Tony Curtis è morto ieri a Las Vegas, aveva 85 anni.
R.I.P. Arthur Penn (1922-2010)
Arthur Penn è morto ieri a New York. Il giorno prima aveva compiuto 88 anni.
Innocenti Bugie, James Mangold 2010
Innocenti bugie (Knight and Day)
di James Mangold, 2010
Spesso e volentieri i film di cosiddetto-intrattenimento sembrano divertirsi a sfidare la sospensione dell’incredulità soprattutto attraverso sequenze d’azione che sfidano a loro volta le leggi della fisica e/o della logica. Per fare alcuni esempi a casaccio: True Lies di James Cameron, Desperado di Robert Rodriguez o Mission Impossible 2 di John Woo sono film che hanno spinto questo metodo fino alle estreme conseguenze – giustificandolo però rispettivamente con l’ironia, con il citazionismo, e con il puro stile. Matrix e i suoi sequel, a modo loro, hanno trovato l’inghippo ideale per annullare il problema: ambientando le sequenze stesse in un mondo parallelo cui le regole hanno perso ogni senso – e in cui tutto è concesso. È proprio per questo tipo di situazione che qualcuno ha creato l’orrido eppure diffusissimo termine “americanata”, parolaccia dispregiativa coltivata da decenni di antagonismo antiamericano e che presupporrebbe un’inesistente inferiorità intellettuale di quella che è, sommariamente, la più grande cinematografia al mondo. Detto questo, da queste parti difficilmente sentirete lamentele profonde e serie su quanto una sequenza sia “poco credibile”: nella maggior parte dei casi, una sequenza risponde all’economia generale del film in cui è inserita, all’immaginario da esso creato – che il più delle volte è coerente con se stesso anche se il film è brutto o malriuscito. Se il personaggio in questione sopravvive dunque a prove impossibili, non c’è niente di male in sé: la sua azione risponde a un’immagine del mondo creata intorno a lui e alla sequenza, e il problema con la sospensione dell’incredulità nasce dall’illusione che il mondo rappresentato nel film (d’azione, ma non solo) sia il mondo che sta fuori dalla sala – mentre invece non è che un’altra Matrice i cui confini spaziotemporali sono unicamente quelli del quadro e della visione.
Questo lunghissimo e inutile cappello solo per dire che la sequenza di Knight and Day ambientata a Pamplona è così cretina da mandare al macero queste mie ragionevolissime regole di accettazione e di rispetto. Un “salto dello squalo”, per tirare in ballo in modo (non del tutto esatto, a meno che non si voglia considerare il corpus dei film interpretati da Tom Cruise) una terminologia televisiva: non tanto per l’inferenza che in Spagna ci sia una corsa dei tori ogni volta che ci si mette dentro una macchina da presa, ma per la ricercatissima idiozia con cui tutta la sequenza è realizzata. Così, un film che fino a quel momento si era configurato umilmente come un action movie scemotto giusto con qualche ambizione da commedia brillante (sorprendentemente, la cosa migliore del film è proprio lo scambio screwball tra Cruise e l’insopportabile Cameron Diaz) ma che in reatà punta tutto – soprattutto nel budget – sull’esotismo sciatto del continuo cambio di location sulla falsariga dei M:I, nonostante qualche idea sinceramente azzeccata (la sequenza in cui Cameron Diaz “perde” un giorno e da una sparatoria in un capannone si ritrova in costume su un’amaca in un’isola deserta, con i flash velocisissimi dei “passaggi” intermedi) diventa a quel punto un palese affronto all’intelligenza dello spettatore medio. Si esagera a bella posta, insomma, nella consapevolezza che nessuno l’avrebbe comunque mai preso sul serio. Qui sta forse uno degli errori di fondo di Mangold (regista altalenante che qui si piega persino più del solito alle esigenze della produzione) e compagnia, simile a quello intravisto nel remake di A-Team: che un film di intrattenimento dalle premesse sanamente sciocche debba per forza diventare un film risibile, che una commedia action costosa e rumorosa non possa godere del rispetto che meriti, che si debba mandare tutto in vacca per farsi quattro risate. Non per niente il pubblico, a cui non piace essere preso in giro, non ha gradito.
Ma parliamo pur sempre di un film che ha attraverso un gran numero di cambi di rotta di regia, sceneggiatura (passata tra le mani di una dozzina di persone) e di casting, con Gerard Butler che gli ha preferito (questa, poi) The bounty hunter accanto a Jennifer Aniston. Il più grande peccato: non aver sfruttato a dovere il carisma di Cruise, attore sempre più interessante nonostante al giorno d’oggi alcuni pregiudizi legati alla sua dubbia sanità mentale gli diano qualche problema agli occhi del pubblico. Ne riparliamo tra una ventina d’anni.
Nelle sale italiane dall’8 ottobre 2010
My Son, My Son, What Have Ye Done, Werner Herzog 2009
My Son, My Son, What Have Ye Done
di Werner Herzog, 2009
Inutile nasconderlo, sentiamo la mancanza di David Lynch. Da quando quattro anni fa decise con l’immenso INLAND EMPIRE di tracciare una netta linea di separazione tra chi era disposto ad accettare fino in fondo le conseguenze devastanti del suo cinema e chi no, ci ha fatto penare e continua a farci penare per un nuovo capolavoro. Non abbiamo invece lo stesso problema con Werner Herzog, che negli ultimi anni ha continuato il suo percorso autoriale con indefessa coerenza, sia con le forme del documentario sia, come in questo caso, utilizzando a suo beneficio il cinema americano per proseguire il suo discorso sull’uomo e sul contrasto tra natura e cultura, e i suoi indimenticabili ritratti di uomini che trascinati dalla visione del volto autentico della Terra hanno riplasmato il mondo alle condizioni della propria geniale follia.
Quello che My Son potrebbe sembrare ma non è: un contentino per i fan dell’uno o dell’altro; un divertissement per chi si diverte ad abbinare con superficialità i nani al primo e le cascate al secondo. Quello che è: un pezzo di cinema radicale calato nelle fauci della fiction, una parabola di scontro travestita da stand-off poliziesco, in cui l’importanza assolutamente centrale della provocazione linguistica, per esempio attraverso una direzione degli attori scopertamente antinaturalista, asciugata di ogni espressione oppure caricata fino all’estremo, è solo uno strumento come un altro per svelare agli occhi dello spettatore l’assoluta assurdità del mondo.
A patto che egli accetti le regole non così esplicite di ribaltamento delle aspettative che, seguendo la lezione dei due registi, passa attraverso lo straniamento per arrivare alla rivelazione. Sarebbe difficile capirlo se la presenza ingombrante dei due nomi non fungesse da freccia luce al neon? Fatto sta che, nonostante il film sia di Herzog e herzoghiano in modo preponderante, tornando all’osservazione iniziale, anche il produttore David Lynch ci mette ben più che una zampata. Non tanto nel nano di turno, ma in quel modo assolutamente unico di osservare il mondo e di renderlo immediatamente inquietante, di mettere fuori posto gli elementi che sostengono la realtà e mescolando le sinapsi che li connettono – ma anche nella misura in cui My Son sa raccontare con spirito autenticamente surrealista i paradossi della periferia e della famiglia americana.
Uno stile e una firma, a modo suo, che si incontra con perfetta alchimia con quello di Herzog e con un cast che, per primo, accetta le stesse regole (primo tra tutti l’incredibile Michael Shannon) per raccontare tra i pochi metri quadri di una strada che separa due case, con lo sguardo rivolto a una natura lontana e imperscrutabile, una lotta tragica che confonde arte e vita e che non può avere vincitori né vinti. La sintesi perfetta tra i due grandissimi autori, in attesa magari di un film che porti ancora una volta al di là le molte premesse e le partite aperte da questo, è comunque quanto di più sorprendente e frastornante, in tutte le accezioni possibili, ci possa capitare.
Ip man 2, Wilson Yip 2010
Ip Man 2 (Yip Man 2)
di Wilson Yip, 2010
Forse non dipende dalle capacità di Wilson Yip, il fatto che il pur validissimo Ip Man 2 non sia all’altezza del bellissimo film che l’ha preceduto. L’impressione è che l’inferiorità sia data dal contesto. Il sequel nasce infatti, a quanto pare, anche dalla voglia di raccontare ciò che accadde dopo la fuga del maestro Ip Man a Hong Kong – vale a dire: l’incontro con un giovane Bruce Lee, grazie a cui l’arte e la leggenda del Wing Chun si diffuse in tutto il mondo. Ma i diritti degli eredi si sono messi tra il dire e il fare, e così a Yip e al produttore Raymond Wong è rimasto da raccontare quel lasso di tempo che va dagli accadimenti del primo film all’incontro stesso. Qui sta il relativo problema: ciò che succede in questo periodo è assai meno intenso di quello che abbiamo visto in Ip Man. Da una parte c’è la guerra, i giapponesi cattivi, un’autentica lotta per la sopravvivenza; da questa parte il baricentro si sposta sulla questione coloniale, l’orgoglio culturale delle arti marziali cinesi, i britannici che incarnano i nuovi villain.
In ogni caso, non fatevi ingannare dal precedente paragrafo: nonostante un certo calo d’interesse, Ip Man 2 è davvero uno spettacolo di tutto rispetto. Vedere Donnie Yen in azione è sempre e comunque una pacchia senza uguali (al giorno d’oggi) e l’incontro-scontro tra il nostro e un Sammo Hung stupendamente invecchiato (che cura anche in questo caso le bellissime coreografie, concedendosi ben più di un cameo) su un tavolino pericolante è imperdibile. La teatralità delle scenografie e la precisione della fotografia, insieme alle musiche trascinanti di Kenji Kawai, chiudono il cerchio.
Per quanto riguarda l’anelato incontro con Bruce Lee, la risposta arriva sui titoli di coda. Mi piace pensare che un giorno o l’altro ce la faremo, a portarla a casa.
Come per il film precedente, non è prevista un’uscita italiana. Cosa me lo chiedete a fare.
Nel 2010 è uscito anche un prequel diretto da Herman Yau.
The housemaid, Im Sang-soo 2010
The housemaid (Hanyo)
di Im Sang-soo, 2010
Presentato all’ultimo Festival di Cannes, The housemaid è il sesto film diretto da uno dei più talentuosi registi della Corea del Sud, noto dalle nostre parti soprattutto per La moglie dell’avvocato (stranamente uscito nelle sale italiane) e che nei suoi precedenti due lavori, gli eccellenti The president’s last bang e The old garden, era riuscito nell’obiettivo di unire alla perfezione storie intense di personaggi con la ricostruzione di momenti storici recenti e ben precisi, ancora vivi e dolorosi nell’immaginario collettivo coreano.
The Housemaid è il remake di un classico del cinema coreano diretto da Kim Ki-young nel 1960 e racconta la storia di Eun-yi, una ragazza di bassa estrazione sociale che viene assunta per lavorare in una villa per una coppia ricchissima, come governante e babysitter di una coppia di gemelli non ancora nati, finché non viene travolta dagli eventi a causa dei capricci sessuali del suo datore di lavoro. Ma nonostante la progressione narrativa si rifaccia a meccanismi melò più tradizionali, Im non si accontenta affatto di rimanere ancorato a una prospettiva meno ambiziosa del solito o legato alla mera psicologia dei suoi personaggi: in realtà il film è una pungente e irresistibile parabola sui rapporti di potere e di classe in Corea del Sud.
Da una parte c’è il divario economico che spezza in due il paese, con ville da sogno in mano a famiglie di eterni bambini che ogni sera bevono una bottiglia di vino pregiato e ascoltano musica classica in soggiorno e una parte di popolazione che è costretta dalle proprie condizioni sociali al compromesso più bieco, che può sfociare addirittura in una nuova forma di schiavitù o di prostituzione dell’individuo. Dall’altra, ancora più rilevante, c’è il divario tra uomini e donne: e il ritratto feroce e disincantato, tratteggiato con cinismo e senza mezze misure negli altri tre personaggi femminili, cela dietro una prospettiva apparentemente misogina una lucidissima considerazione del potere smisurato dell’universo maschile.
In tal senso, le parole più rivelatorie e illuminanti dell’intero film sono quelle pronunciate dalla giovane madre di Hae-Ra, la ragazza incinta, per convincerla a far buon viso a cattivo gioco di fronte ai tradimenti del marito: “tutti gli uomini in quella famiglia sono così. Guarda tua suocera: ha dovuto attraversare cose orrende per colpa di quegli uomini. La gente normale non potrebbe nemmeno immaginarlo. Ma ha tenuto duro, per diventare quello che è oggi. E guardala ora: tutti venerano la terra dove cammina. Anche tu sarai così”. Ed Eun-yi è il punto di incontro di queste diseguaglianze, l’ultimo anello della catena sociale, una donna costretta a umiliarsi e a chiedere scusa per gli errori e le inguistizie altrui – e che proprio sul suo corpo gioca la sua inflessibile, disperata quanto definitiva vendetta.
Suck, Rob Stefaniuk 2009
All’interno dell’inarrestabile trend-invasione dei film e delle serie tv sui vampiri (o con i vampiri dentro), Suck non si distingue sicuramente per le sue ambizioni di mercato: scritto, diretto e interpretato da un attore comico semisconosciuto al di fuori dei confini del Canada, il film è una piccola commedia horror con un’attitudine da musical rock, tutta basata sulla metafora del vampirimo come “selling out” discografico (simile a quella di Jennifer’s Body, se vogliamo: non certo una delle più pregnanti), caratterizzata da un’umorismo sciocco e non troppo originale e da una messa in scena scombiccherata che, a modo suo, diciamola tutta, fa anche simpatia.
Di fatto, l’unico motivo di vero interesse in Suck è la partecipazione di alcuni celeberrimi musicisti, che regalano infatti i momenti migliori del film: Moby è un metallaro di nome Beef che lancia pezzi di carne cruda dal palco e chiama il suo pisello “Baby Beef”, Iggy Pop è un saggio produttore che si pruduce in perle tipo “let me tell you what I’ve learned in my many travels: always use a condom, and never trust a goddamn vampire”, Alice Cooper è un temibile e potentissimo vampiro che (a me) ricorda morbosamente il Dream del Sandman di Gaiman, e c’è anche Henry Rollins che fa Henry Rollins. Tutti e quattro fanno una fine ingloriosa: halleluja. Il resto del film, a parte qualche gag (la vampira che succhia il sangue di un impiegato un po’ nerd con una cannuccia e poi, sgamata, dice “it’s not what it looks like”) è abbastanza dimenticabile. Per tacere delle canzoni.
Assolutamente geniale, invece, l’idea di utilizzare per un flashback di Malcolm McDowell (sì, c’è anche lui, nel ruolo di un cacciatore di vampiri per vendetta con la benda nera da pirata sull’occhio; e non vi ho ancora detto che si chiama Eddie Van Helsing) alcune scene appositamente rimontate di un film del 1973, nello specifico O Lucky Man! di Lindsay Anderson. Gran bella trovata.
Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana
A Serbian film, Srdjan Spasojevic 2010
A Serbian film
di Srdjan Spasojevic, 2010
Appena ho finito di guardare A serbian film, prima di arrivare a capire se mi fosse piaciuto o meno, due pensieri mi sono passati per la testa. Il primo, che forse sono troppo vecchio (o troppo poco ossessionato) per queste cose. Il secondo, che al di là del giudizio di valore avrei generalmente sconsigliato il film a chiunque me l’avesse chiesto. Tanto è piuttosto facile convincere qualcuno a non guardarlo: basta raccontarglielo. Il giorno dopo, per esempio, sono stato invitato durante una pausa-pranzo a descrivere dettagliatamente la trama del film: il risultato è che nessuno degli astanti si azzarderà mai a vederlo.
Affrontare la visione con il distacco cinico grazie al quale è spesso più semplice scivolare attraverso le peggiori bestialità del cinema più “estremo” è, nel caso di questo film, davvero difficile: da un certo punto in poi, Spasojevic gioca al continuo rilancio con perfidia (ogni dieci minuti si arriva a pensare: cosa potrà mai succedere di peggio? E poi, puntualmente, succede di peggio) e con un piacere spietato della provocazione che difficilmente gli sarebbe concessa in altre cinematografie, costruisce un meccanismo narrativo assai intelligente considerati i temi del film (a metà film “saltiamo” tre giorni e siamo costretti a ripercorrerli con il protagonista in flashback man mano che costui riprende la memoria) e produce quella che è a tutti gli effetti una delle più terrificanti e implacabili discese agli inferi del cinema degli ultimi anni.
Un film di cui si potrebbe discutere per giorni e che sotto al torture porn non nasconde certo le sue ambizioni, persino storico-sociali, che sono perlopiù irrisolte: A serbian film è senza dubbio un’opera che mette in campo una riflessione sull’abisso umano in cui il contesto serbo ha ben più che una rilevanza contestuale, ma che fa sì che ci si chieda troppo spesso dove si fermi l’autentica riflessione sul presente e dove inizi la provocazione gratuita. Lo sberleffo finale fa propendere per la seconda ipotesi, e probabilmente qualcuno penserà anche che il film vada troppo oltre. Personalmente trovo che questo aspetto più “serio” del film di Spasojevic sia piuttosto debole, rafforzato semmai dall’abbinamento tra lo squallore definitivo rappresentato e una cerca ricerca visiva della rappresentazione.
A serbian film è invece molto più interessante come parabola acuta e disperatamente pessimista sui confini e sui limiti della visione, sia in senso cinematografico (il campo e il fuoricampo) che in senso morale, che innesca cortocirtuiti di voyeurismo tra i personaggi e lo spettatore che lasciano sinceramente con gli occhi spalancati.
Astenersi deboli di stomaco e puri di cuore.
Frozen, Adam Green 2010
Tra Hatchet e il suo atteso sequel, il ritorno di Adam Green dietro la macchina da presa si rivela come una delle più belle sorprese del cinema horror degli ultimi tempi, andando finalmente a confermare tutte le aspettative che il film precedente aveva creato nei cuori dei fan. Perché se Frozen si configura per sua natura quasi immediatamente come un film-scommessa (come è possibile girare un lungometraggio ambientato quasi esclusivamente su una seggiovia bloccata a dieci da terra?) in realtà fa un bel passo oltre.
La fortuna di Adam Green è senz’altro quella di aver trovato uno “slot” libero di tutto rispetto: un timore estremamente diffuso ma “sotterraneo” che fa leva però su una serie di paure ancestrali e spesso dimenticate (il gelo, il buio, la solitudine, gli animali feroci) e su cui nessuno aveva mai concentrato un intero film. Ma quella del regista 35enne non è solo fortuna: Green conosce alla perfezione i meccanismi della suspense (visivi e sonori) e riesce a sfruttare con abilità tutte le potenzialità insite in una simile ambientazione, giocando con il caso e mostrando un sadismo davvero micidiale nei confronti dei suoi personaggi – ma anche uno sforzo non indifferente nel tratteggiare i loro rapporti (il tempo non manca), lavorando sodo sull’immedesimazione con la banalità.
Quello che fa Frozen è, in definitiva, riportare l’umanità al grado zero: la fa ripiombare all’improvviso nella preistoria, spegnendo letteralmente l’evoluzione tecnologica, rimettendo in comunicazione l’istinto di sopravvivenza dell’uomo contemporaneo con pericoli e minacce di fronte ai quali è del tutto inadeguato. E questo è ciò che rende Frozen così più inquietante, spaventoso, e stimolante.
Hatchet, Adam Green 2006
Se da qualche tempo Adam Green è considerato una delle promesse del cinema horror americano, al di là dell’esordio assai poco visto, la commedia Coffee & Donuts, quasi tutto lo deve a questo film presentato al FrightFest londinese quattro anni fa e divenuto nel corso di poco tempo uno degli slasher più apprezzati dagli appassionati negli ultimi anni.
In realtà Hatchet è ancora una promessa tutta da mantenere: il meccanismo del film è basato su una riproposizione di un meccanismo piuttosto risaputo (un gruppo eterogeneo di vittime, un “mostro” dalla personalità ben definita) con la colorita variante di un’ambientazione folkloristica nelle minacciose paludi della Louisiana durante il “mardi gras”, e il film non va molto oltre il divertimento dei suoi ottanta risicati minuti. Ma il divertimento c’è, innegabilmente: di suo, Green ci mette un senso dell’umorismo caustico e triviale e soprattutto un gusto efferato, crudissimo e giocoso al tempo stesso, nella rappresentazione degli ammazzamenti, con la conseguenza di restituire allo slasher uno spirito sanguinario che molto teen horror si era portato via destinando il genere a una visione famigliare.
Senza dubbio Hatchet è dedicato agli irriducibili dell’horror: se lo siete, è una gran pacchia. Ma se lo siete, probabilmente l’avete anche già visto.
Somewhere, Sofia Coppola 2010
Somewhere
di Sofia Coppola, 2010
Forse non era necessario vincere il Leone d’Oro perché accadesse, ma non c’è dubbio che il nuovo film di Sofia Coppola abbia ricevuto dal premio consegnato alla Mostra del Cinema di Venezia un ulteriore stimolo a diventare il film discusso con più veemenza degli ultimi tempi dagli spettatori, dai cinefili, dagli occasionali e persino da quelli che il film non l’hanno nemmeno visto. Così, negli ultimi giorni Somewhere è diventato il fulcro di qualunque discussione intorno ai film, e come spesso accade i toni si adagiano comodamente sugli estremi – in questo caso, sfortuna sua, in negativo, comprese illazioni assolutamente ridicole sul rapporto tra il premio e la relazione passata tra la Coppola e Quentin Tarantino. Personalmente, ho un problema con coloro che si accaniscono con violenza con chi (ovviamente a mio avviso) non lo merita, e la recente discussione su Somewhere ha fatto sì che Sofia Coppola entrasse nel giro di poche ore a far parte di un’ampia categoria di cineasti creata nella mia testa – quelli che è talmente cool attaccare che mi vien voglia di difenderli a prescindere, anche se i loro film non mi hanno convinto del tutto.
E qui veniamo a Somewhere che, appunto, non mi ha convinto del tutto. Un’altra cosa è dire che il film faccia schifo o augurare punizioni corporali alla sua regista: per fortuna la mia vita sa modellarsi sulla scala dei grigi. Ma passiamo oltre. I miei problemi con Somewhere sono iniziati proprio con la primissima inquadratura, quella della Ferrari di Stephen Dorff che gira letteralmente a vuoto per qualche minuto. Ironicamente, uscito dal film riflettevo come questo incipit, insieme alla sequenza (credo) successiva, quella della lap dance, sembri avere una funzione di “scrematura” nei confronti del pubblico: vi avvertiamo che questo film sarà tutto così, ci saranno molte inquadrature fisse e probabilmente non succederà granché, siete ancora in tempo ad andarvene. Una cosa a me graditissima, dal momento che mi infastidisce quel tipo di spettatore (assai diffuso) per cui un’inquadratura fissa equivale a una visita dal dentista e per cui l’orribile e abusatissima parola “lento” ha sempre e comunque un’accezione negativa. Ogni volta che dite “questo film non mi è piaciuto perché è lento”, muore uno Tsai Ming-Liang. Tutto bene, quindi? No. Perché questo è un film che si chiama “da qualche parte” e che inizia con un tizio che non va da nessuna parte e che, poco sorprendentemente, finisce (no spoiler) in quel modo. Questo mio dubbio sull’eccesso didascalico di questa cornice narrativa così sottolineata, acuito dal contrasto con le ambizioni europeiste della Coppola e dal tono assai più implicito e sottile del resto del film, ha segnato in qualche modo l’intera visione del film.
Ovviamente queste considerazioni riguardano soltanto uno dei molti aspetti di un film che ho l’impressione sia stato frainteso a causa di due singole questioni – che sono poi fondamentalmente le uniche dibattute a proposito di Somewhere dalla sua uscita: la prima è la sequenza ambientata a Milano e la seconda è la somiglianza del film con un’opera precedente della Coppola, Lost in translation. Sulla sequenza della Notte dei Telegatti è effettivamente difficile esporsi facendo finta che non sia una delle cose più dolorosamente imbarazzanti del cinema degli ultimi anni, ma la cosa riguarda ovviamente solo noi spettatori italiani, e sottolineo italiani, che quando vengono colpiti nel vivo, nel bene e nel male, perdono completamente il controllo. L’idea che “gli americani sappiano che esistiamo” provoca una scarica adrenalinica incontrollabile che fa sbarellare completamente il senso del giudizio, per esempio, su una sequenza del genere. Succede ogni volta. Il film però non ha nulla a che fare con tutto questo. È un problema nostro, facciamocene una ragione.
Invece Lost in Translation è la più grande sfiga di Somewhere: perché l’opinione relativa a una filmografia è già una tentazione troppo grossa, figuriamoci se c’è in ballo un film molto amato e un film che condivide così tanti elementi, perlopiù superficiali, con quest’ultimo. Ma non è un remake, non è un sequel, non è una variazione sul tema, non è un rip-off né uno spin-off. Semplicemente Sofia Coppola è un’autrice nell’accezione più diffusa del termine, e come tale dirige dei film guidati da una sorta di filo invisibile, tematico e, perché no, anche narrativo. Tutto qui: eppure ci sono cascati in molti. È più bello o più brutto di Lost in translation? La risposta, quantomeno scontata (ma io risponderei “meno bello”), ha affossato definitivamente le possibilità di questo nuovo film di essere amato.
Ed è un peccato, in fondo: perché Somewhere è un’opera a suo modo molto coraggiosa, anche se non del tutto riuscita, in cui la Coppola continua pervicacemente a percorrere la strada di un cinema americano indipendente e profondamente personale, riuscendo a riflettere (non c’è niente di male) sul proprio passato e anche sulla propria “persona pubblica” con una leggerezza metaforica che la maggior parte dei registi più autobiografisti si sogna, a dirigere magnificamente un attore come Stephen Dorff (non il massimo dell’espressività) e soprattutto un fenomeno come Elle Fanning, già quasi brava quanto la sorella maggiore, e anche a lavorare con grande perizia e intelligenza sulla costruzione visiva del film – paradossalmente visto che (o proprio perché) parte del fascino e del significato del film è la riproposizione di ambienti spogli e senza significato quanto i gesti quotidiani del suo protagonista, di posti che non sono posti, che non sono “alcun posto”.
Devi cambiare titolo perché non sei più tanto giovane
Traslochi
Presto o tardi, andava fatto. Così, dopo quasi sette anni di amore e di litigi, stremato tra le altre cose dalle difficoltà tecniche, ho abbandonato il nido di Splinder dove me ne stavo pacioso dal Capodanno del 2004 e mi sono preso una casetta tutta mia. Questa casa si chiama kekkoz.com, che da oggi ospita Memorie di un giovane cinefilo, il nuovo Friday Prejudice e Vivere e Morire a Losanghe. Ma, proseguendo su questa risaputa metafora, l’appartamento non è ancora del tutto arredato: diciamo che per adesso mi sono accontentato della mobilia indispensabile. Proprio per questo ogni consiglio è ben accetto; soprattutto, in linea con il passato, quelli costruttivi.
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Semplicemente, se stai ricevendo i feed di questo post significa che non devi fare niente: l’indirizzo “ufficiale” non è infatti cambiato. Se invece eri iscritto ai feed di Splinder, è tempo di aggiornarli.
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Vittime di guerra
Per trasferire Giovane Cinefilo e il “cugino cattivo” Friday Prejudice da Splinder a WordPress, mi sono servito della collaborazione preziosissima di Gatto Nero, che ringrazio per l’ennesima volta per il sostegno tecnico e soprattutto psicologico, e del plugin che potete trovare a questo indirizzo su L’altro Blog nel caso venisse anche a voi un’idea così folle. Ho trasferito tutto: 2029 post di uno e 236 dell’altro, ma purtroppo nel totale di quasi 30 mila commenti dei due blog messi insieme, alcune centinaia sono rimaste senza vita sul campo di battaglia. Un sacrificio che mi sono concesso: per malinconie o ricordi perduti, il “vecchio” Giovane Cinefilo non va da nessuna parte. Guardiamo avanti.
Niente. Tutto qui. Benvenuti.
Inception, Christopher Nolan 2010
Inception
di Christopher Nolan, 2010
Ho visto Inception esattamente un mese fa*.
Inception è il più grande film del 2010**.
Il motivo di quest’attesa non è chiaro neppure a me, né sono sicuro di sapere per quale motivo così tanti post abbiano “scavalcato” quello sul film di Nolan durante le utlime settimane. Forse perché mi dispiaceva scriverne un solo post, incapace per sua natura di racchiuderne, citando il dialogo tra Cobb e Mal, “all its complexity, all its perfection, all its imperfection”. Un film perfetto e imperfetto, nella migliore accezione possibile, di cui è difficile, impossibile parlare tra i confini di un blog, non tanto per lo spauracchio dello spoiler ma per via della sua complessità, non solo narrativa – quella che ha spinto molti fan a disegnare schemi che la spiegassero nella sintesi di un grafico – ma anche per i suoi infiniti livelli di lettura: Inception è costruito su una stratificazione che porta ben più di un passo avanti sia il discorso sulla confusione ontologica intrapreso da molto cinema americano tra la fine degli anni ’90 e il decennio successivo sia la sperimentazione postmoderna sulla relatività del tempo diegetico, ma tutto ciò è appoggiato su una produzione e distribuzione da blockbuster – e quindi Inception è anche un action thriller irresistibile con un cast travolgente (in primis Gordon-Levitt e lo stesso DiCaprio), un melodramma straziante sul senso di colpa, un film possente e fragile insieme su un ultimo riscatto, un film sperimentale e mainstream insieme sulla vita e sul sogno e, come molti hanno sottolineato (Nolan incluso, anche se ha ammesso di “essersene accorto” soltanto a cose fatte), anche una straordinaria metafora dell’atto creativo del cinema. E, so e sospetto, centinaia di altre cose.
Dirò la verità, ho passato la prima mezz’ora del film cercando di affontarlo con più freddezza, di non farmi trascinare dal cieco entusiasmo, nonostante ne attendessi con ansia l’arrivo da mesi e fossi certo delle sue qualità. Ma dopo un po’ di minuti passati a cercare invano il pelo nell’uovo, credo a partire dall’eccellente inseguimento tra i vicoli di Mombasa, mi sono reso conto che non ha davvero senso e l’ho capito ascoltando il battito del cuore e guardando i muscoli delle gambe tendersi e agitarsi quanto i neuroni nel cervello: mi ripeterò, ma la magia di Nolan è quella di aver ottenuto un film epico e commovente pur da una macchina narrativa così cerebrale e geniale, di aver risolto (a patto di stare un po’ attenti) la comprensione del plot con i perfetti ingranaggi della sceneggiatura e di aver messo in piedi uno spettacolo trascinante in cui tutti gli elementi contribuiscono in egual modo (con una particolare nota per l’epocale colonna sonora di Hans Zimmer) e in cui quasi ci si dimentica (non a caso) del tempo che passa e, ancor più miracolosamente, del caos dell’intreccio. Il risultato: uno di quei rari film che ti entrano sotto la pelle e dietro gli occhi, e dopo un mese di tempo sono ancora lì con la disturbante e tachicardica palpabilità di un sogno lucido. Forse perché non abbiamo fatto altro che pensarci e ripensarci per tutto questo tempo?
Ma, concludendo con una materia più “fredda” ma non meno rilevante, quello di Inception è anche un modello che potrebbe aprire degli scenari luminosi sul futuro del cinema commerciale americano: stiamo parlando di un film d’autore dal budget di 160 milioni di dollari, di un film realizzato con una libertà creativa quasi senza precedenti negli ultimi 10 anni ma che non fa assolutamente sconti e non dà mai per scontato che l’età mentale dei suoi spettatori sia sotto il livello di guardia: un’occasione guadagnata grazie al precedente capolavoro del regista, Il cavaliere oscuro, che ha già ripagato ampiamente sul mercato. E che dal lato artistico mostra ancora una volta a chi avesse dei dubbi che, a suo agio sia su territori del cinema più commerciale che in incontrollabili e meravigliose follie come Inception e The prestige, Nolan è davvero uno dei più grandi registi del cinema americano contemporaneo.
Nei cinema dal 24 settembre 2010
*ho visto il film in Portogallo, un paese civile dove i cinema sono sempre pieni (di film e di spettatori) anche ad agosto e dove tutti i film vengono proiettati in lingua originale con i sottotitoli
**finora
R.I.P. Claude Chabrol
[adieu]
Claude Chabrol è morto oggi a Parigi all’età di 80 anni.
Somewhere: Leone d’Oro
[leone d'oro]
Somewhere di Sofia Coppola ha vinto la 67a Mostra del Cinema di Venezia.
Sì, l’ho già visto. Magari nei prossimi giorni ne parliamo.
I mercenari, Sylvester Stallone 2010
I mercenari (The Expendables)
di Sylvester Stallone, 2010
Negli ultimi anni il discorso sui film sulla rete, social network inclusi, si sta riducendo sempre di più a un’opposizione tra aspettative e giudizio: ovvero, un film è sempre meno considerato come qualcosa a sé stante e sempre più in relazione all’idea che ci si era creati in testa. Un procedimento mentale (o dialettico) tanto comodo quanto limitato. E poi a volte esce un film che rispetta in modo tale le sue aspettative da lasciare soltanto una cosa da dire – che infatti si legge un po’ dappertutto: I Mercenari è un film clamorosamente onesto.
Dopo aver dissotterrato i suoi due personaggi più iconici, Stallone ha riportato sugli schermi un mucchio selvaggio di stelle action più o meno in declino, ma l’ha fatto con un’intenzione estremamente chiara: quella di fare un film action puro e senza fronzoli, un film, per intenderci, che non permettesse voli pindarici da parte “nostra” che andassero al di là della quantità di proiettili sparati o della figaggine delle punchline. L’elemento malinconico del film, quindi, o il modo in cui ci si ostina sui volti invecchiati dei suoi personaggi (in primis il botulinato Stallone), non sono inseriti nel film con scopi autoriflessivi, ma fanno parte della narrazione, del carattere fascinosamente decadente del suo autore.
Che limita gli ammiccamenti ad alcune sequenze (una tra tutte quella dell’incontro con Schwarzenegger e Bruce Willis in chiesa: irrimediabilmente irresistibile), costruisce un plot che più semplice non si può e tralascia fotografia e scenografie (ma badate, la regia regala più invenzioni della maggior parte dei film d’azione di oggi), lasciando più spazio possibile al divertimento del suo pubblico. E infatti arrivano a palate – sia il divertimento che il pubblico. Ma è il cast, da copione, la pacchia maggiore del film: basta scegliere i propri preferiti. Qui sono il solito Mickey Rourke (che a questo punto riuscirebbe a dare uno spessore hollywoodiano pure a Super Mario Bros) e Jason Statham, vero co-protagonista del film e autentica spalla ideale di Stallone – in qualche modo, una consegna di testimone a quello che è forse è il miglior rappresentante del genere in circolazione.
Black Death, Christopher Smith 2010
Black death
di Christopher Smith, 2010
Il bristoliano Christopher Smith è un regista che da queste parti è visto da tempo con un occhio di riguardo: merito della scatenata commedia horror Severance, ma soprattutto dello stupefacente Triangle, geniale e cerebrale frullato di paradossi spaziotemporali che diventò una delle ossessioni del sottoscritto nella scorsa stagione. Per lo stesso motivo, saremmo pronti a perdonare a prescindere uno scivolone. Il suo quarto lungometraggio, ambientato nel trecento della "peste nera", è in realtà a mio avviso più un passo indietro che un vero passo falso.
A volerla dire tutta, Black Death dà più che altro l’impressione di un film che fatica a prendere una direzione, indeciso tra la riproposizione efficace di un immaginario medievale aspro e violentissimo e il racconto morale con metafora nascosta in bella vista. Da un lato c’è infatti la cruda prima parte, con una rappresentazione originale e cupissima dell’Inghilterra minacciata dalla pestilenza e dalla morte, dall’altro c’è la tendenza a trasformarsi gradualmente (o improvvisamente) in un film a tema. E nell’ansia di stendere sul tavolo le sue opposizioni e di sembrare una cosa serissima a tutti i costi, si dimentica per strada il gusto della narrazione, diventando statico e inerte e affidandosi perlopiù alla presenza di Carice van Houten, che per un po’ è ambigua e affascinante, ma il cui facile contrasto finisce presto per diventare stucchevole.
Il tocco di Smith si vede soprattutto nello sguardo crudele e a suo modo tragico sullo spirito umano, in cui l’indole ferocemente (e sadicamente, a tratti) pessimista del regista acquista persino una maggiore profondità – con il rischio, certo, di diventare la sua maniera, ma non si può negare che anche questo film lasci una palpabile sensazione di disagio e di sconforto. E che se Black Death non è forse all’altezza dei due film precedenti, mostra quantomeno che Smith, a differenza dell’opera stessa, sa perfettamente dove sta andando. Adesso speriamo che ci arrivi con il prossimo film.
Non è prevista un’uscita italiana nelle sale italiane a breve, ma a metà ottobre esce l’edizione dvd britannica
Centurion, Neil Marshall 2010
Centurion
di Neil Marshall, 2010
Tra i registi del cosiddetto Splat Pack, Neil Marshall non è solo uno dei più benvoluti, ma uno dei più interessanti ed eclettici: dopo essersi smarcato dal circuito degli appassionati (il suo primo film era l’interessante Dog Soldiers) con il fenomenale horror The Descent, con il suo sorprendente terzo film Doomsday aveva mostrato una notevole sfrontatezza nell’affrontare il pastiche di generi e i topoi del cinema post-apocalittico, attirando su di sé anche qualche immeritata antipatia da parte di alcuni fan della prima ora.
Con Centurion il suo cinema sembra prendere una strada diversa, allontanandosi apparentemente da scenari horror per raccontare una fantasiosa risoluzione di un famoso mistero – quello della "nona legione" romana scomparsa nelle Highlands scozzesi all’inizio del secondo secolo DC. In realtà, a Marshall interessa decisamente più l’action adrenalinico che la rivisitazione storica, la sua mano flirta con il thriller più che con Il Gladiatore, per nostra fortuna, e il film più che per la vicenda in sé si fa notare soprattutto per l’approccio sempre più materiale e sanguigno alle scene d’azione.
Insomma, dopo Doomsday pensavo di aver assistito al maggior numero di decapitazioni possibili in una pellicola di largo consumo, ma solo perché non avevo visto Centurion: la sequenza della prima battaglia in cui la legione viene sterminata dai Pitti, è una lunga e furiosa carneficina in cui quasi ogni inquadratura, all’interno di un montaggio serratissimo, è un ammazzamento, spesso molto truculento – ma il fatto che il film inizi con un soldato di guardia infilzato da una lancia là dove non batte il sole era già un bel campanello d’allarme, se così si può dire. In queste sequenze Marshall è in grandissima forma e Centurion si pone come il proseguimento ideale del film precedente, agli antipodi semmai rispetto a un’opera come Valhalla Rising.
D’altra parte però il film non spicca certo per l’originalità o la brillantezza del plot (nel film precedente sostituite dal continuo scarto di genere e dall’ammiccamento cinefilo) e visto che, azzerata l’ironia, Centurion non ha quella stessa capacità di gestire il corso della narrazione (buttando nella mischia una tiepida storia d’amore svalutata immediatamente dal contorno) spesso e volentieri affida il compito di tenere alto l’interesse a una fotografia eccezionale ma cartolinesca e alla tosta presenza scenica del suo protagonista. Gioco forza: chi non lo farebbe, avendo tra le mani Michael Fassbender? Anche se in realtà la vera star del film è la spettacolare Etain di Olga Kurylenko, proto-braveheart di spietata bellezza nei cui occhi Marshall riesce a far bruciare con una forza visiva deflagrante la fiamma della perdita e del desiderio di vendetta.
Non mi risulta che sia ancora prevista un’uscita italiana per le sale