maggio 2010

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Dennis Hopper R.I.P.

[goodbye]

È morto Dennis Hopper.

Friday Prejudice #222

[i film con i complessi]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice, hic et nunc!

Friday Prejudice #221

[ma quant'è bello andare in giro con la MILF]

Toh guarda c’è il nuovo episodio di quell’altro blog con i pregiudizi.

Prince of Persia: le sabbie del tempo, Mike Newell 2010

Prince of Persia: le sabbie del tempo (Prince of Persia: the sands of time)
di Mike Newell, 2010

Se si pensa ai (relativamente pochi) film con attori in carne e ossa tratti da famosi videogiochi il panorama, a parte alcune eccezioni (ma mai eccellenti) è piuttosto sconfortante: questo è il motivo per cui, alla fine, è difficile voler male a Prince of Persia. Tutto sommato, il film prodotto dalla Disney e da Jerry Bruckheimer con l’obiettivo dichiarato di diventare il loro nuovo Pirati dei Caraibi, è un lavoro onesto con un obiettivo non disprezzabile di per sé – ovvero riportare sullo schermo un cinema d’avventura per le masse: romantico, acrobatico, naif.

Obiettivo centrato: superato lo shock di metà del casting (Jake Gyllenhaal fuori parte e grossissimo, Ben Kingsley al contrario fin troppo in parte e ricoperto di cerone) ci si diverte quanto basta, accettato il fatto che Prince of Persia è un film che si brucia e si consuma nelle sue due ore, lasciando poco o niente di sé, e che la brillante trovata di sceneggiatura che dà il titolo al film è resa visivamente nel modo più cheesy che si possa immaginare: vi dirò, talmente pacchiana che lo conto quasi come un pregio – anche perché, si sa, quando c’è di mezzo il viaggio nel tempo io non capisco più niente.

Ma al di là dei saltelli e dell’azione, le cose migliori del film sono Gemma Arterton e Alfred Molina: sulla prima è giocato tutto l’impianto sentimentale del film, e la castissima attrice è così vergognosamente bella e fotogenica da distrarre spesso e volentieri dal resto, il che giova anche al film (tipo "non mi sono accorto della tal cazzata perché stavo guardando Gemma Arterton"); il secondo è invece il più classico comic relief, ma tutto giocato su una sequela di gag anacronistiche che ammiccano al presente (senza pretese di riflessione eh, tsk, giammai) e che – miracolo – qualche volta fanno ridere.

In tal senso, ci sarebbe poi una serie infinita di cose da dire sul soggetto del film e su come anch’esso ammicchi alla recente storia americana, nemmeno troppo velatamente (un intero esercito che, mal informato in cattiva fede, attacca città per cercare armi di distruzione che poi invece non c’erano? cose così), ma che passano immediatamente  in secondo piano, sparendo definitivamente e lasciando spazio a un cinema d’intrattenimento che, una tantum, e lasciando perdere cose come il terribile incipit con le scrittine e la vociona, poi riproposto paro paro nel finale, non fa male a nessuno.

Il fatto che poi da questo genere di progetti non esca mai un Predatori dell’arca perduta è un po’ un peccato, ma dipende da un fattore semplice semplice: che non c’è dietro uno Spielberg ma un Bruckheimer. Per quanto riguarda Newell, i tempi di Quattro Matrimoni e Donnie Brasco sono lontani, ma qui fa il suo mestiere in modo adeguato, confermando l’impressione già avuta negli anni passati confrontando ad esempio un film come il quarto bellissimo Harry Potter con Mona Lisa Smile – ovvero che sia ormai meglio come regista funzionale alla produzione che viceversa.

La nostra vita, Daniele Luchetti 2010

La nostra vita
di Daniele Luchetti, 2010

Per essere l’unico film in Concorso al Festival di Cannes di quest’anno, non potevo immaginare che il nuovo film di Luchetti fosse così irrilevante – questa è la parola che mi frulla in testa da un paio di giorni: il problema non è che La nostra vita sia un film particolarmente malriuscito, ma è anche un film che nella fatica del dividersi tra le sue due anime e ambizioni (quella sociale e quella individuale, chiamiamole così per brevità) fallisce nel trovare un taglio personale e originale con cui raccontare l’Italia di oggi.

A criticare La nostra vita si rischia di fare la pessima figura di quelli, in posizioni di potere o meno, che vorrebbero un cinema italiano meno spietato nei confronti del nostro stesso paese, forse più consolatorio, o soltanto allegro. Cosa che in effetti il film non è: ma il problema non sta tanto nell’Italia che Luchetti racconta, guardata da una distanza tale da rivelare da una parte da non appartenenza di Luchetti a questo mondo e dall’altra un sincero interesse, quasi etnografico (che fa il paio con l’ultimo Soldini, in qualche modo), ma sta semmai nella semplificazione con cui si esplicita il giudizio. Insomma, se è molto interessante il fatto che il punto sul nostro paese sia messo in bocca a stranieri, lo è decisamente meno che sia cristallizzato in frasi di dialogo. Che tornano a ondate: "voi italiani siete fissati con i soldi", ed ecco a voi il tema del film, e se qualcuno avesse dei dubbi lo ripetiamo un’altra volta, e un’altra ancora. No, grazie.

Che poi, in realtà, visto dalla prima inquadratura all’ultima, La nostra vita incrocia chiaramente, nella tradizione del miglior cinema italiano, le osservazioni sociali sull’Italia con qualcosa di molto diverso – ovvero, la storia dell’elaborazione di un lutto: una cosa di cui ti rendi conto negli ultimi minuti di film. È tutto lì, e tutto sulle spalle di un solo personaggio, sempre in campo, sempre osservato da una vicinanza estrema, a una spanna dal viso, con la macchina da presa mobilissima – peraltro un personaggio ambiguo e assai spesso sgradevole per il pubblico nel modo in cui si relaziona al mondo, agli altri, ai suoi figli, al suo stesso dolore. Questo, quello più intimo e personale, è forse l’aspetto meno banale di un film riuscito solo a metà -  anche se Luchetti ha troppa fiducia in Elio Germano, che è sì bravo, ma non bravo abbastanza da tenere in piedi un film sulle sue spalle. 

L’altra cosa che mi frulla in testa dall’altro giorno è la questione-Vasco: la scelta della sua canzone sui titoli di testa è un colpo da maestro e un esempio da seguire – nel senso: il fatto che la coppia lo ascolti cantandolo a squarciagola, e poi che sia quella stessa canzone al centro di quell’altra scena qualche minuto dopo, e che il loro terzo figlio si chiami Vasco, racconta già da sé dei personaggi (aspetto che il pubblico internazionale difficilmente capirebbe) molto più delle noiose didascalie e delle voci fuori campo a cui molto cinema medio ci ha purtroppo abituato.

Kick-Ass, Matthew Vaughn 2010

Kick-Ass
di Matthew Vaughn, 2010

Nel panorama dei film sui supereroi, tratti o meno da pagine a fumetti, il nuovo film di Matthew Vaughn era uno degli esperimenti più rischiosi: portare Mark Millar sullo schermo non è un gioco da ragazzi. Bekmabetov con Wanted ci era riuscito bene, a suo modo, con uno stile roboante e testosteronico, ma il regista di Stardust va olltre, consegnando, e spero che passi in qualche modo il mio incontrastato entusiasmo, uno dei film più esaltanti e irresistibili della stagione. Non era facile, appunto: Kick-Ass abbina un pantone di colori accesi a una storia cupa e sanguinaria, un soggetto provocatorio che parla di vendetta e morale (e di un sacco di altre cose) a un impianto da "film adolescenziale".

Chiaramente, chi vi scrive era già ben predisposto nei confronti della pellicola: bastava aver dato un’occhiata alle pagine di Millar e John Romita Jr per rendersi conto del suo potenziale cinematografico. Allo stesso modo, bastava aver visto uno dei molti trailer circolati per mesi in rete per puntare con impazienza la sveglia alla data d’uscita del film. Ma Vaughn non si è limitato a trasferire nel film gli elementi di più immediato appeal, in primis le sequenze d’azione (assolutamente spettacolari, e comunque girate e montate con più libertà di quanta il progetto richiedesse: ben fatto) ma, per farla breve, ha fatto le cose sul serio fino in fondo. Con una sceneggiatura adeguata e adulta, tutta sui personaggi, sulle loro urgenze, sulle loro mancanze, sulle loro pulsioni inarrestabili, con una colonna sonora spaventosa (un aspetto che spesso è dato per scontato, mentre qui non si sbaglia un colpo, dai Prodigy a Bad Reputation) e soprattutto con un cast fenomenale, dal sorprendente "esordiente" Aaron Johnson a un ritrovato e sorprendente Nicolas Cage, al solito incredibile Christopher Mintz-Plasse.

Ma Kick-Ass, va detto, è prima di tutto Chloe Moretz, che interpreta il ruolo di Hit Girl: questa è la nascita di una stella, se vogliamo. Quello che riesce a fare la giovanissima attrice classe 1997 (fa impressione persino pensarlo) nel film di Vaughn è qualcosa di assolutamente miracoloso. Questione di presenza scenica, di talento innato, o forse semplicemente di bravura: tant’è, che quando la Moretz è in campo non ce n’è più per nessuno, ruba la scena a tutti trasformandosi in una minuscola opera d’arte pop, sia che volteggi massacrando malcapitati e vomitando cunt fuck e cock,sia che decida di partire all’azione attraverso una silenziosa preghiera laica davanti a due tazze di cioccolato e marshmellows. Una benedetta forza della natura: ci aspettiamo grandi cose da lei, ma in Kick-Ass ci ha già dato ben più che una speranza.

Il film non ha ancora una data d’uscita italiana.

Gli amori folli, Alain Resnais 2009

Gli amori folli (Les herbes folles)
di Alain Resnais, 2009

Alcune delle cose che ho letto, distrattamente, in giro (se avessi tempo per leggere con attenzione probabilmente ce l’avrei per scrivere: questo post attende ormai da quasi due settimane) fanno leva sul fatto che Resnais ha quasi 90 anni, ed è incredibile che un regista quasi novantenne porti sullo schermo un film dotato di una tale dissacrante e anarchica libertà, sotto ogni punto di vista: un fatto. E un aspetto umano certamente ammirevole che mi interessa poco, così come, non è una novità, mi lascia piuttosto freddo l’ossequio nei confronti del regista: a ognuno la propria formazione, ancora una volta, persino più che il proprio gusto.

Ma non crediate, ah, non crediate. Alain Resnais questa volta mi ha preso abbastanza sottogamba. Non mi ha conquistato del tutto, lo ammetto, ma mi ha fregato – ed è cosa buona e giusta. Sono uno spettatore che adora essere preso per i fondelli: Les Herbes Folles è un film intelligente e sorprendente sotto questo aspetto, non tanto per quel che dice o racconta, una storia d’amore imprevedibile e insensata, sradicata dalla ragione come un fiore cresciuto sul dorso di un vulcano acceso, ma per come sceglie di dirlo. Un sano e onesto surrealismo di vecchia scuola che non risiede certamente solo nell’ormai noto finale beffardo: la cosa più bunueliana, per esempio, a mio parere, è l’idea di celare allo spettatore il passato di Georges, una prevaricazione sul senso e sulla narrazione che lascia tanto stupefatti quanto divertiti. L’altro aspetto straordinario di Les Herbes Folles è senz’altro quello tecnico: al di là di alcuni pezzi di bravura (uno tra tutti: il piano-sequenza della cena) basterebbe citare la sequenza dell’incontro davanti alla sala dove George è andato a vedere I ponti di Toko Ri. Non tanto per la sequenza in sé ma già per l’intenzione iperrealista di ricreare quel set, a quel modo, con quei colori, come se non ci fosse altro modo per disegnarla – così come, allo stesso modo, Les Herbes Folles dà l’impressione di un film che ha già dato molto, quasi tutto, in fase di progetto. Ma se, aggiungo, quello di Resnais è un film che eleva programmaticamente ad arte il difetto narrativo, lo scarto, l’ellissi, l’assenza, l’omissione, il gioco cerebrale del ribaltamento spazzato via da un impeto sentimentale che fa rumore, che sposta l’aria, forse che odora persino – finisce per conquistare di più proprio per il suo essere allegramente scombiccherato, ciancicato, a volte più simile a una poetica demenza che a qualcosa di compiuto, irrazionalmente spassoso a patto di entrare in sintonia l’umorismo di Resnais (non del tutto chiaro al sottoscritto in una buona metà dei casi), insomma, folle e anacronistico come un’erbaccia che con il cemento attorno non c’entra più granché. Ben venga, l’erbaccia.

Tutte le migliaia di altre cose che avrei voluto scrivere di questo film, due settimane fa, le ho dimenticate. Apposta.

Friday Prejudice #220

[piacere, sono un po' zampaglione]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Iron Man 2, Jon Favreau 2010

Iron Man 2
di Jon Favreau, 2010

Quando ti capita una cosa come Iron Man, universalmente riconosciuto come uno dei migliori blockbuster superomistici di sempre, cosa può succedere nel sequel, cosa puoi combinare? Senza scomodare una lunga e noiosa casistica dei precedenti (per esempio il pericolo "troppi nemici = caos" che questo nuovo film schiva davvero per un pelo, ma non del tutto, e preferirei non tornarci sopra, vista la già eccessiva lunghezza del post), limitiamoci a dire che una delle possibilità più deprimenti era quella secondo cui il seguito si sarebbe limitato a riproporre pedissequamente gli elementi del "primo capitolo", svilendoli. Questo non è accaduto, anche se possiamo dire con tutta tranquillità che Iron Man 2 non è all’altezza del film uscito due anni fa, non ne possiede l’equilibrio, la compattezza, la pesantissima grazia.

Cosa succede, dunque, in Iron Man 2? Alcuni elementi acquistano una forza maggiore: prima di tutto la rilevanza della sceneggiatura, scritta non a caso da un Justin Theroux che proprio nell’esordio Tropic Thunder aveva mostrato un esempio paradigmatico di scrittura comica applicata ai canoni estetico-narrativi del blockbuster hollywoodiano. È su questo campo che si è giocata la perdita dell’equilibrio rispetto all’episodio precedente, con il carattere più spiccatamente action che cede il passo a una maggiore quantità di dialoghi e battibecchi da commedia brillante – ma è stato uno squilibrio ricercato: Iron Man 2 è un film che concentra ancora di più la sua attenzione su Tony Stark. Meno su Iron Man? Per due ragioni: prima, perché Robert Downey Jr. è una forza della natura capace di reggere sulle proprie spalle una buona metà del film senza aiuti. La seconda, ben sintetizzata da un ottimo articolo uscito su io9 (a cui rimando per approfondire) riguarda più specificamente il personaggio, i radicali cambiamenti del suo carattere, o meglio, dei suoi programmi narrativi.

Questo squilibrio, palpabilissimo, non impedisce però a Favreau di confezionare uno spettacolo fracassone, sbruffonissimo e rumoroso, senza dubbio un po’ caotico e confuso, ma assolutamente divertentissimo – che è poi quel che conta, in questo caso: quasi tutte le critiche possibili riguardano in realtà il poco gentile confronto con il precedente, ma nell’ottica della produzione Marvel al cinema Iron Man 2 è davvero un signor film d’intrattenimento. E per nulla "pigro": gioca moltissimo con la smitizzazione del costume e del personaggio – la sequenza della festa di compleanno con Stark sbronzo che fa il tiro al piattello in casa, ma non solo – e soprattutto non si accontenta di monetizzare sugli elementi più immediatamente smerciabili (tranne l’attore-Downey, ovviamente: ma mi risulta difficile pensare che "le masse" si muovano per lui) ma, appunto, prova ad affrontare strade più scoscese, senza rischiare troppo (tutto viene ricondotto ai canoni abbastanza in fretta) ma tutto sommato facendo una scelta che va abbastanza controcorrente rispetto all’universo comic più solare a cui il film fa riferimento.

Ovvero, e qui sta il punto cruciale, quasi tutti i personaggi di questo film sono assolutamente insopportabili, chi più chi meno: Stark, come sottolineato dall’articolo sopra citato, è divorato da un’incontrollabile delirio di onnipotenza ed è semplicemente odioso; il Vanko di Mickey Rourke (che presenza scenica, santo cielo) non è certo uno di quei cattivi in cui ci si immedesima facilmente né di cui si ha particolare tenerezza; il Justin Hammer di Sam Rockwell, a cui viene dato molto spazio nell’ottica di cui sopra, caricaturalmente antipatico, è un villain chiacchierone e sciocco, un po’ come il Richard Pryor di Superman III – il più pericoloso della compagnia, proprio perché fa danni solo per mezzo di terzi; persino la stupenda Pepper Potts di Gwyneth Paltrow è ridotta alla petulanza, facendosi rubare la scena da una dichiaratamente imbambolata Scarlett Johansson. Questi non sono, si intende, considerazioni di merito sul film o sulla scrittura dei suoi personaggi: è una direzione chiara che il film prende, e che vale la pena di registrare.

Ciò che invece merita di essere analizzato sotto la lente del giudizio di valore è, semmai, un altro dei punti cruciali che indebolisce moltissimo, più oggettivamente, questo film: la sua natura di "momento di passaggio" essenziale in direzione di The Avengers di Joss Whedon, che vedremo soltanto tra due anni. Facciamoci il callo, sarà così d’ora in poi: dopo i timidi "accenni" presenti in Iron Man e nell’Incredibile Hulk di Leterrier, questo film rivela in tutto e per tutto la sua (e quella dei prossimi Thor e Capitan America) natura di episodio all’interno di un progetto seriale molto più grande, dando moltissimo spazio a elementi che hanno senso solo in un’ottica di lungo periodo – più specificamente, la presenza di Nick Fury e tutto ciò che ne consegue. Senza dubbio, mettendo parecchia saliva in bocca agli appassionati, ma tradendo in qualche modo la compattezza, già scivolosissima del film in sé, come opera a sé stante. Sono certo, o almeno confido, che vedremo questo elemento in un’altra ottica tra qualche anno, quando tutta la saga sarà terminata. Ma per il momento, avremmo forse preferito che le inside-joke buone solo a posteriori (o per una nicchia ristretta di lettori-spettatori) rimanessero anche stavolta, relegate, dopo i titoli di coda.

Micmacs à tire-larigot, Jean-Pierre Jeunet 2009

Micmacs à tire-larigot
di Jean-Pierre Jeunet, 2009

Sono pochissimi (forse nessuno) i registi francesi dell’ultimo quarto di secolo ad aver avuto la stessa fortuna e riconoscibilità globale di Jean-Pierre Jeunet. Senza dubbio, in qualche modo, tutto nasce da quel gioiello di Delicatessen, diretto nel 1991 in coppia con Marc Caro, la cui notorierietà è però quasi del tutto irrilevante se confrontata con quella di Il favoloso mondo di Amélie – con tutta probabilità, uno dei film europei più visti di sempre, nel mondo. Piaccia o meno: da queste parti, lo dico, quel film è un beniamino.

Ciò nonostante, Jeunet si è sempre risparmiato molto, ha diretto soltanto sei pellicole nel giro di quasi vent’anni, e non si è nemmeno più fatto tentare dagli states dopo Alien: La Clonazione, film gustosissimo e sottovalutato. Insomma, è rimasto sostanzialmente uguale (o fedele?) a se stesso, procurandosi moltissimi fan ma pure non pochi nemici – spesso e volentieri per il fatto che il cinismo crudelissimo e satirico di Delicatessen e i neri toni fiabeschi del successivo La città perduta fossero stati allentati in seguito da un romanticismo assolutamente sfrenato che in molti hanno scambiato per mera iperglicemia, discostandosi comodamente dall’opera del regista (divenuto troppo celebre per essere anche amato?).

Micmacs à tire-larigot non dovrebbe suonare come una sorpresa per nessuno che abbia visto i suoi film precedenti: un film estremamente grafico, caricaturale, ingenuo e forse infantile nel trasmettere il suo universale messaggio di pace – e, proprio per tutte queste ragioni, assolutamente irresistibile. A patto ovviamente di saper scendere a compromessi con il proprio cinismo, di saperlo mettere da part, e ne vale la pena perché ci si diverte come matti: Micmacs pesca dalla cinefilia, dal circo e dal fumetto d’autore per raccontare un’inarrestabile e comicissima rivincita degli oppressi e degli emarginati e, grazie alla prima collaborazione di Jeunet con il direttore della fotografia Tetsuo Nagata, è anche visivamente sorprendente, con un gusto della composizione (anche cromatica) che mostra come, nonostante le innumerevoli imitazioni che negli ultimi 10 anni hanno creato quasi un sottogenere nel cinema europeo, Jeunet abbia ancora uno stile solidissimo.

Tra l’altro, in Micmacs il regista recupera alcuni tratti della sua magnifica opera prima, non solo auto-citandosi in una breve inquadratura che farà scendere i lucciconi dagli occhi a chi è cresciuto con Delicatessen, ma meno specificamente recuperando quel talento nel narrare, più che con le parole, attraverso il linguaggio del corpo dei suoi attori-acrobati (Dany Boon è un ex mimo, la ballerina-contorsionista Julie Ferrer ha un passato nel circo, Dominique Pinon è Dominique Pinon), rinunciando al dominio del voice over che aveva forse appesantito un altro film bellissimo e sottovalutato di Jeunet – ovvero il suo penultimo, Una lunga domenica di passioni.

Insomma, questo è un film di Jean-Pierre Jeunet, in tutto e per tutto – ma che potrebbe anche riavvicinare alcuni aficionados della prima ora, se decideranno di stare al gioco fino in fondo. Prendere o lasciare. Fate voi: io me ne sto qui, a braccia aperte.

Non mi risulta sia prevista per ora una data d’uscita italiana. Nel frattempo, in patria il film è uscito sia in DVD che in Blu-Ray.
 

Friday Prejudice #219

[amà, devo dirti due o tre cosette]

Deh, il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Il segreto dei suoi occhi, Juan José Campanella 2009

Il segreto dei suoi occhi (El secreto de sus ojos)
di Juan José Campanella, 2009

Le logiche che governano un premio come l’Oscar al miglior film in lingua straniera sono per me alquanto fumose, quando non misteriose: si tratta comunque, senza dubbio, di una delle statuette meno legate al film in sé, il quale è facile supporre non sia stato visto affatto da alcun giurato dell’Academy, ma più che che altro alla spendibilità sul mercato. Quest’anno, per esempio, due film come Un prophete di Audiard e Il nastro bianco di Haneke sono stati sconfitti da un thriller diretto da un poco conosciuto regista argentino – che però, dato assai importante, lavora più spesso negli states, dove ha diretto una ventina episodi di Law & Order e svariate altre cose per la tv.

Va quasi da sé, più che altro per schiaccianti motivazioni statistiche, che il film di Campanella non sia all’altezza dei suoi due magnifici contendenti, ma è con tutta probabilità quello dei tre più facile da "piazzare" – forse persino in un mercato cieco e pigro come quello italiano: perché se El secreto de sus ojos è sì fortemente inserito, attraverso l’uso del flashback, in un contesto storico ben preciso (quello del regime istituito da Isabel Perón dopo la morte del marito, la cui conoscenza è data pressoché per scontata), la Storia della nazione argentina è comunque il contorno, o più spesso il pretesto, per una vicenda dai contorni più vicini al genere, tra il melò iberico e il thriller politico d’autore più vicino al gusto nord-americano in cui, che si tratti di Storia o di fantasia, a un certo punto, non ha più nemmeno molto senso. A meno di essere argentini, suppongo.

In ogni caso dunque, il film vive su tutt’altro – prima di tutto sull’ingegnosa costruzione della tensione narrativa intorno a una vicenda intricata e sorprendente (in senso letterale: lo "svelamento", ormai quasi inevitabile ma punto dolente di molti film, coglie davvero di sorpresa) che ruota attorno a concetti non proprio leggerissimi, giustizia e Verità e via dicendo, ma anche sull’interpretazione dell’ottimo cast (in particolare Soledad Villamil) e su alcuni pezzi di bravura di Campanella. In cima a tutti c’è ovviamente il lunghissimo piano-sequenza centrale ambientato in uno stadio durante una partita di calcio, che ha fatto parecchio parlare di sé (più di tutto il resto del film messo assieme, va da sé) e pur se stilisticamente (giusto un po’) separato dal resto del film, è una cosetta effettivamente impressionante. Vale da solo il prezzo del biglietto? Non diciamo baggianate. Ma il film intero, quello sì.

Il film esce in Italia con Lucky Red il prossimo 4 giugno.

In Spagna è già in vendita in DVD e Blu-Ray.

The Messenger, Oren Moverman 2009

The Messenger*
di Oren Moverman, 2009

Il primo film diretto da Oren Moverman, già co-sceneggiatore di I’m not there di Todd Haynes, è molto più ambizioso di quanto possa far intuire la natura più prettamente politica del suo "messaggio" (tra virgolette) e del suo percorso narrativo, raccontare "la guerra in casa", spostare il baricentro su quelli che aspettano, con i soldati che vagano porta a porta preposti al ruolo delle omeriche vele nere.

The Messenger, oltre a ciò, funziona soprattutto come una sorta di analisi quasi etnografica: le missioni dei due protagonisti fungono infatti come una vera e propria casistica della reazione alla notizia di un lutto – dal pianto disperato, all’accettazione alla rabbia. Questo è, in un certo senso ovviamente, l’aspetto più forte e intenso del film, in cui Moverman e il co-sceneggiatore, il padovano Alessandro Camon, riescono ad affrontare la perdita con grande maturità, aiutati dalla dualità di punti di vista e al rapporto stesso tra i due protagonisti.

C’è poi tutto il resto del film, che viaggia appunto sul binario di questo rapporto mentore/allievo, ribaltato poi dai fatti come narrazione di norma richiede, oltre ovviamente alle vicende che riguardano solo il personaggio di Ben Foster (tenendo conto che ogni inquadratura in cui non è presente Woody Harrelson suona quasi come una temporanea disfatta), la storia d’amore con la vedova Samantha Morton, quella con Jena Malone, entrambe assolutamente centrali all’interno del film eppure molto più deboli rispetto a tutto il resto.

Questa diversità di movimenti e intenzioni all’interno del film, se pure complica le cose (ed è cosa buona e giusta), impedisce anche al film di spiccare il volo fino in fondo. Un risultato forse ricercato anche dalla tendenza a spezzare i climax con un distacco che si trasforma poi lentamente in una pallida speranza – su come il dolore possa essere, a suo modo, un sincero e ineffabile legante di emozioni a esso contrapposte, ben oltre la possibilità che il lutto mandi l’animo semplicemente fuori controllo.

In ogni caso: quando funziona, funziona in modo eccellente: nonostante non sappia sempre dove sta andando, The Messenger contiene pur sempre alcune delle sequenze più crude e strazianti degli ultimi tempi, una tra tutte quella della ragazza che scopre di essere rimasta vedova di fronte al padre senza aver detto a quest’ultimo di essersi sposata – roba che ti rimane incollata allo stomaco per qualche giorno, e non c’è verso di mandarla via.

*il film è uscito in italia con il bruttissimo e fuorviante titolo Oltre le regole, ma io l’ho visto in lingua originale e quindi ciccia.

Perdona e dimentica, Todd Solondz

Perdona e dimentica (Life during wartime)
di Todd Solondz, 2009

Mettiamo le cose in chiaro: Perdona e dimentica è un film imperdibile, che riapre le ferite di Happiness e lo fa con la consueta, tagliente e dolorosa precisione. Con uno stile inimitabile (anche se spesso imitato dal cinema indipendente americano) che mescola la provocazione dadaista alla ghost-story, l’autoriflessione cerebrale e il sovvertimento delle categorie morali e uno sguardo sornione, sarcastico e glaciale sulle umane vicende, e soprattutto con un senso dell’umorismo, crudelissimo e sfiancante, che non ha davvero eguali. Un film da recuperare a ogni costo, insomma. Tutto sommato però, indossati i panni del fan di Solondz che a Venezia litigò con diverse persone che attaccavano quel gran film di Palindromes con le motivazioni più imbecilli, ho avuto qualche problema con questo suo ritorno dietro la macchina da presa, dalla gestazione difficoltosa per tacere della sua distribuzione. La colpa l’ho voluta spesso dare al noioso appiattimento portato dal doppiaggio italiano (a fronte di un adattamento più che dignitoso, in verità) ma ho avuto anche la sensazione di assistere a un capitolo conclusivo più che a un film a sé stante, a una costola – preziosa e unica quanto volete, ma pur sempre una costola: un film che rappresenta un completamento, un’aggiunta, qualche volta una nota a pié di pagina. E troppo spesso una didascalia ad immagini e frasi che non ne avrebbero bisogno. Più necessario dunque per Solondz che per noi? Qualcosa del genere.