Gli amori folli (Les herbes folles)
di Alain Resnais, 2009
Alcune delle cose che ho letto, distrattamente, in giro (se avessi tempo per leggere con attenzione probabilmente ce l’avrei per scrivere: questo post attende ormai da quasi due settimane) fanno leva sul fatto che Resnais ha quasi 90 anni, ed è incredibile che un regista quasi novantenne porti sullo schermo un film dotato di una tale dissacrante e anarchica libertà, sotto ogni punto di vista: un fatto. E un aspetto umano certamente ammirevole che mi interessa poco, così come, non è una novità, mi lascia piuttosto freddo l’ossequio nei confronti del regista: a ognuno la propria formazione, ancora una volta, persino più che il proprio gusto.
Ma non crediate, ah, non crediate. Alain Resnais questa volta mi ha preso abbastanza sottogamba. Non mi ha conquistato del tutto, lo ammetto, ma mi ha fregato – ed è cosa buona e giusta. Sono uno spettatore che adora essere preso per i fondelli: Les Herbes Folles è un film intelligente e sorprendente sotto questo aspetto, non tanto per quel che dice o racconta, una storia d’amore imprevedibile e insensata, sradicata dalla ragione come un fiore cresciuto sul dorso di un vulcano acceso, ma per come sceglie di dirlo. Un sano e onesto surrealismo di vecchia scuola che non risiede certamente solo nell’ormai noto finale beffardo: la cosa più bunueliana, per esempio, a mio parere, è l’idea di celare allo spettatore il passato di Georges, una prevaricazione sul senso e sulla narrazione che lascia tanto stupefatti quanto divertiti. L’altro aspetto straordinario di Les Herbes Folles è senz’altro quello tecnico: al di là di alcuni pezzi di bravura (uno tra tutti: il piano-sequenza della cena) basterebbe citare la sequenza dell’incontro davanti alla sala dove George è andato a vedere I ponti di Toko Ri. Non tanto per la sequenza in sé ma già per l’intenzione iperrealista di ricreare quel set, a quel modo, con quei colori, come se non ci fosse altro modo per disegnarla – così come, allo stesso modo, Les Herbes Folles dà l’impressione di un film che ha già dato molto, quasi tutto, in fase di progetto. Ma se, aggiungo, quello di Resnais è un film che eleva programmaticamente ad arte il difetto narrativo, lo scarto, l’ellissi, l’assenza, l’omissione, il gioco cerebrale del ribaltamento spazzato via da un impeto sentimentale che fa rumore, che sposta l’aria, forse che odora persino – finisce per conquistare di più proprio per il suo essere allegramente scombiccherato, ciancicato, a volte più simile a una poetica demenza che a qualcosa di compiuto, irrazionalmente spassoso a patto di entrare in sintonia l’umorismo di Resnais (non del tutto chiaro al sottoscritto in una buona metà dei casi), insomma, folle e anacronistico come un’erbaccia che con il cemento attorno non c’entra più granché. Ben venga, l’erbaccia.
Tutte le migliaia di altre cose che avrei voluto scrivere di questo film, due settimane fa, le ho dimenticate. Apposta.
sì un film più articolato di quanto non appaia al primo sguardo. grande anche Sabine Azéma!
spesso concordo con te,ma questo film è un'ignobile puttanata,sono andato via a metà film e non mi importa una mazza se alla fine il protagonista era fantomas o nonna papera.sabine azema,l'attrice francese più antipatica della storia del cinema,qui sembra la sorella del cappellaio matto nell'oscena interpretazione di johnny depp.buona serata