillcoat porta sullo schermo la dura, cupa e disperata fine del mondo di McCarthy con una forza grafica e una durezza d’intenti davvero notevole, riuscendo ad annichilire istantaneamente tentativi recenti quantomeno simili (in primis The Book of Eli) e traducendo perfettamente in immagini le livide e inquietanti pagine del libro. Con una impressionante coerenza visiva che non ha paura di "sporcarsi le mani" né mostra particolare interesse per i canoni hollywoodiani. Peccato dunque che il film risulti a tratti un po’ rigido, immobile, statico, che Hillcoat si dilunghi sul finale, che sia poco deciso sull’uso del voice over, che gli riesca meglio la progressione narrativa (flashback inclusi) rispetto all’elemento sincronico, il più interessante, il rapporto tra il padre e il figlio, davvero un po’ debole. Peccato, per farla breve, che il film non prenda alla pancia (come vorrebbe, o forse solo come avrebbe dovuto) e, di sicuro, che non prenda al cuore.

Nonostante tutti i limiti stabiliti però, giusto un poco più irritanti se pensiamo che sono dovuti forse all’assenza di un pizzico di coraggio, da un’osservanza e da un’umiltà che di rado sono di buon auspicio, almeno al cinema, The road è comunque un film davvero bello e prezioso, che merita assolutamente di essere visto. Un film che butta uno sguardo disilluso e per nulla consolatorio a una Terra già morta e all’oscurità nascosta nelle viscere del genere umano, ma che sa scavare al loro interno per trovare la luce pronta a rischiararlo di nuovo.

Nei cinema (forse) dal 7 maggio 2010

Brothers, Jim Sheridan 2009

Brothers
di Jim Sheridan, 2009

La tattica giocata dal film tutto americano dell'irlandese Sheridan, remake di un film danese di Susanne Bier di qualche anno fa, è prima di tutto lo straniamento legato all'uso inusuale del cast maschile: Jake Gyllenhaal è uno spiantato, Tobey Maguire un inflessibile militare rapito in Afghanistan. Non è una tattica del tutto vincente, però: Gyllenhaal e Maguire sembrano sperduti in due ruoli che non appartengono al loro carisma, soprattutto nella secondo caso.

Scritto da David Benioff, che dopo La 25a Ora ha fatto quasi solo danni, Brothers è comunque un film abbastanza ambizioso, che vuole andare in molte direzioni, ma si perde totalmente nell'incrocio: scarsamente incisivo come opera di denuncia degli orrori della guerra, con una rappresentazione del "nemico" accurata come quella di True Lies (e un taglio migliore nel ritratto di una nazione "in attesa" dei propri figli andati a morire in un altro continente) ma anche insufficientemente intenso, confuso e anche un po' noioso, come melodramma familiare – che è un po' il cuore del film, ma è anche un cuore freddo, spesso senza battito.

Mentre il film spinge verso una direzione inevitabile ma priva del coraggio necessario a renderla efficace, si apprezza semmai il soffocato e del tutto platonico erotismo, e il sorprendente padre interpretato Sam Shepard, mentre Natalie Portman come al solito brilla per conto suo. Poca roba.

L’uomo nell’ombra (The ghost writer), Roman Polanski 2010

L'uomo nell'ombra (The ghost writer)
di Roman Polanski, 2010

Mi addolora un po' il pensiero che quando il nuovo film di Roman Polanski uscirà nelle sale si parlerà di tutt'altro, in primis delle traversie personali del regista ma anche delle implicazioni politiche del confronto tra Adam Lang e Tony Blair, e non del film stesso, del film e basta: già per una questione di principio, ma anche e soprattutto perché The ghost writer è davvero un grande film, che come ogni approccio di un autore al cinema di genere nasconde sotto i canoni del genere vibrazioni morali che trascendono gli stilemi narrativi e visivi.

Gli aspetti più stupefacenti di The Ghost Writer, al di là dell'intreccio fantapolitico, sono infatti tutta opera di Polanski. Da una parte, l'incredibile sceneggiatura, adattata dal regista insieme a Robert Harris a partire da un romanzo di quest'ultimo, non solo per la struttura perfetta, di soffocante e geniale inevitabilità, ma anche per i dialoghi, tra i più acuti e acuminati del suo cinema recente – uno script che trapassa con un uso beffardo e cupo della sagacia le convenzioni e l'uso stesso dell'ironia nel noir. Dall'altra parte, la messa in scena, che non si poteva sperare più rigorosa e ammaliante, tra ossessioni hitchcockiane per i feticci, una tensione costruita sui silenzi che arriva dritta da Frantic, e un gusto senza tempo per autentici pezzi di bravura – tra cui un finale che dire magnifico è dire poco.

A completare il quadretto di un film a cui, davvero, non si può dire niente (se non che lo svelamento conclusivo non è dei più imprevedibili: ma ci interessa davvero, a quel punto, soprattutto se è raccontato in questo modo magistrale?) c'è il cast, con un Ewan McGregor particolarmente in forma in testa a tutti. Ma il meglio lo danno i due personaggi femminili: una bionda e una mora, come da tradizione noir: Kim Cattrall e Olivia Williams. Questa, a quasi 42 anni, si conferma come una delle attrici dell'anno, di sicuro uno dei volti più talentuosi del cinema britannico.

Nei cinema dal 9 aprile 2010

Rec 2, Jaume Balagueró e Paco Plaza 2009

[Rec] 2
di Jaume Balagueró e Paco Plaza, 2009

Quanto aveva da aggiungere un sequel a quanto raccontato da Balagueró e Plaza nel sorprendente [Rec] ma anche a tutto il sottogenere, ormai classificato, dell'horror girato sfruttando il linguaggio e la tecnologia dei filmati amatoriali? Ben poco, direi: ma per quel che serve, anche il secondo capitolo, che inizia esattamente dove il primo finiva, fa il suo porco dovere.

Per dare uno stimolo alla cosa, si propone un metodo esponenziale: prima di tutto, la moltiplicazione degli sguardi nella prima metà del film, con tanto di schermo nello schermo e, in secondo luogo, il fatto stesso che il film sia diviso in due parti, con lo stesso segmento temporale analizzato da due telecamere e da due differenti punti di vista – molto significativi: degli addestrati soldati da una parte, dei ragazzini ficcanaso dall'altra, quasi a riferirsi a due approcci differenti al cinema horror. O forse è solo un caso.

Va da sé, il flm è sbilanciato già sulla carta: gli si può perdonare che la prima parte sia molto più debole della seconda (con un picco di interesse nella scena inauditamente violenta in cui la ragazzina spara in faccia al poliziotto) e che ciò che veniva solo accennato nel primo capitolo ceda qui un po' di spazio allo spiegone. E che gli zombi demoniaci non facciano più tanta paura. Comunque, sostanzialmente divertente, anche perché finisce prima che ci si riesca a porre il dubbio che sia completamente inutile.

Alice in Wonderland, Tim Burton 2010

Alice in Wonderland
di Tim Burton, 2010

C'è un sacco di gente che con Tim Burton ha già chiuso i conti da tempo. Io invece no, anzi: mi sono bevuto ben volentieri tutto quello che ha girato, anche i film degli ultimi anni spesso ingiustamente vituperati, e quanto consideravo estraneo alla mia prospettiva chi se ne allontanava, tanto consideravo Burton uno dei pochi registi davvero infallibili del cinema americano odierno. Per quello mi riesce particolarmente difficile accettare che esista, un film come Alice in Wonderland. Forse il modo più semplice di metterla: questa è la prima vera volta in cui il cinema di Burton, nell'incontro con una major, rimane schiacciato del tutto, e pesantemente – lasciando ben poche tracce di sè. E poveri noi, si tratta proprio della Disney.

Nonostante io mi tenga solitamente a debita distanza dalle parole dei registi, soprattutto di quelli bravi, perché non hanno quasi mai nulla a che vedere con i loro film, è proprio in una dichiarazione di Burton pubblicata in una recente intervista che ho ritrovato, a posteriori, una delle chiavi per comprendere in sintesi il fallimento di questo orribile, orribile film – o meglio, una conferma di una netta sensazione: il regista dice di non aver mai amato particolarmente l'Alice disneyano perché era un insieme di incontri slegati tra loro senza cognizione di causa, con una predilezione quindi per la paratassi, per l'irrazionalità. Questo risponde alla perfezione a uno dei cuori del problema: Alice in Wonderland è, per progetto, non tanto un adattamento del libro originale ma un film che cerca di razionalizzare Lewis Carroll (!) riportandolo su binari narrativi riconoscibili che vadano oltre la metafora sociale. Questo è il senso ultimo per cui è stato infilato il tronco mozzato di un romanzo di formazione per fanciullette e persino una tensione emotiva tra Alice e il cappellaio matto che è roba da far resuscitare i morti per una sanguinosa vendetta. E non sto parlando dell'intoccabilità dell'opera originale, che non esiste: Carroll di fronte al cinema deve essere considerato un autore come tanti, e infatti di adattamenti di Alice ce ne sono decine, belli e brutti. Ma raramente sono stati così mal fatti.

Burton ha la pretesa che quattro idee scenografiche in croce, un sostanzioso budget per gli effetti speciali, un cast di facce note fascinose che sta sulla scena come se fosse sul palco di uno spettacolo del dopolavoro ferroviario, con Anne Hathaway trasformatasi all'improvviso da una delle migliori attrici degli ultimi anni alla cameriera secca dei signori Montagnet, e infine un'applicazione delle proprie marche testuali e della propria estetica mostruosamente pigra e svogliata – che rende Alice più un film à la Tim Burton che un film di Tim Burton – a fare un film di culto. Tanto i soldi arrivano lo stesso, è chiaro: a un certo punto sembra evidente (a chi vuole vederlo) che nemmeno Burton ci crede più, e a quel punto va tutto in malora. Ma il vero delitto è che sparisca completamente quello che era il vero trait d'union tra il testo carrolliano e il cinema burtoniano, altro che pupazzetti colorati, tramonti digitali e ragazzette petulanti, dannazione – ovvero quella sensazione di turbamento, di profonda inquietudine, di cui sono pieni tutti i suoi film e i suoi personaggi, i suoi "mostri" come venivano spesso chiamati ai bei tempi, e che qui non fa nemmeno capolino, ma nemmeno per sbaglio. E che viene sostituito da un pre-finale con balletto incluso indegno persino dei peggiori esemplari della Dreamworks, e da un finale bieco e poverello, assolutamente inessenziale, di cui nessuno sentiva il bisogno – così come tutta la mediocre fiction di BBC3 che è la frame story vittoriana su Alice e il suo spasimante, dopotutto.

Su Johnny Depp è meglio che mi facciate tacere.

Un disastro di dimensioni epocali per chiunque abbia tenuto vicino al cuore il regista di Burbank con il buono e il cattivo tempo, in salute e in malattia: la speranza è che si possa passare oltre, ma come? Una micidiale rottura di palle per tutti gli altri – e sì, in tutte le dimensioni che volete.

Friday Prejudice #211

[non è stata una scelta difficile]

Fanno della roba, nel nuovo episodio di Friday Prejudice.

Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo: Il ladro di fulmini, Chris Columbus 2010

Percy Jackson e gli Dei dell'Olimpo: Il ladro di fulmini (Percy Jackson & the Olympians: The Lightning Thief)
di Chris Columbus, 2010

Se questo è il materiale con cui si vuol mettere una pezza al fatto che la serie di Harry Potter sta per finire, stiamo freschi. Ed è così, a quanto pare: la presenza di Chris Columbus e la struttura stessa del racconto tratto dai libri di Rick Riordan non possono non destare qualche sospetto, anche se chiaramente si torna sempre alla struttura della fiaba, con poche variazioni.

Peccato che Percy Jackson sia un film così brutto, frettoloso, scritto a casaccio, sciocco, approssimativo e brutto a vedersi, perché l'adattamento della mitologia antica al gusto contemporaneo non è un male di per sé, anzi. La questione qui è che l'adattamento è impoverito proprio a causa dalla bruttezza del gusto stesso – o di quello che i produttori vogliono spacciare per tale.

Percy Jackson
 non fa insomma alcuno sforzo per mantenere un briciolo di credibilità, riuscendo a mandare in vacca persino la Medusa / Norma Desmond di Uma Thurman, e l'impressione, per ora non confermata dai fatti, che non ce ne libereremo facilmente, aumenta il fastidio. Così come la sequenza con Steve Coogan e Rosario Dawson agli Inferi, una trovata di setting e di casting che mostra le potenzialità del progetto un po' troppo tardi, quando ormai ci si è ampiamente sfasciati le palle delle penose battute del satiro / comic relief, che ovviamente non fanno mai ridere.

Una completa perdita di tempo: per un fantasy per soli adolescenti fatto come si deve, rivolgetevi a Cirque du Freak.

Il profeta (Un prophète), Jacques Audiard 2009

Il profeta (Un prophète)
di Jacques Audiard, 2009

Perché fare mille premesse quando un film va così dritto al punto, quando è così indiscutibilmente bello? Un prophète è straordinario, senza dubbio uno dei più bei film europei dell'anno, probabilmente il più intelligente, soprattutto per come sa mettere insieme le aspirazioni autoriali e le convenzioni del cinema di genere, il gangster movie e il film carcerario e una storia di sopravvivenza e dominio dai netti confini morali e filosofici.

E poi Un prophète è un oggetto quasi alieno, certamente unico, non soltanto per il suo ritmo anomalo, ma per come elementi enormemente distanti riescono a trovare una dimensione comune, per come la crudezza della realtà si ritrova stemperata dalla consistenza del sogno e della visione.

Assolutamente imperdibile.

Nelle sale dal 19 marzo 2010.

Per quanto io vi spinga a vedere in sala e promuovere quanto più potete questo splendido film, si tratta di un'opera costruita anche sui contrasti tra le lingue, e sarà quindi inevitabilmente impoverito dall'edizione italiana. Se potete, recuperatelo anche in versione originale.

Mine Vaganti, Ferzan Ozpetek 2010

Mine vaganti
di Ferzan Ozpetek, 2010

Un paio d'anni fa, al Festival di Venezia, venni affettuosamente deriso da alcuni "compagni di fila", e per diversi giorni, per aver sostenuto che La finestra di fronte non era affatto male – anzi, che era un bel film. Una fermezza che venne spazzata via, in quegli stessi giorni, con la visione di Un giorno perfetto, con tutta probabilità uno dei più brutti film del cinema italiano degli ultimi anni. Un film che riuscì persino a farmi rivedere a posteriori la mia opinione su alcuni aspetti del suo cinema, che prima apprezzavo molto.

E che mi fece passare la voglia di recuperare Saturno contro, che a tutt'oggi non ho ancora visto. Lo scrivo in un paragrafo a sé perché ho notato che viene usato molto spesso come pietra di paragone: "è meglio o peggio di Saturno contro?". Ma che ne so. Comunque, non avendo ancora riscontrato misurate vie di mezzo nei pareri su quel film, vorrei precisare a quelli che l'hanno odiato a morte e quelli che l'hanno amato alla follia che esiste anche l'altra categoria, per quanto sembri loro assurdo.

Con Mine Vaganti, Ozpetek riacquista invece quantomeno una posizione di rispetto, da queste parti: e il segreto, forse più semplice di quanto sembrasse, era alleggerire i toni – forse solo perché non è un regista dalla mano particolarmente lieve? In ogni caso, questa è una commedia "pura", nemmeno troppo amara ma scritta in modo chiaro e corretto, e anche piuttosto divertente. Il cambio d'aria da Roma a Lecce è stato utile e nonostante qualche macchietta (leggi: Elena Sofia Ricci) anche il cast è diretto con talento, con uno Scamarcio sotto tono e una Nicole Grimaudo completamente irriconoscibile – in realtà troppo bella per dirvi se reciti bene o meno. Probabilmente no.

Si intenda, Mine vaganti è un film di Ozpetek, in tutto e per tutto: ci sono le tavole imbandite e i dolci, ci sono gli insistiti carrelli circolari (ma si fermasse ogni tanto? paura del vuoto?), ci sono tutte le sue ossessioni, come quella per il legame con i fantasmi del passato e l'annullamento del tempo (che ne fa quasi un sequel/ribaltamento de La finestra di fronte)  - quindi, se queste cose vi sono indigeste, lasciate pur perdere. Se al contrario una volta vi piaceva e poi vi ha deluso, come a me, chissà, con Mine Vaganti potreste tornare sui vostri passi. Chissà.

Corey Haim R.I.P.

[goodbye]

E' morto Corey Haim. Aveva 38 anni.

Precious, Lee Daniels 2009

Precious: Based on the Novel Push by Sapphire
di Lee Daniels, 2009

Una volta stabilito che Quentin Tarantino sarebbe uscito quasi a bocca asciutta nonostante la netta superiorità del suo film, messo in chiaro che a Kathryn Bigelow si vuol bene come a una zia nonostante The Hurt Locker non sia propriamente (ma nemmeno lontanamente) il suo lavoro migliore e posto che, al contrario, Avatar qui è piaciuto moltissimo nonostante Cameron non sia il massimo della simpatia, agli Academy Awards di quest'anno per quanto mi riguarda poteva vincere un po' chiunque.

Per me, l'importante era che non vincesse Precious.

Perché va bene cascarci, e cascarci con tutte le scarpe e tutti i pantaloni come ha fatto molta critica americana fin dal Sundance lo scorso anno, ma c'è un limite a tutto: il film di Lee Daniels è infatti uno dei casi più clamorosi nel cinema americano recente di una sbandata generale per un film rivelatosi poi tra i titoli più sgradevoli della stagione – e non nell'accezione che vorrebbe disperatamente rappresentare. Un film ricattatorio, ruffiano, spregevole, che non fa altro che inanellare una serie di sventure e situazioni oltre il limite, rovistando sul fondo dei bassi istinti e facendo leva sulle peggiori inclinazioni e sui più ritriti luoghi comuni socio-culturali buttandoli all'eccesso, giocando insomma tutto su una messa al quadrato della provocazione dei suoi singoli elementi – ma il fatto che i dialoghi siano così sboccati o che qualcuno lanci televisori sulla testa dei propri nipoti neonati non riesce a renderlo affatto differente da un qualunque pessimo film del pomeriggio di Canale 5. Non mi sorprende comunque troppo il successo del film: ogni tanto piace pensare che un film in cui va tutto in merda, oltre ogni immaginabile esagerazione, sia automaticamente un film originale, antagonista, prezioso.

Del fatto che sia o meno una storia vera o del fatto che sia tratto da un libro scritto in un determinato modo, francamente, me ne lavo bellamente le mani: qualunque sia stato il lavoro di adattamento, se ha portato a risultati simili, è stato un pessimo lavoro e tanto basta. Senza contare, cosa ancora peggiore, che Precious, oltre a tutto ciò, è anche un film pietosamente e irrimediabilmente brutto, sotto il profilo estetico e cinematografico, con una patinaccia televisiva più vecchia di me e una collezione di sequenze per cui, dopo un po', ci si ritrova soltanto a pensare "e ora cosa potrà mai succedere, le tireranno un televisore in testa"? E infatti. Un esempio a caso di ciò che probabilmente è piaciuto a tutti e che personalmente trovo orribile sono le fantasmagorie di Precious, che si immagina di diventare una star: fanno ridere i polli, danno pure parecchio fastidio – e poi uno si domanda, ma la gente come fa a lamentarsi di quelle di Shutter Island? Oppure l'imperdonabile, tremendo carrello circolare con i tableau della storia della cultura afroamericana, che a quel punto c'entra davvero come stocazzo. La lista potrebbe continuare all'infinito, ma penso che avrei potuto fermarmi a "televisori sulla testa dei propri nipoti neonati".

Forse sarà un'idea tutta mia, ma un film in cui la cosa migliore è l'interpretazione di Mariah Carey è un film che non dovrebbe nemmeno esistere.

Il film per ora non ha un'uscita italiana, ma i milanesi potranno vederlo il 15 marzo: è infatti il film apertura del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. Non chiedetemi il perché.

Alexander the Last, Joe Swanberg 2009

Alexander the Last
di Joe Swanberg, 2009

Se ne parla sempre di meno, non solo da queste parti, ma il mumblecore è ancora vivo. Forse ancora per poco: spinti probabilmente dal successo di Humpday e di Baghead, i fratelli Duplass hanno infatti da poco girato Cyrus, proiettato già al Sundance di quest'anno e presto al SXSW, che con il suo cast (Jonah Hill, John C. Reilly, Catherine Keener e Marisa Tomei) ha tutte le carte per mettere dopo cinque anni un punto alla fine di questa strana parentesi produttiva del cinema super-indipendente americano.

Oppure no? Nel frattempo infatti un film come Alexander the Last sembra quasi la riconferma, al contrario, di una vitalità che non sembra affatto aver intaccato il sistema con cui questi film vengono prodotti e girati. Joe Swanberg, uno dei primatisti di questo "movimento", tra altissime virgolette, già regista del curioso Hannah takes the stairs, non sembra interessato a scalfire il "metodo mumblecore" – anch'esso tra virgolette. Attese, silenzi, linguaggio cinematografico scarnificato, logorrea e improvvisazione, musica intradiegetica accuratamente scelta, pochissime concessioni ai ritmi del cinema odierno, moltissime quelle autoriflessive.

In un certo senso, fa bene: anche grazie al cast, con la riconferma dell'ottima Jess Weixler già protagonista di Teeth, Alexander the Last è probabilmente il suo film migliore*, e riesce a trasmettere ancora nel 2009 quell'affascinante mistura tra una schietta e quasi frastornante sincerità e una scaltra intelligenza produttiva (soprattutto nel saper parlare a una generazione di venti-trentenni forse in minoranza numerica ma fortemente incisivi sul mercato del cinema indipendente, soprattutto dei festival), che caratterizzava i primi film di registi come Bujalski, Katz, e degli stessi Swanberg e Duplass.

E dà l'impressione che, se da una parte si può andare nella direzione di un'applicazione di questo sistema a un cinema di più largo consumo, non ci sia ragione per rinunciare alle proprie ossessioni, e con esse alla propria nicchia, per esempio con un piccolo film che, davvero con un niente, con l'arma dell'ironia e dell'autoreferenzialità e senza alzare troppo le ambizioni, con la coscienza dei propri limiti ma con dialoghi che vanno dritti al punto come frecce appuntite, riesce a dire delle cose profondamente vere sulla civiltà urbana e sui rapporti umani.

Scordatevi un'uscita italiana: l'unico film mumblecore ad uscire sarà Humpday, distribuito nei prossimi mesi con un titolo che preferisco non ripetere.

*ma di Nights and weekends, che ancora mi manca, si leggono buone cose.

Bright star, Jane Campion 2009

Bright star
di Jane Campion, 2009

Ho sempre avuto l'idea che Jane Campion sia una regista a cui piacciono le sfide, che nel suo lavoro sia quindi importante la componente di rischio, calcolato o meno. E che poi vada bene o meno. Bright star per esempio è un film che non sceglie per nulla la via più facile – tutt'altro: già aprire con un film una finestra sulla vita privata di un artista, un poeta come John Keats poi, non è cosa facile, né tantomeno lo è raccontare la sua poesia. O qualunque poesia.

E poi, come già il capolavoro Ritratto di signora, l'approccio al film in costume è in realtà più inusuale di quanto sembri a un primo approccio, così come rappresenta una rottura il rifiuto della Campion, anche sceneggiatrice, di adattare al gusto contemporaneo una storia d'amore così imprevista, inattuale e platonica, eppure stranamente universale, comprensibile e "umana". Mettendo in scena un film tanto sussurrato e quieto quanto dolente nell'accettazione dell'assurdità della vita, un film in cui le azioni cedono il posto alle parole, così come i rimpianti e i ricordi prendono il posto della stessa vita.

Un'opera peraltro visivamente superba e sfrenatamente romantica, che trova nelle interpretazioni del cast uno dei suoi punti di forza, in primis Abbie Cornish nei panni di un personaggio in cui le aspirazioni di indipendenza sociale e il puro sentimento amoroso sembrano andare di pari passo – fino a confonderne i confini. Bright star rappresenta in ogni caso una sorpresa graditissima, perché è il ritorno, in grande stile anche se con toni quasi timidi, intimi e introversi, di una grande autrice che nell'ultimo decennio, complice un film sbagliato come In the cut, ha faticato a ritrovare la sua strada. Bentornata, Jane Campion.

Il film doveva uscire a febbraio, poi l'uscita è stata rimandata all'ultimo momento: arriverà nelle sale con 01 il 23 aprile 2010. Difficile però immaginare come se la siano cavata con l'edizione italiana: le poesie saranno tradotte ex novo? Se possibile, consiglio quindi come sempre la visione in lingua originale: il dvd inglese esce oggi e costa poco.

Shutter Island, Martin Scorsese 2010

Shutter Island
di Martin Scorsese, 2010

Difficile parlare del nuovo lavoro di Martin Scorsese senza rivelare dettagli della trama: seguendo una traccia ben nota al cinema di genere (e non solo) degli ultimi anni, tutto ruota intorno a una sorpresa che dovrebbe giustificare i misteri e i presagi di cui il film è disseminato fin dalla primissima inquadratura. Il vero problema del film è che, una volta giunti a questa attesa rivelazione finale, peraltro non così inimmaginabile (chi vi scrive queste cose non le indovina mai e poi mai: stavolta ci sono voluti 10 minuti), la sceneggiatura ce la mette tutta per spiegarne ogni dettaglio, in un paio di sequenze francamente troppo lunghe che occupano massicciamente la parte conclusiva del film annacquando la palpabile tensione creatasi nelle due ore precedenti – almeno, fino all'amarezza quasi soffocata del bellissimo finale.

Non è quindi un film che si fa amare alla follia, Shutter Island: richiede attenzione più che pazienza, cervello più che cuore e budella, osa poco sia in regia che in cabina di montaggio, lascia molto, forse troppo, al lavoro eccellente degli attori e della bella e sfiancante sceneggiatura. Ma resta comunque un film cupo e doloroso sulle radici della colpa, un viaggio inquietante sul confine tra la realtà e l'inconscio, una ghost story morale profondamente scorsesiana travestita da noir contemporaneo. E se Scorsese nella gran parte del film si limita a omaggiare il passato, soprattutto con l'uso della fotografia, nei flashback e nelle sequenze oniriche sfodera uno splendore visivo, oltre che una compattezza registica e una brutalità quasi scioccante – sequenze che ripagano del tutto la poca convinzione che aleggia sul resto del film, e dove, finalmente, possiamo ancora riconoscere lo stile e la vibrante passione di uno dei più grandi registi americani. Uno Scorsese "minore" quindi, senza alcun dubbio: ma avercene.

Invictus, Clint Eastwood 2009

Invictus
di Clint Eastwood, 2009

Ho già fatto un accenno alla mia opinione dall'altra parte, vorrei quindi risparmiarmi i preamboli. Invictus è probabilmente il film più debole della filmografia recente di Eastwood: scompaiono quasi del tutto i caratteri del suo cinema e il rigore della rappresentazione, lasciando il campo a un biopic pomeridiano dalla sceneggiatura dilettantesca e dalla regia distratta, didascalico, noioso e moraleggiante. Non un disastro, si intenda: soltanto un film fastidiosamente medio, troppo per un regista che, mentre tutti si inseguivano a riempirsi la bocca con il "cinema classico", in quel cinema faceva dei tagli grossi così. Ma Eastwood è diventato negli ultimi anni un autore quasi completamente intoccabile, anche quando fa dei film sostanzialmente sbagliati, o inutili. E capita: Flags of our fathers fu reso ancora più imperdonabile dalla sua ottima controparte nipponica, senza la quale forse ce ne saremmo semplicemente dimenticati. Questione di gusti? Forse è più una questione di formazione, credo. In ogni caso, qui siamo lontani anni luce da Gran Torino e da Changeling: e trovo irritante l'idea che l'illusione di realtà e l'aderenza alla Storia possano di per sé giustificare tutto ciò che nel film non va – un argomento che ho riscontrato in alcune difese del film: Invictus è un gran pacco ma in fondo racconta ciò che è davvero successo. Non è una buona ragione, né lo sarà mai.