giugno 2010

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Green zone, Paul Greengrass 2010

Green zone
di Paul Greengrass, 2010

Se certi film ti rimangono in mente,
ce ne son altri che lasciano niente,
e pur se apprezzo con aria distesa
del buon Greengrass la macchina da presa,

di giorni ce ne son voluti tanti
perché decidessimi a scriverne un post.
Faccio mea culpa, non voglio compianti,
non ho più nemmeno la scusa di Lost.

Dunque, di Green Zone rammento assai poco,
le bombe, matt damon, bravo tuttora,
sarà che di mio con l’armi da fuoco
non ho buon rapporto, né coi militar,
però di spunti ce n’è per mezz’ora
e dopo un tot che palle, quel traballar.

Sull’armi di distruzione di massa
è sempre il caso di rifare il punto,
almeno non v’è traccia di melassa,
ma può bastare soltanto l’assunto?

E visto che il film non sembra volere
nascondere la sua didascalia,
ho detto, sì, facciamoci vedere,
con questa mia ributtante poesia.

Modo ideale per scriverne in fretta
senza il bisogno di dire o di fare
lo so, non è la mia forma perfetta,
ma se non altro vi dà l’impressione
che almeno sappia che pesci pigliare,
però, questo kekkoz, che furbacchione.


[ehi tu amichetto che leggi da feed rss, mi sa che per capirci qualcosa ti tocca proprio cliccare e aprire il post stavolta, e poi dai pure la colpa a splinder se vuoi]

Friday Prejudice #226

[la fottutissima domestica]
    

    
Ma se clicchi c’è il nuovo episodio di Friday Prejudice, giuro.

A-Team, Joe Carnahan 2010

A-Team (The A-Team)
di Joe Carnahan, 2010

Una delle cose che mi ha fatto più impressione di A-Team, ripensamento cinematografico di una celebre serie tv andata in onda originariamente tra il 1983 e il 1987, è la presenza imponente del comic relief come componente del racconto. Mi spiego: da almeno una quindicina d’anni l’alleviamento comico è una parte essenziale e quasi ineliminabile dell’action movie hollywoodiano, ma è spesso affidato a un singolo personaggio. Nel film di Carnahan ci sono quattro personaggi principali (lasciate perdere Jessica Biel: è inutile), tre dei quali si accollano parte di questo compito. Se la parte del buffone di corte sembrerebbe appartenere di diritto a Sharlto Copley, anche Bradley Cooper e Rampage ce la mettono tutta, uno rispondendo all’esigenza romantico-screwball del plot (assolutamente inadeguata e buttata lì a casaccio, un po’ come Jessica Biel) e l’altro aprendo buffe schermaglie con l’uno e con l’altro personaggio basandosi sulla fiducia nel suo essere negrone scorbutico, che dovrebbe far ridere di per sé. L’unico serio della compagnia è Liam Neeson, che si produce in un’inguardabile imitazione dell’indimenticato George Peppard e tra l’altro ci fa venire due palle così.

Risultato: A-Team è un film che la butta sul ridere per una buona metà del suo minutaggio. Troppo? Senza dubbio sì, se non si ha la sceneggiatura adatta: L’altra cosa che mi ha fatto impressione è che sia un film davvero brutto: tutti i momenti in cui il film non la butta in caciara e in pasto a battute che non fanno ridere (tranne quando Sharlto Copley fa Braveheart e nella sequenza del 3D, ma lì si entra direttamente in territorio spoof e quindi vale la regola di prima) il film è un susseguirsi di (1) sequenze d’azione (2) scene in cui viene organizzato il piano che scaturirà nella sequenza d’azione e (3) complicati intrighi di cui non interessa niente a nessuno. Nulla di tutto ciò va per il verso giusto: Carnahan è un regista confusionario e rumoroso, le esplosioni e gli inseguimenti al limite dell’umano sono quasi sempre tutte piani stretti con la macchina da presa mobilissima, con il risultato che non ci si capisce una fava, al massimo se va bene ci si intontisce, se va male ci si annoia (è il mio caso); quella del montaggio parallelo tra il piano e la sua esecuzione sembra essere l’unica idea della sceneggiatura, e non è che sia proprio quest’ideona; infine, il film è esageratamente complicato, più che altro in modo sproporzionale al talento di Carnahan nel gestire la sua complessità narrativa.

Un piano ben riuscito ma proprio per niente.

Lei è troppo per me, Jim Field Smith 2010

Lei è troppo per me (She’s out of my league)
di Jim Field Smith, 2010

C’è tutta una sorta di corrente della commedia americana che è stata spesso e da più parti sintetizzata nella formula "geeks gets the girls", il cui massimo profeta è stato il produttore e regista Judd Apatow. In tal senso, il primo film del britannico Jim Field Smith, realizzato due anni fa ma che ha trovato una distribuzione solo quest’anno, cerca di essere una specie di bignami dell’intero sistema: il protagonista è un aeroportuale un po’ sfigato che inizia una relazione impossibile con una ragazza incredibilmente bella. Tutto il resto, dal titolo in poi, si svolge esattamente come ve lo state immaginando. Non è detto che sia un male.

Infatti il film è sommariamente gradevole e divertente nonostante la debolezza del cast di contorno, che spesso in questo tipo di commedie è uno dei dati più interessanti. E nonostante il fatto che, in ogni caso, il regista e gli sceneggiatori Sean Anders e John Morris sembrino inseguire per tutto il film il modello dei film prodotti da Apatow e dei rispettivi epigoni: lo sguardo bambinesco e immaturo dei maschi sul mondo femminile e delle relazioni sentimentali, le dinamiche di amicizia virile, il ritratto dei personaggi-tipo, e soprattutto i meccanismi comici, sia linguistici sia narrativi, che si rifanno a un misto di candore e trivialità che abbiamo già visto altrove. E abbiamo visto meglio, purtroppo: Jay Baruchel (lanciato proprio da Apatow nella bellissima serie Undeclared) ce la mette tutta e ha, se non altro, il physique du rôle, ma a Field Smith e soci manca una scintilla di intelligenza, forse di cattiveria?, per fare il salto di qualità alzandosi da una convincente ma non del tutto soddisfacente medietà. Così com’è, il film è solo un tiepido esercizio di confortante carineria. Non è detto che sia un male.

Brief interviews with hideous men, John Krasinski 2009

Brief interviews with hideous men
di John Krasinski, 2009

Quella di Krasinski era una scommessa non da poco, e non solo per un’opera prima: non si è limitato a prendere in mano un mostro sacro della letteratura americana come David Foster Wallace (scomparso poco prima che il film potesse essere proiettato per la prima volta, al Sundance 2009) ma ha scelto un testo abbastanza arduo da riportare sullo schermo: una collezione di 23 storie raccontate in forma di monologo-intervista. Krasinski rimedia all’impaccio con una sorta di cinico distacco che solo a tratti abbraccia il punto di vista partecipato della protagonista Julianne Nicholson, incrociando i personaggi con fare divertito e non senza talento, ma scegliendo comunque di rimanere nei confini di un cinema indipendente assai selettivo nei confronti del suo pubblico e quindi difficilmente smerciabile.

Forse però per un esordio da regista e sceneggiatore Krasinski ha chiesto troppo a se stesso: il film è infatti abbastanza squilibrato e scoordinato, la prevedibile e attesa logorrea ci mette assai poco a diventare semplicemente noia, e spesso l’impressione che Brief interviews restituisce è quella di una serie di soliloqui messi lì giusto per dar risalto alle (spesso ottime) performance di amici e colleghi passati di lì. Un cast eterogeneo e ricchissimo quindi (chi più rilevante come il bravo Dominic Cooper, chi meno, come nel caso di Ben Gibbard dei Death Cab For Cutie) che qualche volta fa scaturire considerazioni intelligenti, perfide o illuminanti sul pianeta uomo (inteso come maschio) ma che più spesso finisce soffocato dalla pesantezza del testo e dall’inadeguatezza parziale della messa in scena. Un’occasione sprecata.


Non è ancora prevista un’uscita italiana.

Dogtooth, Yorgos Lanthimos 2009

Dogtooth (Kynodontas)
di Yorgos Lanthimos, 2009

Di fronte a un film come Kynodontas, è lecito farsi una domanda: dove si può tracciare il limite tra una provocazione che ha lo scopo di istigare la meditazione e una provocazione fine a se stessa? È Lanthimos stesso che ce lo chiede, dopotutto: il suo film è un film estremo e violento, spesso massacrante, il cui paradosso (escludere del tutto l’individuo dalla civiltà, o dalla collettività, che dir si voglia) va a scavare con le unghie dentro dilemmi antichi o addirittura atavici, ma la sua parabola (metonimica?) di coercizione famigliare è raccontata con un taglio brutalmente ironico, che per una volta non serve a spezzare la tensione ma che, al contrario, spesso alza con una risata sardonica il livello dello scontro tra il reale e l’assurdo, come nella miglior tradizione surrealista.

Tornando alla domanda iniziale: fortunatamente il film, che ha vinto nella sezione Un Certain Regard a Cannes nel 2009, è tutt’altro che una provocazione gratuita. Prima di tutto per la precisione superba e sistematicamente crudele e massacrante della regia, che abbina la tendenza all’eccesso dello script con una messa in scena gelida e rigorosissima, visivamente eccezionale, in cui ogni singola inquadratura è studiata alla perfezione per costruire un’angoscia tangibile proprio sul contrasto con la sua precisione figurativa. Ma soprattutto perché Lanthimos riesce a far fuoriuscire proprio da questi abbinamenti ossimorici una riflessione profondamente disturbante sulle paranoie della contemporaneità, intesa in senso ampio, più nello specifico su un tema (per nulla semplice ma del tutto centrale nel film, basta vedere l’incipit) come quello del linguaggio e della sua manipolazione, e molto altro ancora.

Senza dimenticare che Kynodontas non è un film esclusivamente cerebrale: è anzi molto fisico e sanguigno, tanto più che è nella sua inquieta violenza che si consuma l’istinto di libertà dei suoi personaggi. Insomma, colpisce duro. E colpisce dritto sui denti.


Non è prevista al momento un’uscita italiana.

Il dvd inglese esce a fine agosto. Potete già acquistare l’edizione francese, che però è cara e ha solo i sottotitoli in francese. Se qualcuno ha notizia di un’altra edizione, magari con sottotitoli in inglese, parli ora.

Friday Prejudice #225

[ma se scordi la cover fai piangere gesù]

Il nuovo episodio di Friday Prejudice è online, ehm, da qualche giorno.

The Hole in 3D, Joe Dante 2010

The Hole in 3D
di Joe Dante, 2010

La mia generazione vuole un gran bene a Joe Dante: film come i due Gremlins e Salto nel buio (ma anche l’indimenticato Explorers e il suo splendido terrificante episodio di The Twilight Zone) sono titoli con cui siamo cresciuti, che ci hanno formati nella loro bizzarra idea di mescolare l’ingenuità del cinema per famiglie con il cinismo della cinefilia più spudorata, campioni ideali e paradigmatici di un decennio incostante – un talento ripreso e ridisegnato in un paio di illuminanti film in quello successivo, a cui è seguita una lunga pausa (interrotta per la verità dal sottovalutato e sorprendente Looney Tunes: Back in Action, la cui natura predominante era però quella del marchio "industriale" della Warner).

Una pausa troppo lunga: per questo viene facile trattare The Hole come un "ritorno alle origini" per Dante, già sulla carta, un film fatto per omaggiare sé e i suoi fan di vecchia data più che per il pubblico di oggi: difficile che un dodicenne si emozioni o si spaventi granché per un film simile, lasciando semmai i turbamenti più probabili alla presenza francamente erotica di Haley Bennett? Più semplice che vada a toccare i nervi scoperti degli spettatori nati a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, gli anni in cui nelle sale uscivano Piranha e L’ululato, pronti come tutti gli altri suddetti a diventare videocassette da consumare avidamente e ripetutamente fino a macerarne l’anima magnetica? In realtà, a parte il livello precauzionale (leggi: meglio andare al cinema con lo spirito candido di quando si era ragazzini, lasciando il cinismo nel proprio appartamento) non credo che sia del tutto vero, o forse non è vero per niente.

The Hole è un film che funziona più o meno sotto ogni livello, consumando i dilemmi strategici dei suoi personaggi in quattro parole, configurando il "buco" come un grado zero atavico dell’ignoto e diventando, il film stesso, un catalizzatore di variazioni sul tema della paura che utilizzano con spudorata libertà un notevole numero di cliché del cinema horror – ma che più spesso sono veri e propri archetipi (il buio, per dirne uno). E il movimento costante del film, costruito su un crescendo assolutamente inattuale (per esempio il modo in cui Dante "rallenta" una volta aperto il buco, passando un bel pezzo del film a buttarci dentro oggetti a caso – forse la parte più esaltante del film, che gioca peraltro in modo adeguato quando non eccezionale con le potenzialità offerte dal 3D – è uno dei punti di forza di un film che, alla faccia dei dodicenni di cui sopra e della media degli "horror" per adolescenti di oggi, che non spaventerebbero nemmeno chi non ne avesse mai visto uno in vita sua, è anche un grande esercizio di stile sulla costruzione della tensione – e sfocia in un finale immaginifico, visionario e battagliero che getta un ombra di ulteriore vergogna sul milionario e inerte tentativo dell’Alice di Burton.

Un cinema di paura per tutta la famiglia è ancora possibile. E Joe Dante è, ancora oggi, il suo profeta. Ne vogliamo ancora. Presto.

Unthinkable, Gregor Jordan 2010

Unthinkable
di Gregor Jordan, 2010

Molti dei titoli che negli states finiscono direttamente nel mercato home video lo fanno per mancato raggiungimento di standard qualitativi, ma non è certo sempre così. Non è forse il caso, per esempio, del film di Gregor Jordan che proprio in questi giorni arriva sugli scaffali americani: troppo duro da digerire per il pubblico americano? Senz’altro troppo controverso, troppo bipolare. E chissà quando (e se) arriverà da noi: Unthinkable è uno dei film americani più ambigui e dolorosi che siano usciti negli ultimi anni sul terrorismo e sull’uso della tortura, e sulle contraddizioni etiche dell’america contemporanea in rapporto a questi argomenti.

Un film che ha senza dubbio i suoi limiti, ma che sfrutta in modo impeccabile i tempi e gli spazi configurandosi presto come un claustrofobico dramma da camera, tutto attori e sceneggiatura, e che si prefissa degli obiettivi e li porta a termine, a costo di strapparli da sotto la pelle degli spettatori. Un film che fa funzionare alla perfezione il suo meccanismo di straniamento dello spettatore e di alienazione dalle proprie istanze morali, sballonzolato suo malgrado tra i punti di vista, trascinato a forza lontano dalle semplificazioni e lasciato infine in ballo della beffa, dell’inevitabile che si abbatte sul decadente regno degli uomini – una violenza psicologica che va di pari passo, non lo dimentichiamo, con una decisamente più fisica e materiale, insistita e difficile da digerire, spesso più vicina all’horror che al thriller, ma che è carattere ineliminabile e altra facciata di quello stesso specchio che va in frantumi. Infine: un film con un terzetto di attori assolutamente poderoso (Carrie Ann-Moss, Samuel L. Jackson e Michael Sheen, tutti e tre al loro meglio, con tre facce da b-movie che lévati e un’intensità recitativa sinceramente inaspettata) che alla fine lascia in bocca una micidiale sensazione di disfatta. E un buco nello stomaco a forma di pugno.

L’hanno visto anche: manu su SecondaVisione, Casanova sui 400 Calci.

I love you Phillip Morris, Glenn Ficarra e John Requa 2009

I love you Phillip Morris
di Glenn Ficarra e John Requa, 2009

Che un film venga maltrattato in fase distributiva è una cosa che fa tristezza in ogni caso, che il film sia bello o brutto. Ovviamente, la rabbia cresce se si tratta di un film ben riuscito. E aumenta esponzialmente se le motivazioni del maltrattamento hanno a che fare con questioni come la paura che il pubblico italiano dovrebbe avere nei confronti di una storia d’amore tra due uomini. Un riassunto di quanto è accaduto in Italia a questo film (che negli states sta avendo delle difficoltà del tutto diverse, ovvero legali e burocratiche) si può trovare su Cineblog: e quando l’inganno promozionale e la mutilazione hanno radici di questo genere, le parole "tristezza" e "rabbia", semplicemente, non bastano più. Un cappello essenziale, anche se è una storia che avete già sentito cento volte: perché ogni tanto si torni a parlare di questi scempi, le cui motivazioni commerciali o di marketing sono difficilmente giustificabili.

Detto questo, il film di Ficarra e Requa, tratto da una storia realmente accaduta, nella sua edizione originale è davvero una bella sorpresa: un film che a volte fa leva su meccanismi comici non proprio raffinatissimi e su qualche luogo comune, ma che sa giocare con grande intelligenza sul meccanismo dell’inganno, trasferendo le "truffe" del protagonista sulla pelle degil spettatori – fin dai primi minuti, che fanno immediatamente a brandelli le certezze del pubblico sul personaggio e sul suo contesto, ponendo la bugia patologica come base narrativa dell’intero film, come un avvertimento: non credete a nulla di ciò che vedrete. A parte l’amore ovviamente. Jim Carrey è eccezionale, a metà strada tra la sua anima più cartoonesca e il suo piglio più drammatico (entrambi annullati a vicenda dai ribaltamenti della vicenda), una sceneggiatura solidissima, qualche momento da antologia (la prima rivelazione dell’omosessualità di Steven, il montaggio dei tentativi di fuga) e una storia d’amore insensata, assurda e incontrollata – come sanno essere le vere storie d’amore.

City Island, Raymond De Felitta 2009

City Island
di Raymond De Felitta, 2009

Succede che qualche tempo fa vedo un trailer in televisione. Il film è in uscita a breve, ma non ne ho mai sentito parlare: si intitola City Island. Il trailer italiano, anche a causa di un doppiaggio claudicante, mi fa una pessima impressione. Incuriosito dalle molte recensioni che vanno in direzione esattamente contraria, recupero il film – che si rivela infatti essere una piccola ma sorprendente (è costata solo 6 milioni di dollari) commedia famigliare, lieve, malinconica e divertente. Dovrebbe esserci una morale, in tutto ciò.

City Island è un film strettamente legato al suo contesto topografico – quello di un’isola impossibile di quattromila anime al largo del Bronx, la cui alienazione è pari solo a quella dei suoi personaggi, come se fosse il luogo stesso a spingere i membri della famiglia Rizzo a comportarsi in un determinato modo. Ci sono molti cliché del caso – dopotutto il film è costruito sul topos dell’elemento di disturbo, qui un figlio segreto, che va a intaccare gli equilibri e soprattutto il tessuto di bugie e omissioni che tiene in piedi una famiglia – ma sono trattati con garbo e intelligenza e con un umorismo sottile, quasi mai appoggiato sui dialoghi e sulle gag ma più sulla costruzione dei personaggi, e sulla partita che il caso (o il fato, o chi per loro) mette in campo per ristabilire l’ordine. E la malinconia diffusa, per una volta, lascia spazio anche alla speranza – quella di poter superare gli intoppi della propria vita, a costo di rimettersi in gioco, di rischiare tutto.

La vera forza del film risiede comunque nel cast, tra cui spicca il ritrovato protagonista Andy Garcia (obbligatorio vederlo recitare in lingua originale, per via del suo accento italo-americano) nel ruolo di una guardia carceraria divorata dai sogni di rivalsa, ma anche gli altri sono bravi e terribilmente azzeccati – da Steven Strait al giovane Ezra Miller (il figlio del protagonista, che fa un po’ la parte del comic relief) alla bellissima scoperta che è Dominik García-Lorido – figlia di Andy anche nella realtà – e pure Emily Mortimer, che ha sempre la stessa faccia e fa sempre la stessa parte, ma la fa benissimo


Il film
esce nelle sale il 25 giugno. Per quanto detto, va da sé, City Island è un film che andrebbe visto in lingua originale. Come tutti gli altri. O un po’ di più.

Friday Prejudice #224

[the day after]

Ci sono online già da ieri i pregiudizi di questa settimana.

Mystery Team, Dan Eckman 2009

Mystery Team
di Dan Eckman, 2009

Mystery Team è uno di quei film la cui genesi rischia di occupare gran parte di un post come questo. Quindi: ricominciamo da capo. Qualche anno fa tre ragazzi chiamati Dominic Dierkes, Donald Glover e DC Pierson si incontrano alla New York University e formano un trio comico chiamato Derrick Comedy. Come molti altri comici della loro generazione, presto o tardi cominciano a mettere qualche video su Youtube. Diventano un piccolo caso: milioni di visite, citazioni importanti. Nel 2009, il loro primo lungometraggio arriva al Sundance. Qualche mese più tardi Glover entra nel cast di una delle serie migliori della stagione (Community, su NBC).

Il loro primo lungometraggio si intitola, appunto, Mystery Team: i protagonisti sono tre studenti dell’ultimo anno delle superiori che, durante l’infanzia, si sono fatti conoscere nel loro vicinato come "investigatori privati" con il nomignolo di "mystery team", smascherando le angherie del bambino cattivo di turno e facendosi pagare in caramelle. Ma nonostante l’età avanzata, per via della fama conquistata e dell’amicizia esclusiva che li lega, i tre continuano a comportarsi come degli undicenni provetti – non dicono parolacce, e del sesso non conoscono nemmeno la teoria. Emarginati, come si può immaginare, dai loro coetanei, e a un passo dal college, i tre amici cercano un riscatto accettando un vero caso di omicidio.

Il meccanismo comico dell’intero film sta tutto qui: il mondo è filtrato attraverso lo sguardo candido dei tre eroi, che attraversano una provincia americana spaccata in due, tra colori pastello delle case e lo squallore violento che si cela dietro gli angoli delle strade, con un’ingenuità irreale e portata sempre all’eccesso. Una favola di formazione ribaltata in cui l’unico innesto è l’assoluta improponibilità dei corpi dei tre protagonisti e l’inadeguatezza sociale della loro mentalità "pura" in un mondo che sembra impazzito (ritratto con un gusto della violenza altrettanto infantile e naif) ma di cui i tre si accorgono a malapena, tutti presi dalla loro voglia, sostanzialmente inconscia, di essere bambini ancora per qualche giorno.

Per essere un film dalle risorse economiche e artistiche limitate, e dai production values molto ristretti, oltre che costruito indelebilmente sul modello frammentario della "sketch comedy" da cui i tre provengono, Mystery Team è dunque un film più interessante di quel che sembra. O meglio ancora: non è sciocco soltanto perché i suoi protagonisti sono sciocchi. E lo sono, estremamente. Semmai fatica un po’ a tenersi in piedi per più di cento (troppi) minuti, ed è modellato su tre personaggi dalla personalità limitata, ma i dialoghi sono scritti con divertito talento, e la sceneggiatura regala una serie di piccoli ritratti azzeccati, spesso davvero cattivi e impietosi – altre volte invece mettendoci il cuore, che non guasta. Insomma, si fa voler bene.

Friday Prejudice #223

[i film so piezz'e mumblecore]


  
Ed ecco il nuovo episodietto e mezzo di Pregiudizi, signora.

Shadow, Federico Zampaglione 2009

Shadow
di Federico Zampaglione, 2009

Certi post dovrebbero avere una data di scadenza, ma forse è possibile fare di necessità virtù, al prezzo del rumore delle unghie sul vetro. Mi spiego: ho visto Shadow qualche settimana fa, nel weekend in cui è uscito, ma non ne ho mai scritto. Non so se qualcuno se ne sia accorto, ma il ritmo qui è decelerato notevolmente: scegliete voi a chi dare la colpa, mancanza di tempo, mancanza di titoli, la stagione che va scemando, la decadenza dei blog in generale. Peccato: avrei voluto prendere parte all’accesa discussione che si è svolta nel giro di pochissimi giorni sul film, che ha diviso infatti quasi nettamente quelli che considero i due migliori blog di cinema attualmente in Italia – da una parte, l’entusiasmo di Nanni su I 400 Calci, dall’altra la freddezza di Paolo su Secondavisione. In altri tempi, probabilmente, mi ci sarei buttato a pesce. Ma forse, si diceva, posso riportare a mio vantaggio il mio ritardo perché, come al solito, dopo pochi giorni di Shadow non interessava più niente a nessuno, c’era qualche altro film su cui discutere, e la quantità di sale in cui il film di Zampaglione è uscito non ha certo aiutato a renderlo più rilevante. Ancora una volta: peccato. Shadow infatti tra i suoi più grandi meriti, non il solo, e qui già credo si intuisca vagamente cosa io ne pensi, ha quello di far intravedere una possibilità per il genere nel nostro paese infinitamente più concreta che in alcuni altri casi recenti, e forse proprio a causa della sua ingenuità. Ovvero, se dubito che Zampaglione volesse rilanciare il film horror all’italiana, perché probabilmente voleva solo fare un horror all’italiana omaggiando i maestri del genere, forse è proprio questo lo spirito giusto – farlo perché si può fare, e perché una volta lo facevamo spesso, e benone, anche se poi ci è venuta, al pubblico e agli autori italiani in equa parte, una gran paura dell’ignoto che nemmeno la Cina. E beh, poi c’è il problema che non c’è più molto da dire. Tutti sanno bene o male di cosa si tratta, tutti sanno quale cosa strana sia che il leader dei Tiromancino diriga un horror che cita Argento e Deodato prendendosi il plauso degli appassionati del genere, tutti sanno ormai quali sono i frutti della discordia – soprattutto il finale “a sorpresa”, ma anche cose come il corridoio con i quadri – tutti sanno che è indubbiamente girato come la madonna vuole, tutti sapete di che film stiamo parlando, e del perché possa piacere da matti, e del perché possa lasciare indifferenti. Quindi a me non rimane che rimettere in campo per qualche ora Shadow, il secondo film di Federico Zampaglione, un film che ha un sacco di cose che non vanno, fuori fuoco ma che, all’uscita dalla sala, ho voluto consigliare a gran voce per settimane a mezzo mondo, evitando magari i più impressionabili, “andate a vedere Shadow perché è una figata e forse ci siamo”. Forse è questo è il momento giusto, quello in cui a nessuno fregava più niente di Shadow, e forse questo post fa già abbastanza da sé.

Cosa faccio quindi, prendo posizione e non spiego nemmeno un po’? Va bene.

A me Shadow è piaciuto da matti.

Youth in revolt, Miguel Arteta 2009

Youth in revolt
di Miguel Arteta, 2009

Per farla breve, c’è un sacco di gente che ha dei problemi con Michael Cera. Ma se senz’altro è un attore che si è trovato giocoforza incasellato in un carattere ben definito, riguardando al passato si ha poco da rimproverargli: Arrested development, Superbad, Juno, è tutta roba assai ben vista da queste parti – mentre, come già detto più volte, Nick and Norah è un film gradevole su cui è fin troppo facile sparare, e il terribile Anno Uno difficilmente può essere considerato "colpa sua".

Youth in revolt è probabilmente il primo film costruito quasi completamente intorno all’attore canadese, e la scelta non è affatto causale: pur essendo tratto da un personaggio preesistente, creato da C.D. Payne, il piacevolissimo film di Miguel Arteta sembra proprio contenere al suo interno una specie di rilettura critica del personaggio. All’adolescente timido e complessato, un po’ nerd e parecchio imbranato (ama il cinema asiatico ma scambia Mizoguchi con Ozu) che si innamora di una ragazza "normale" eppure irresistibile (qui Portia Doubleday, di cui potremmo sentir parlare in futuro) viene così abbinato un lato oscuro, personificazione del celebre "diavoletto sulla spalla", che finisce per ribaltare le sue certezze.

Intorno all’attore-Cera e al personaggio-Cera, e a tutto quello che rappresentano, Arteta costruisce un piccolo film, divertente e intelligente, che alterna un riconoscibile candore a cattiverie che bruciano sulla pelle dei personaggi più che su quella del pubblico – quindi pressoché innocuo, ma che a tratti riporta alla mente certe soluzioni di Terry Zwigoff, anche per la sua sfrontatezza (gli inserti animati) e con una convincente e originale ambientazione decadente, ai margini della provincia americana. Il tutto per raccontare, ancora una volta, non senza una gradita delicatezza, le sciocchezze che si fanno per amore quando si è adolescenti, quando si è convinti che sarà per sempre, che la lezione è servita, che non ripeteremo mai più gli stessi errori. Sbagliandoci di grosso, per fortuna.

Al momento non è prevista una data d’uscita italiana