luglio 2010

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Friday Prejudice #231 e Premio Maccio Capatonda dell’Anno

[che cotillon]

Questa settimana lo facciamo strano.

 Non solo i pregiudizi della settimana (tanto escono solo due film) ma anche un buffo premio volto a determinare il trailer italiano da deridere della stagione. L’abbiamo (cioè l’ho) chiamato Premio Maccio Capatonda dell’Anno.

Lo trovate ovviamente di là, su Friday Prejudice.

Venite a votare, non fate i baluba.

Splice, Vincenzo Natali 2009

Splice
di Vincenzo Natali, 2009

In qualche momento non meglio precisato della seconda metà degli anni ’90, diventai un fan sfegatato di Vincenzo Natali. Come me, moltissimi miei coetanei e non solo. Era bastato un singolo film, una produzione canadese da 250 mila euro: si intitolava Cube. Senza dubbio ve lo ricordate. Poi Vincenzo Natali è andato un po’ fuori strada, il secondo film è uscito dopo cinque anni ed era brutto, il suo terzo film non l’ho visto, non credo l’abbia visto nessuno. Poi ha fatto il backstage di Tideland. Un regista finito? Non proprio. Perché poi, a 12 anni di distanza da Cube, ha fatto Splice.

Che è davvero una bellissima sorpresa, nonostante alcune voci dal Sundance ci avessero avvertito: una variazione sul tema della tracotanza scientifica, che già in passato ha prodotto autentici capolavori del genere, il film non si ferma certo alle conclusioni più scontate. Anzi, grazie a una caratterizzazione precisa dei personaggi e alla perfetta performance dei due attori protagonisti Adrien Brody e (soprattutto) la stupefacente Sarah Polley, Natali trasforma Splice dal divertissement un po’ nerd che poteva essere, e di cui forse mi sarei comunque accontentato, in uno dei film più misantropi (nonostante per la prima metà ti inganni convincendoti di essere solo misogino) e cupi (nonostante sia anche molto, molto divertente) degli ultimi tempi.

E se dalla distanza sembra giocare facile, magari con collaudati meccanismi da racconto breve (finale incluso), nello specifico Splice è un film che non vuole fermare proprio davanti a niente pur di dimostrare il suo assunto, molto più spavaldo di quanto si possa immaginare (a costo di andare a colpire allo stomaco e ai genitali le menti più candide, le quali sono quindi preventivamente avvertite), con un’attenzione alla progressione psicologica dei personaggi in relazione ai dettagli più carnali della mutazione che, ancora una volta, sembra guardare all’universo cronenberghiano, e con un’ironia beffarda e irresistibile che, a volte soffusa e sorridente e altre volte irrisoria e deflagrante, attraversa tutto il film. Un’ironia che conosciamo molto bene, e che suona come una consapevolezza inevitabile sul destino tragico dell’uomo che sfida la Natura e la sua stessa natura.

E questa volta esce in italia. Il tredici agosto. No, davvero.

After.Life, Agnieszka Wojtowicz-Vosloo 2009

After.Life
di Agnieszka Wojtowicz-Vosloo, 2009

Non è necessario essere particolarmente sensibili al fascino femminile, oppure più specificamente al fascino di Christina Ricci, per rendersi conto che in After.Life l’attrice è completamente nuda per una buona metà del film. Perché nonostante sia vincolata allo sviluppo narrativo, questa è una scelta decisamente forte e che contribuisce a formare il film stesso. Con il rischio di arrivare a etichettarlo, purtroppo, come fosse una chiave di ricerca o un tag: "Christina Ricci nuda morta". Che la ex Mercoledì Addams non avesse particolari remore a farsi trascinare in progetti simili l’avevamo già capito con il gustoso e purtroppo poco visto Black Snake Moan (tag: "Christina Ricci nuda legata negri") e con l’indimenticato The opposite of sex (tag: "Christina Ricci nuda dice parolacce pompino").

In ogni caso, a parte queste accantonabili inezie, è la sua ipnotica presenza sullo schermo a fare la differenza in After.Life: merito senza dubbio della sua conformazione fisica e della sua innegabile ma inesplicabile fotogenia, ma anche della sua ambigua bellezza bambolesca che ben si adatta alle condizioni del personaggio e che trova una complice ideale nella fotografia obitoriale di Anastas Michos. Al suo posto da principio doveva esserci Kate Bosworth: va da sé, non sarebbe stato lo stesso. Per il resto, l’esordio della regista trentacinquenne di origine polacca dal nome impronunciabile, scritto insieme al marito Paul Vosloo, è un piccolo horror indipendente senza (troppo) sangue che molte recensioni americane hanno avvicinato alle atmosfere e, ancor meglio, al sistema narrativo di The Twilight Zone. Una cosa che suonerebbe come un complimento se non fosse che, quando accade, cioè piuttosto spesso, generalmente significa: c’è materiale per 25 minuti ma spalmato su 100 minuti. Non è del tutto errato: After.Life ha una sola idea, e buona (che ha a che fare, senza spoiler, con la confusione delle acque riguardo all’ontologia e alla percezione della realtà da parte dei personaggi) e cerca di fare il possibile perché questa singola idea renda il più possibile. Ce la fa, fino a un certo punto – il film è sommariamente godibile, e poi c’è Christina Ricci nuda morta – ma in definitiva, forse per lo sforzo di sembrare più cool di quanto non sia veramente, After.Life risulta anche inerte e freddo come una camera mortuaria.

Justin Long timbra il cartellino dove c’è scritto fidanzato di tizia a cui succede una roba soprannaturale e si sbatte ma mi sa che non c’è trippa per gatti. Ormai ci avrà fatto il callo.

Predators, Nimród Antal 2010

Predators
di Nimród Antal, 2010

Il primo incipit che ho pensato per questo post era quello in cui riflettevo sul fatto che la lunghezza di un post non ha nulla a che vedere con la qualità di un film. Ci sono film brutti su cui voglio soffermarmi e film belli per cui bastano poche parole. Qualcosa del genere. Non sarebbe la prima volta. Il post sarebbe stato molto corto, ma in realtà tutta la manfrina era una scusa perché non avevo voglia di scriverlo, questo post.

Il secondo incipit che ho pensato per questo post, quindi, era quello in cui embeddavo il tweet scritto subito dopo la visione di Predators in sala, proseguendo poi in una specie di svolgimento parola per parola del "tema" proposto da quegli stringati 140 caratteri, per concludere poi che non c’era bisogno di dire altro e che avevo buttato via un sacco di tempo per niente. Ma anche questa era tutta una scusa, peraltro un po’ secchiona, perché non avevo voglia di scriverlo.

Il terzo incipit che ho pensato per questo post era quello in cui elencavo gli incipit che avevo pensato per questo post, senza poi arrivare ad alcuna conclusione, limitandomi semmai a linkare da qualche parte il tweet in cui, tutto sommato, c’è scritta all’incirca la mia opinione sul film. Che è poi ciò che, statisticamente, è probabile che tu stia cercando in questo post, e null’altro, e quindi va già bene così. Mi sembrava la soluzione migliore, ero pronto a finira lì, poi ho pensato che una volta arrivato a questo punto una conclusione ce la potevo pure mettere.

Cazzo.

La prima conclusione che ho pensato per questo post era quella in cui parlavo effettivamente del film, finalmente, delle sue qualità, dei suoi difetti, quella roba lì insomma. Qualcosa ci sarebbe anche da scrivere, dopotutto, su Predators, e mica poco: ma che il film abbia un inizio spettacolare e un’ottima premessa narrativa, alcuni bei momenti e la regia dell’ottimo Antal, ma che per il resto non abbia granché da dire, l’avevo già scritto in quel tweet, in 140 caratteri, e allora non valeva la pena. E il post era già troppo lungo.

La seconda conclusione che ho pensato per questo post era quella in cui mi concentravo su un aspetto singolo di Predators, come quelle volte in cui faccio l’odiosa scelta di comodo di dire che la tale attrice è "bella e brava", parlando dunque solo di un aspetto marginale come l’apparizione di Fishbourne o il fisicaccio di Brody o di un aspetto più centrale come la fortissima regia di Antal, che ormai qui trattiamo come fosse un simpatico cugino, ma poi ho pensato che sarebbe diventato un post come tutti gli altri. Ormai era troppo tardi.

La terza conclusione che ho pensato per questo post è quella in cui elencavo tutte le conclusioni che avevo pensato per questo post, lasciando al lettore l’amena questione: le ho pensate tutte veramente? Oppure sono lì a fare il mio gioco? Avevo veramente poca voglia di scrivere questo post? Sì.

La quarta conclusione che avevo pensato per questo post era questa.

Friday Prejudice #230

[fuck you, richard kelly]

È online adesso ma adesso il nuovo episodio di Friday Prejudice.

Notte folle a Manhattan, Shawn Levy 2010

Notte folle a Manhattan (Date night)
di Shawn Levy, 2010

Per chiunque si appassioni al mondo comedy televisivo americano, dalle serie tv alle sit-com ai talk show, un film con Tina Fey e Steve Carell rappresenta di per sé un vero e proprio sogno bagnato. Lei venuta su come una dea tra i maschiacci del SNL e lui a rubare la scena a Stewart e Colbert al Daily Show, i due attori sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni grazie a due serie della NBC: 30 Rock e The Office, rispettivamente. E ora sono nel gotha, sono potenti e inarrivabili, sono dei pezzi grossi. Un film insieme, da protagonisti, prima o poi, era inevitabile.

Non si può dire però che Date Night sfrutti alla perfezione le loro potenzialità: e anche se quello del minor impatto dei due attori grande schermo è un problema a cui avevamo già assistito in passato (caso limite: Evan Almighty) un po’ dispiace. Qui il problema è però soprattutto della regia di Shawn Levy, già responsabile di alcuni disastri senza precedenti come Una notte al museo, che continua a dimostrarsi uno dei registi più inetti della commedia hollywoodiana di oggi: l’impressione che dà è, anche stavolta, che gli attori siano sempre lasciati a loro stessi e alla loro capacità (spesso geniale) di adattare il proprio stile al contesto senza una guida vera. E anche sotto il profilo visivo il film è impigrito e stanco: la fotografia digitale, utile per un film ambientato quasi tutto in notturna (come Mann insegna), non aiuta a restituire un senso di cura.

Ciò che invece Date Night riesce a fare piuttosto bene è riportare in superficie quello che è quasi un sottogenere del cinema americano, gli “all-nighter”, film che rispettano l’unità di tempo e spazio (un’intera notte, una grande città) e che negli anni ’80 si intitolavano Tutto in una notte di Landis, Fuori Orario di Scorsese, Adventures in babysitting di Columbus. Sono questi i titoli a cui il film fa affettuosamente riferimento, e una volta perdonata la messa in scena meccanica e grigia di Levy, c’è roba per cui divertirsi: Carrell e la Fey sono comunque piuttosto in forma, un po’ ingessati ma spassosi, c’è la solita trafila di comprimari che sgomitano per un apparizione (il premio del cuore lo vincono James Franco e Mila Kunis, ma il migliore in campo è un Mark Wahlberg tutto nudo e lucido), e alla fine il film riesce a conquistare la simpatia sufficiente, forse qualcosa di più, pur nella sua prevedibile medietà.

Panico al villaggio, Vincent Patar Stéphane Aubier 2009

Panico al villaggio (Panique au village)
di Vincent Patar e Stéphane Aubier, 2009

La cosa più bella di Panique au village, sorprendente e frastornante piccolo film animato, vincitore del Sitges e del Future Film Festival e tratto da una serie animata belga ideata dagli stessi due registi del film, è che la sua strabordante bizzarria mantiene una coerenza quasi impensabile, fino alle estreme conseguenze. Una volta superato lo shock culturale della tecnica d’animazione e la reazione comica inarrestabile al "casting" (i protagonisti sono, di fatto, dei pupazzetti: un indiano, un cowboy e un cavallo) il film di Patar e Aubier scorre via che è una meraviglia per tutta la sua ora e dieci.

E non ci si pone quasi mai la domanda di cosa diavolo stia succedendo e di quali misteriose leggi fisiche governino il villaggio e i suoi abitanti, anche perché non c’è il tempo di farlo: Panique au village fa procedere la narrazione a un ritmo forsennato, rutilante e inarrestabile, avanzando per associazioni mentali che lasciano alle spalle il filtro della razionalità, con una narrazione che si avvicina quindi più a quella del sogno. Anche nel suo non conoscere limiti, siano essi quelli spaziali e temporali del mondo in cui si svolge la vicenda o quelli dell’assurdità più totale. Insomma, uno spasso bello e buono, una delle più belle sorprese della stagione. Peccato che alla sua uscita in sala in Italia, lo scorso giugno, sia passato quasi del tutto inosservato.

Se avete fretta di recuperarlo, il dvd francese è già in vendita.

Toy Story 3, Lee Unkrich 2010

Toy Story 3
di Lee Unkrich, 2010

La Pixar sta diventando un problema, per noi pixiariani. Perché a volte sembriamo farci la figura degli esaltati religiosi, non accettiamo critiche né che si possa sminuire l’opera dei nostri beniamini. Ma non è certo colpa nostra se da qualche anno a questa parte sfornano soltanto capolavori, persino nelle condizioni più inaspettate – per esempio, quella del terrorizzante "terzo capitolo", peraltro di una saga iniziata ormai quindici anni fa.

E dal momento in cui nessuno, suppongo, ha osato mettere in discussione la qualità del film, le distinzioni si giocano su due territori: com’è il film rispetto agli altri due capitoli; com’è il film rispetto alla produzione Pixar degli ultimi anni. Quest’ultima domanda non ha troppo senso, ma giusto perché non interessa a me (e perché è impietoso mettere qualunque film in confronto con gli ultimi due lavori della Pixar: io la chiamo la "reductio ad Up") ma la prima forse sì, appunto: dopotutto Toy Story era un film epocale, forse più importante che bello, mentre con Toy Story 2 ci si approcciava alla materia con il senno del post-A Bug’s Life, quando Lasseter e soci avevano capito che dentro ali ampi confini dell’animazione digitale si poteva fare davvero qualunque cosa, e infatti n’era uscito un capolavoro.

Insuperabile, si penserebbe: se non fosse che Toy Story 3 è un film che non fa soltanto tesoro delle lezioni imparate (e insegnate) in 10 anni di meraviglioso cinema, ma proprio di questi 10 anni ci parla – per questo il film sembra rivolgersi soprattutto a quelli che nel 1995 avevano otto, dieci anni, scoprivano il cinema d’animazione coccolati dai film della Pixar con i giocattoli di fianco al televisore, e che in questo decennio sono cresciuti, si sono iscritti all’università e quei giocattoli li hanno inscatolati, messi in soffitta, nella scatola in cima all’armadio o in cantina, mandati al macero. Ma anche per tutti gli altri: Toy Story 3 è la chiusa perfetta di un grande romanzo di formazione che riguarda tutti noi, e forse è per questo che ci commuove tanto, anche se i giocattoli sono ormai un ricordo lontano – perché ci parla di qualcosa che non vorremmo ammettere, di qualcosa che abbiamo dimenticato, o abbiamo voluto dimenticare. Molto meglio di una seduta di psicanalisi.

Ma la grande forza di Toy Story 3, come sempre accade nei film della Pixar, è la perfezione della macchina narrativa e il cuore pulsante dei suoi personaggi di plastica e peluche. Da una parte, una storia che viene dritta dritta dal cinema carcerario: Toy Story 3 è in tutto e per tutto un escape movie, anzi, è già un classico del genere e non sfigura certo accanto a film come Papillon o Fuga da Alcatraz. Dall’altra, uno dei punti vincenti del film, uno degli aspetti per i quali non mi vergogno affatto a dire che Toy Story 3 è un capolavoro, che è il migliore dei tre, ovvero i suoi "villain", pentiti o impenitenti, come il crudele e gangsteristico orsacchiotto Lotso o l’incredibile Cicciobello con l’occhio pesto, forse la cosa più vicina all’horror mai sperimentata dalla Pixar. E soprattutto Ken. L’incredibile, stupefacente Ken.

The Runaways, Floria Sigismondi 2010

The Runaways
di Floria Sigismondi, 2010

Dopo poco più di un tremendo primo quarto d’ora Kim Fowley, interpretato da Michael Shannon (in una performance macchiettistica, sopra le righe, imperdonabile), è in giro per un locale in cerca di un nuovo componente per la nuova band da lui prodotta. Vede Dakota Fanning appoggiata al muro, le si avvicina, si presenta come "Kim Fowley, producer" (sic) e dopo un breve scambio di battute le dice le seguenti parole: "Read my lips. We love your look. We chose you to be part of the history of rock n’roll. You want to join the band?". A quel punto avrei dovuto capirlo e fuggire a gambe levate. Invece sono rimasto fino alla fine: ma il film non fa che peggiorare.

Insomma, per farla breve, l’orribile film della Sigismondi (assolutamente irriconoscibile, tanto più che a una fotografa e regista di così tanti ottimi videoclip si chiede quantomeno che il film sia visivamente curato e non quest’antologia di inquadrature sghembe, virature in rosso e sfocature arty) è all’incirca il nuovo nadir del biopic musicale, in cui il mero fascino del contesto non riesce mai a sopperire alla noia insostenibile. Per una vicenda che dovrebbe interessarci ma di cui, messa così, non ci può fottere di meno. Peraltro, il film prova a rimediare al disastro con la più finta e bieca provocazione, buttandola tutta in modo piuttosto morbosetto sull’intesa sessuale tra la Stewart e la Fanning, risultando però sexy come del vomito lasciato a seccare sul terrazzo.

Ma soprattutto, tornando a quanto detto all’inizio, The Runaways appartiene alla categoria purtroppo sempre più ampia dei film in cui ti ritrovi troppo spesso a pensare che delle persone non direbbero mai delle frasi simili a quelle proposte dai dialoghi, causando un distacco immediato che ti fa venir voglia di entrare nel film per produrti in una tirade morettiana – ed è così per tutta la sua durata, attraversato da questa sensazione di falsità (mista a una fretta boia di arrivare al dunque, per poi rallentare in modo micidiale: che errore da dilettanti) che non si appaia proprio benissimo con l’intenzione di fare "una roba rock". Perché cosa è la licenza poetica rispetto alla realtà e alla storia, un’altra cosa è la cazzata micidiale.

Poliziotti fuori, Kevin Smith 2010

Poliziotti fuori (Cop out)
di Kevin Smith, 2010

Sembrerebbe una cosa alquanto scontata che il primo film diretto da Kevin Smith per una major su una sceneggiatura scritta da altri faccia un buco nell’acqua. Fin troppo scontata. Roba da manualino del fan: sei un sellout, ti volto le spalle, vaffanculo. A prescindere, ma non solo – tanto è il pregiudizio che conta. L’altro tipo di fan invece è più fiducioso e dice una cosa tipo credo in te, autore. Dopotutto, Cop out se l’è montato da solo. Varrà pur qualcosa. In fondo, ci si sperava un po’, per antipatia pregressa nei confronti della prima, prevedibile, categoria del pensiero, che si potesse passare dall’altra parte. Invece Cop out è un film pigro e mal riuscito, modesto nelle ambizioni e zoppicante nei risultati, colpa prima di tutto di una sceneggiatura fallace, priva di veri dialoghi. Dedichiamo al problema una proposizione apposita: stiamo parlando di un film di Kevin Smith in cui la sceneggiatura non funziona. Non è poco. La scena dell’interrogatorio in cui Tracy Morgan cita una ridda di film, per esempio, viene massacrata dal collega che, al di là dello specchio, dice che film vengono citati – con un effetto di fastidio simile, anzi identico, a Claudio Bisio che spiega le battute dei comici che altrimenti sarebbero troppo raffinate e sottili per il pubblico di Zelig. Allora uno dice chi se ne frega della sceneggiatura e di Kevin Smith e di Bisio, questo film è un omaggio al buddy movie poliziesco bianco-e-negro comesifacevanounavolta, con dentro i 48 Ore, gli Arma Letale, pure i Beverly Hills Cop. Pure troppo, manco fosse un film a tema: per dire, le musichette anni ’80 di Harold Faltermeyer ti fanno alzare gli angoli della bocca giusto una ventina di minuti, poi parte il sopracciglio e dopo tanto così diventano stucchevoli, prevedibili e pallose. Allora uno dice chi se ne frega di tutto, ci sono Tracy e Bruce, c’è Seann William. Ecco, a questi tre si vuole un bene dell’anima, perché ti permettono quantomeno di arrivare a fine film senza scaricare dei moccoli violenti: Morgan compensa l’imbarazzante pochezza di ciò che gli viene messo in bocca con la presenza scenica e verbale assolutamente divina che ben conosciamo (ma iddio sa come diavolo abbiate fatto a vederlo doppiato, voialtri), Willis è semplicemente impeccabile come (quasi) sempre e Scott, da solo, si porta a casa quasi tutte le risate del film. Che sono pochette. Alla fine dei giochi, si finisce per fare la figura di quegli antipaticoni là sopra. Perché magari, oh, magari è un caso sfortunato più che il risultato inevitabile di un’equazione o di una transitività, però io, di questo Kevin Smith qua, non so veramente che farmene.

Friday Prejudice #229

[se non avete visto toy story tre]

Le poche alternative sono sul nuovo episodio di Friday Prejudice.

Nella foto, un film che non è uscito in Italia.

Greenberg, Noah Baumbach 2010

Greenberg
di Noah Baumbach, 2010

Ci sono film che si fanno amare senza sforzi, ce ne sono altri invece che fanno di tutto per essere amati: a volte ci riescono, altre no. Non è proprio il caso di Greenberg, ultimo lavoro di uno degli autori più interessanti del cinema indipendente americano, già regista del commovente Il calamaro e la balena, che qui porta alle estreme conseguenze ciò che aveva già abbozzato coralmente nel bellissimo (e spesso sottostimato) Margot at the wedding, il ritratto a tutto tondo di un personaggio "nevrotico", volutamente sgradevole, a meno, è ovvio, di riuscire a empatizzare con lui.

Una doppia sfida, dal momento che il ruolo di Greenberg è affidato a uno dei volti più noti della commedia (anche demenziale) americana, Ben Stiller, che questa volta si immerge in un personaggio dalla portata decisamente più drammatica del solito e in un film che rispetta in tutto e per tutto i canoni del cinema indie (in primis l’importanza della bellissima colonna sonora curata da James Murphy). Non senza un’ironia caustica, senza dubbio: ma quella dell’attore newyorkese è un’interpretazione più seria e dolorosa di quanto l’impianto narrativo del film non faccia credere. La sua è una sfida del tutto riuscita, Stiller riesce a trasmettere alla perfezione l’identità fragilissima del suo personaggio, ma quella di Baumbach?

Quello della difficoltà dello spettatore di trovare una connessione con il personaggio, come hanno fatto notare anche diversi recensori americani, è un rischio che Baumbach affronta di petto, con la stessa sfrontata libertà dei suoi film precedenti: a lui interessano poco le reazioni degli spettatori, a lui interessano i suoi personaggi, le loro fobie e le loro crisi, la paura profonda che sia sempre troppo tardi, l’anima bipolare di una generazione che guarda al passato trovando solo scelte sbagliate e ne paga le conseguenze, l’esaurimento sempre nascosto dietro l’angolo, i tentativi a vuoto e quelli che vanno a segno. Baumbach non ha paura di essere sgradevole perché conosce bene le sue nevrosi e non ha intenzione di prendere la strada più facile.

Tutto ciò rende Greenberg un film decisamente riuscito, senza dubbio molto intelligente (la sceneggiatura perfetta è dello stesso Baumbach e della moglie Jennifer Jason Leigh, anche nel cast in un ruolo secondario), ma, allo stesso tempo, altrettanto difficile da amare. Anche un’esperienza sofferta, a tratti, ma senza dubbio dà le sue soddisfazioni – ed è il genere di cinema americano che sarei quasi tentato di promuovere anche a prescindere dai risultati. Ciò che si ama, invece, senza alcun freno, è Greta Gerwig, ex musa del cinema mumblecore: la sua Florence è imperfetta e impulsiva, e l’attrice è diretta da Baumbach con misto di grazia e spietata franchezza che lascia spesso persino interdetti. È già una delle migliori attrici americane della sua generazione.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana. Chi sa, parli.

Solomon Kane, Michael J. Bassett 2009

Solomon Kane
di Michael J. Bassett, 2009

Non sarebbe l’atteggiamento più corretto e rispettoso nei confronti di un film, quello di andare a pescare soprattutto le considerazioni "relative", ma nel caso di Solomon Kane può essere almeno utile per apprezzare ciò che funziona – perché, diciamolo, non è moltissimo. Il film dell’inglese Bassett è una produzione europea che cerca un suo posto nel percorso del cinema epico-fantasy (a partire da un personaggio della letteratura pulp vecchio di ottant’anni e più) e lo fa con un budget abbastanza ridotto ("solo" quaranta milioni di dollari) e un cast di facce semisconosciute – a partire dal protagonista James Purefoy, quasi-sosia di Hugh Jackman che, lo capite da voi, non è che sia proprio un trascinatore di folle.

Insomma, relativamente alle condizioni produttive e alle ambizioni spettacolari, Solomon Kane si difende piuttosto bene e il tratto più caratteristico, quello che lo tiene in piedi quasi per tutta la sua durata, è la sua cupezza: tanta pioggia, tantissimo fango, botte, sangue, un aiuto considerevole dal minaccioso set ceco, qualche scelta trucida/violenta che un film hollywoodiano forse si sarebbe risparmiato, un personaggio con un dilemma morale vero e un look che lévati. E un Purefoy che, tutto sommato, ce la mette tutta per non sfigurare e alla fine porta a casa il suo risultato. Il divertimento non manca, almeno per metà del film: purtroppo ci sono anche intere decine di minuti in cui non succede sostanzialmente un cazzo e non ci resta che aspettare con impazienza che qualcuno si decida a tirar fuori pistoloni e coltelloni e faccia una bella stragetta. Poi, va da sé, basta guardare con entrambi gli occhi aperti per vedere spuntare le poverate dietro l’angolo: qualche fondale impietosamente brutto, una principessa da salvare non proprio carismaticissima (Rachel Hurd-Wood) e soprattutto la parte finale, con un villain (Jason Flemyng) conciato in quel modo e un super-mostro-demone in CGI che sembra uscito da un videogioco per la PS2 trovato nei cestoni del supermercato.

Ecco, quello dell’infamia dell’offerta speciale sembra essere anche un po’ il destino di questo film. Tornando al discorso iniziale: probabilmente, di quel cestone, Solomon Kane sarebbe il miglior film. Ma sempre nel cestone sta.

Friday Prejudice #228

[fronte del porco]

Sono in ferie ma non badateci: per dire, Friday Prejudice c’è.

Friday Prejudice #227

[un'aurora boreale senza precedenti]

Non ci facciamo mancare niente: ci sono anche i pregiudizi.

The Twilight Saga: Eclipse, David Slade 2010

The Twilight Saga: Eclipse
di David Slade, 2010

Premessa essenziale: non ho visto Twilight se non a spizzichi e bocconi frammentati e sparsi. Potrei dire "è come se l’avessi visto", ma facciamo anche no. Di New Moon invece, sotto coercizione e un po’ anche per il lol, ho visto una copia intera anche se di scarsa qualità. Quindi se volete dirmi che non ho il diritto di parlare di Eclipse perché "mi mancano le basi" per me va bene. Io da un certo punto di vista lo considero un vantaggio: la mia ricercatissima ignoranza mi ha permesso di assistere al terzo capitolo della saga a mente serena, di considerarlo un film a sé stante.

Eclipse fa vomitare.

Ma al di là del giudizio in sé su questo film, uno dei più brutti, sgraziati e ridicoli che mi sia mai capitato di vedere durante la mia vita di spettatore, una delle cose che mi sono chiesto all’uscita del film, ma che a dire il vero mi rimbalzava in mente durante l’intera proiezione, è stata: com’è possibile che un’intera generazione di spettatori che generalmente considera "lento" o "noioso" qualunque prodotto in cui ci si fermi per riflettere un paio di minuti o dove i piani durino più di 12 secondi alla volta, sia andata fuori di testa per film in cui non si fa altro che parlare e parlare, in cui pur di non mostrare una goccia di sangue ci si è inventati questa cazzata che i vampiri sono fatti di ghiacciolino (e con una sberla schiattano) e dove l’azione è ridotta a una manciata di minuti verso la fine? Peraltro un’azione girata con il culo? Non è che in Eclipse non succeda niente, si intenda: anzi, è un gran casino capirci qualcosa, ci sono una montagna di personaggi, spesso già morti nei capitoli precedenti (mea culpa: e chi si ricorda chi diavolo è tizio e chi è caio?) e una marea di intrighi politici, etnici e romantici da sbrogliare: ma tutto sembra succedere fuori campo, in un film che i personaggi si fanno nella loro testa.

Questa è la cosa più stupefacente: i fatti vengono perlopiù raccontati e non vissuti, alcune volte ricorrendo al flashback per interrompere almeno per qualche minuto la piattezza sconfortante del film (buona intenzione, pessima realizzazione: non basta mettere un filtro per diventare suggestivo) spesso allungando un dialogo fino allo sfinimento del proprio apparato riproduttivo – e non è una metafora casuale, eh. Uno potrebbe obiettare che un eccesso di dialogo è sempre meglio di un eccesso di vacua azione: sarebbe vero se non fosse che i dialoghi di Eclipse sembrano scritti in un pomeriggio al parco da un gruppo di ragazze adolescenti nate vecchie, con un vocabolario di un centinaio di parole al massimo, e recitati sempre con questo tono mortifero completamente privo di pathos. Però sempre serissimi, senza mai un briciolo di ironia (tranne quando la si butta sul ridere, vedremo poi) e inframmezzati dalle ormai famose "pause" tra una frase e l’altra che li rendono del tutto indigeribili ma che aiutano a raggiungere il minutaggio del contratto. Se a ciò aggiungiamo la recitazione assolutamente imbarazzante del terzetto di protagonisti (per tacere della giungla di imbarazzanti comprimari, come Bryce Dallas Howard, pagata fior di quattrini per salire sul treno in corsa a dire quattro stronzate in 5 minuti netti: guardate questo film e poi provate a lamentarvi ancora di Evan Rachel Wood in True Blood) e la presenza alimentare e invisibile di David Slade (uno che ci sa fare, qui chinato completamente alle esigenze del format: l’unica idea di regia che ho visto è stata un’inquadratura dall’alto di Bella che sale in macchina nei primissimi minuti, poi niente per due ore filate) Eclipse è un’esperienza che si avvicina più a uno spettacolo teatrale di fine anno di una scuola media, o al massimo di un liceo con dei pessimi attori, in ogni caso, per capirci, uno spettacolo pallosissimo e amatoriale, che a una pellicola che può permettersi di sorpassare dei record d’incasso mondiali o cose così.

In fondo, Eclipse ha in tutto e per tutto l’aspetto di uno straight-to-video per educande da collegio, senz’altro per ragioni estetiche (il film per la maggior parte del tempo sembra voler rimediare a carenze di budget che in realtà sappiamo non esistono, e la fotografia tutta primissimi piani e luci smarmellate e il make-up obitoriale contribuiscono alla plastificazione totale) ma non solo: sembra proprio una di quelle cassette che le suore lasciano tenere vicino al videoregistratore nella sala comune perché è vero che si baciano ma poi quel che conta è il messaggio. E possiamo fare tutti gli sforzi che vogliamo per parlare di un film solo per le sue qualità cinematografiche e non per ciò che vorrebbe veicolare, ma davanti alle molteplici scene in cui Pattinson respinge Bella perché non c’è verso che si scopi prima del matrimonio, con il risultato che lei, una ragazza sostanzialmente normale (se non fosse per i suoi gusti di merda in fatto di uomini: cosa prendo oggi, vampiri semi-stalker castranti e profondamente rompicoglioni o licantropi mitomani con un’ossessione per l’ostenzazione del proprio corpo nudo?), anzi, una ragazza americana di provincia bona che è arrivata vergine al diploma, ci fa la figura della maiala, beh, davanti a tutto questo i tentativi di lasciar perdere scricchiolano che è una meraviglia.

Poi, come accennavo, ci sono i momenti in cui il film decide di rivolgersi al pubblico e la butta completamente sulla ghignata: tutti gli spunti vagamente ironici del film, che come ho detto per il 90% del tempo è serissimo ma senza riuscire a essere minimamente minaccioso (anche perché è difficile prendere sul serio personaggi come quelli di Peter Facinelli o Kellan Lutz, che sono conciati come una versione borghese/criptofrocia dei Masters of the Universe, ma senza quella particolare ricchezza espressiva che hanno le action figure), tutti questi spunti dicevo sono completamente autoreferenziali. Arriva Jakob e Edward è tutto un "ma una camicia non ce l’ha?". E giù risate. E Bella dice al padre "Sono vergine", e il padre è tutto un "adesso Edward comincia a piacermi", e giù risate. Per tacere della sequenza nella tenda con il dialogo tra Edward e Jakob che urla Brokeback Mountain così forte che lo senti fino a fondo valle. Questo dovrebbe essere un motivo per salvarlo in parte? Il fatto che si derida da solo? Che non stiamo solo chiaramente assistendo a una delle più sonore (e costose, a veder gli incassi) bufale degli ultimi anni, ma che si tratta di una bufala deliberata e pure un pochetto maliziosa? Che, insomma, nemmeno il film stesso ci creda, a questa robaccia? Ma non credo proprio.

Hot tub time machine, Steve Pink 2010

Hot tub time machine
di Steve Pink, 2010

A volte ci vuole poco per farmi contento. Per esempio: fai un film sul viaggio nel tempo e stai sicuro che avrai la mia attenzione. E il più delle volte, avrai pure il mio appoggio. Sarà che scrivere e realizzare un film sul viaggio nel tempo è così complicato (soltanto la sceneggiatura richiede uno sforzo minimo per tenere in piedi i paradossi, anche quando non si fa sul serio e ci si permette di "bucare"), fatto sta che i risultati danno spesso grandi soddisfazioni. Penso non solo ai classici ma anche ad alcuni titoli più recenti come Primer, Los Cronocrimenes e Frequently Asked Questions about Time Travel. Siete con me? Passate all’ultimo paragrafo.

Il film di Steve Pink in realtà si ricollega a due tradizioni della commedia americana, soprattutto recente ma non solo, accanto alle quali il viaggio nel tempo si inserisce quasi fosse un pretesto: la prima è quella della bromedy di stampo post-demenziale, la seconda, è la malinconia degli indimenticabili e/o tremendi anni ’80. Infatti la macchina del tempo, in questo caso una magica vasca idromassaggio, permette ai quattro protagonisti di finire catapultati nel 1984 – il che significa sì rivivere un punto cruciale dell’adolescenza (leggi: seconda occasione) ma anche e soprattutto di lavorare sui ricordi di quel decennio come se fossimo in un period movie.

E così il salto temporale è soprattutto l’artificio per rivederlo con distanza cinica e irrispettosa, con un florilegio di battute basate sugli anacronismi (oltre che di omaggi ai capolavori del genere come i Ritorno al futuro di Zemeckis, partecipazione di Crispin Glover inclusa) ma anche con una riproposizione quasi antologica dei luoghi comuni degli anni ’80. Va da sé dunque che il film alzi la barra del target rispetto alla media delle commedie americane degli ultimi anni: là dove quelle sono spesso pensate per una fascia 18-35 (per capirci, dalla fine delle scuole superiori alla formazione di una famiglia), questo film è invece realizzato da quarantenni, con protagonisti quarantenni, ed è proprio ai quarantenni di oggi che è dedicato – e, va da sé, sono loro quelli che si divertiranno di più. Da cui la necessità di inserire un personaggio apparentemente inessenziale come quello dell’occhialuto Clark Duke, che in realtà funge come catalizzatore del punto di vista per chi, gli anni ’80, li ha vissuti appena o non ha modo di ricordarseli.

Al di là di queste considerazioni, la fortuna di Hot tub time machine, che è un film che non potrebbe mai reggersi su questa unica trovata, già rimasticata mille volte in mille modalità diverse, né sulla malinconia o sull’omaggio fine a se stesso, è quella di avere dalla sua parte una sceneggiatura solidissima con dialoghi brillanti e pieni di trovate e, soprattutto, un cast davvero affiatato: certo, si gioca molto anche sulle singole gag, spesso divertitamente scatologiche o triviali, ma i tre protagonisti "adulti" sono davvero ottimi (in primis Craig Robinson, uno dei migliori caratteristi statunitensi) e, come sempre, la risoluzione dei conflitti, la lezione imparata o se vogliamo la morale del caso, nasconde una profonda amarezza sul "tempo rubato" – e non ci vuole certo una scavatrice per andarla a trovare, immersa tra le grassissime risate.

Se avete anche voi la fissa del viaggio nel tempo, come il sottoscritto, probabilmente tutto ciò che ho scritto vale fino a un certo punto: questo film è una manna assoluta, vi divertirete come pazzi. Intesi?

Il film è uscito a marzo negli USA ed è già disponibile in DVD. L’edizione britannica, compatibile con la nostra regione, esce invece a fine agosto. Non è per ora prevista una data d’uscita italiana.