I gatti persiani (No one knows about persian cats) (Kasi az gorbehaye irani khabar nadareh)
di Bahman Ghobadi, 2009
Ci sono diversi modi per considerare un film come quello di Bahman Ghobadi, vincitore del premio speciale della giuria a Cannes nella sezione Un Certain Regard (e di molti altri premi in giro per il mondo) e se vogliamo spingerci oltre si può dire che questi si riflettono in altrettante modalità di fruizione del mezzo cinematografico. Per esempio, I gatti persiani è un film palesemente e profondamente politico, la cui stessa esistenza basta a sé stessa- il suo essere un film “proibito” vorrebbe avere già una valenza semantica che supera i confini narrativi o linguistici, e il fatto che il film inizi proprio con uno svelamento simile è più che una dichiarazione d’intenti. I gatti persiani è anche un film che racconta una storia molto più universale, quella del desiderio di fuga e di un moto di ribellione generazionale nei confronti di uno status quo reazionario e soffocante – in cui, in questo caso, il contesto di partenza e la più classica figura genitoriale si estendono all’intero sistema iraniano.
Ma dopotutto, I gatti persiani è anche un film che accarezzando il documentario (e non solo per l’estrema vicinanza alla realtà dei fatti delle storie narrate) parla di una scena musicale – quella della Teheran underground, delle cantine buie e dei piani più alti dei palazzi in costruzione, dei club e degli studi di registrazione. Stranamente (ma non troppo) è proprio quest’ultimo aspetto, forse il più debole sulla carta, a dare vera vita al film, restituendo attraverso la vitalità della musica pop (tra l’altro, musicalmente eclettica e spesso davvero eccezionale) abbinata alle immagini-videoclip di una città affascinante che siamo abituati a vedere sotto altri filtri, raccontata attraverso altre narrative, un’idea di libertà che batte sotto i piedi del regime. Senza troppe illusioni, soffocate in definitiva da una realtà violenta e frustrante perché legata strettamente con un fato crudele e inevitabile, ma con una vivida speranza – un’idea di fronte alla quale le osservazioni possibili sulla semplicità un po’ stanca della sceneggiatura lasciano il tempo che trovano.
questo non voglio perderlo.
post scritti molto bene.
ely