[sooner or later]
[post in attesa, come ai vecchi tempi]
[sooner or later]
[post in attesa, come ai vecchi tempi]
[sayonara]
Il blog riapre temporaneamente per la più imprevista e dolorosa delle ragioni: a quanto sembra, qualche ora fa è morto fa il regista giapponese Kon Satoshi, regista di gioielli come Paprika e Millennium Actress. Tra i più folgoranti e promettenti autori del cinema d’animazione contemporaneo, esploratore indefesso dei confini tra sogno e realtà, Kon era più in generale uno dei più geniali tra i cineasti visionari del nostro tempo. Il suo quinto lungometraggio, The dream machine, era ancora in produzione.
Se n’è andato all’età di 46 anni.
[SBRANG]
Come più o meno ogni anno (e ogni blog),
questo blog chiude i battenti per qualche giorno e va in ferie.
Fate i bravi.
Cemetery Junction
di Ricky Gervais e Stephen Merchant, 2010
Se il primo film come co-regista di Ricky Gervais, acclamato autore/attore di serie come The Office ed Extras, era stato il sorprendente The invention of lying, scritto e diretto insieme a Matthew Robinson, la sua opera seconda non si poteva immaginare più differente di così. Ma è anche, sicuramente, una pellicola più personale e sentita: d’altra parte la presenza al suo fianco di Stephen Merchant, amico di lunga data e braccio destro in entrambe le serie tv oltre che nel podcast di culto (poi trasformato in serie animata) chiamato The Ricky Gervais Show, è più di un indizio in tal senso.
Messa da parte la satira politico-religiosa del film precedente, Cemetery Junction è infatti un piccolo e delicato romanzo di formazione che racconta di un gruppo di tre ragazzi di Reading, nel Berkshire – non a caso, il paese dove Gervais è nato e cresciuto. Bruce, con tante parole di libertà in bocca ma una carriera già segnata nella fabbrica locale e un padre perdente, alcolizzato, abbandonato dalla moglie, che spende le sue giornate davanti alla telly. Freddie gli occhi blu, faccia da divo e faccia da schiaffi, una voglia irrefrenabile di "fare i soldi" e di non diventare come i suoi sgradevoli e reazionari famigliari. Infine "Snork", comic relief del trio, occhialuto e sgraziato, che non si rassegna ad abbassare la barra dei suoi canoni estetici per trovare finalmente una ragazza che si possa innamorare di lui.
Gervais e Merchant mettono in campo una riproposizione malinconica ed efficace della loro adolescenza, delle velleità di fuga e della rabbia da ventenni che si scontrano con la realtà delle cose e con la scoperta profonda delle responsabilità del mondo adulto, lasciando ai margini la loro comicità più acuta (relegata ai dialoghi tra la nonna e il padre di Freddie, interpretato dallo stesso Gervais) e accogliendo a braccia aperte il canone del period movie. Tanto che, in verità, Cemetery Junction è un film che non fa un passo più in là di quanto richiesto dalle regole del gioco, forse per la consapevolezza di voler narrare una storia molto semplice, piccola, forse "banale", ma che grazie alla brillantezza dei dialoghi (soprattutto quelli tra Freddie e la sua vecchia fiamma, interpretata dall’abbagliante Felicity Jones) e alla perfezione del cast riesce, senza fare troppo clamore, riesce a superare una certa sensazione di meccanicità (e quella, ben più palpabile, che Gervais non sia proprio un gran metteur en scene) a conquistare ben più che la nostra simpatia.
[morire senza malinconia è già qualcosa]
Premio Maccio Capatonda: abbiamo un vincitore.
(e ci sono pure i pregiudizi, che non guasta mai)
Operation Endgame
di Fouad Mikati, 2010
Ci sono volte in cui di fronte a un film mi capita di chiedermi: ma come diavolo vi è venuto in mente? Capita, per esempio, con film particolarmente sbilanciati, indecisi, scombiccherati: non ha molto a che vedere con la riuscita o meno del progetto, in realtà. È il caso di Operation Endgame, diretto dall’esordiente Mikati e uscito direttamente in dvd negli USA qualche giorno fa (o quasi: ha avuto una piccola distribuzione di lancio in alcune sale): un filmettino divertitamente sboccacciato e violento che vuol essere un’affettuosa parodia spionistica senza rinunciare del tutto, come va di moda in questi ultimi anni, alla credibilità e alla statura del genere.
La caratteristica fondamentale di Operation Endgame, in realtà, ovvero il motivo per cui esiste (e per cui è stato recuperato dal sottoscritto) è il suo cast impressionante, formato da un coarcervo di facce note, ottimi caratteristi, attori televisivi, due bellezze mozzafiato (Odette Yustman e Maggie Q, con il bonus di Emilie De Ravin: a ognuno la sua, ma è una bella lotta) una ritrovata, spettacolare e cattivissima Ellen Barkin, di fronte ai quali stanno, come da locandina, Rob Corddry (vero protagonista del film, vista e considerata la faccia anonima di Joe Anderson) e soprattutto Zach Galifianakis, ormai star senza pari della commedia americana, che con la sua sola apparizione tardiva riesce a dare immediatamente un tocco di insana e morbosa follia al film quando questo rischiava di appiattirsi e diventare del tutto inutile.
Interamente ambientato in una base operativa segreta nel sottosuolo, Operation Endgame è basato su un semplice quanto efficace gioco al massacro, a volte pure bello sanguinolento, e sull’idea brillante di smitizzare il topos della spia mostrando gli agenti supersegreti come dei semplici impiegati frustrati di un ufficio. La differenza sostanziale? Si ammazzano tra di loro. Trattandosi però di una commedia, con dialoghi molto più che coloriti, il tono parte da una comicità pericolosamente vicina allo spoof – ma diventa poi sempre più serio: fino a che, nell’ultima parte, il canovaccio spionistico e l’azione divorano definitivamente la commedia, di cui rimane quasi soltanto il linguaggio colorito. Senza mai prendersi troppo sul serio, coscienziosamente: si vede con chiarezza che gli attori si divertono come pazzi a interpretare un ruolo così poco abituale per le loro corde. Sinteticamente: a massacrarsi di botte.
Può considerarsi riuscito questo timido esperimento? Non del tutto: i dialoghi e i protagonisti sono comunque molto spassosi, "l’eremita" di Galifianakis e la Barkin, ambigua e bellissima come un tempo, sono da soli una ragione sufficiente per spenderci un’ora e mezza, ma Operation Endgame dà proprio l’impressione di un piccolo cult ricercato a tutti i costi e poi abbandonato pigramente in corsa quando ci si è resi conto che funzionava fino a un certo punto, diretto peraltro in modo frettoloso e distratto, con il tipico e perdonabilissimo errore di dare una fiducia indiscriminata alle potenzialità del cast. Perché il cast non basta mai a se stesso.