novembre 2010

You are browsing the site archives by month.

Mario Monicelli R.I.P.

[addio]

Mario Monicelli è morto oggi a Roma. Aveva 95 anni.

Irvin Kershner R.I.P.

[goodbye]

Irvin Kershner è morto oggi a Los Angeles, aveva 87 anni.

Leslie Nielsen R.I.P.

[goodbye]

È morto Leslie Nielsen.

Amore a mille… miglia (Going the distance), Nanette Burstein 2010

Amore a mille… miglia (Going the distance)
di Nanette Burstein, 2010

A meno che non abbia voglia di superare i confini e i cliché del suo genere (cosa che il film della Burstein non fa, per fortuna) una commedia romantica ha bisogno di un numero limitato di fattori per poter funzionare. Pochi ma buoni: quel che c’è deve girare alla perfezione. È il caso di Going the distance, che sfrutta davvero bene i suoi elementi: due attori in forma, valide caratterizzazioni di contorno, una buona sceneggiatura, un senso dell’umorismo irresistibilmente immaturo, e soprattutto un’idea forte (per quanto di estrema semplicità: “la storia d’amore a distanza, discuss”) in un contesto altrettanto solido, quello arcidiffuso della crisi economica e del mondo del lavoro.

Al di là di questi elementi, che bastano senz’altro a farne un film più gradevole della media, ciò che rende particolare e inusuale Going the distance (e unico motivo per cui la regista di American Teen si dimostra la guida ideale) è l’idea di raccontare una storia d’amore che è anche una sorta di racconto di formazione tardivo: i due protagonisti hanno superato i trent’anni ma sono in qualche modo “in ritardo” sui tempi della loro generazione, ciascuno per le sue ragioni vivono e si comportano come due ventenni, sia in rapporto alle relazioni sentimentali che al lavoro che alla famiglia. Lei ha inseguito per anni un amore sbagliato, deve ancora finire l’università, si mantiene facendo la cameriera inseguendo una carriera impossibile (o quasi) in un giornalismo che le crolla intorno; lui fa un lavoro senza prospettive per un’etichetta musicale, non capisce niente delle donne, non piange per amore, e convive in un appartamento “da studente” dalle pareti sottilissime con un amico che caga con la porta aperta. Un aspetto che in magari in Italia non suonerebbe poi così strano, ma tra New York e Los Angeles è tutto un altro paio di maniche.

Il pacchetto è chiuso da un’ottima colonna sonora (in cui spicca Harold T. Wilkins dei Fanfarlo, roba che ti taglia le gambe a prescindere) e dalla coppia di comprimari formata da Charlie Day di It’s Always Sunny in Philadelphia e Jason Sudeikis del Saturday Night Live – che è tra le cose migliori del film, se non altro per i dialoghi dell’esordiente Geoff LaTulippe, ma alla fine Going the distance non sarebbe la stessa cosa senza la simpatia, l’immediata “normalità” di Drew Barrymore e Justin Long. Non sarebbe nemmeno la sua ombra.



Questa scena mi ha fatto molto ridere.

Harry Potter e i doni della morte – Parte 1, David Yates 2010

Harry Potter e i doni della morte – Parte 1 (Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1)
di David Yates, 2010

Tra tutti i registi chiamati a dirigere di volta in volta i film tratti dai libri di J.K.Rowling, David Yates è quello che suscita meno simpatie – presso il sottoscritto, senza dubbio, ma anche in generale tra i fan e gli spettatori meno accidentali. Ma i suoi non sono brutti film, e nelle sue mani la saga ha continuato a essere piuttosto piacevole pur non sollevandosi più da una sorta di grigia medietà. Credo sia soprattutto per una questione di principio: ciò che rendeva particolare la saga prima del suo arrivo era proprio il differente approccio che Columbus, Cuaron e Newell avevano portato nelle storie potteriane, facendole passare attraverso i filtri del cinema per ragazzi, della favola dark, della commedia romantica. Yates ha contribuito a riportare la serie a risultati meno sorprendenti, forse più funzionali allo sviluppo narrativo e soprattutto alle esigenze della produzione.

Tra i Potter diretti da Yates, quindi, questo è decisamente il meno anonimo, e quindi in qualche modo è il più interessante. Ma per una ragione che potrebbe trovare più delusioni che entusiasmi nel pubblico, una motivazione legata strettamente a ciò che effettivamente accade in questo lasso di tempo: poco o niente. O meglio: gran parte del film è impiegata a risolvere questioni che attengono ai rapporti tra i tre protagonisti, intenti nel frattempo a spostarsi di nascondiglio in nascondiglio. Il senso è chiaro: risolvere issue personali prima di tutto, per poi buttarsi a capofitto nel finale “vero” e nella battaglia definitiva con Voldemort. Ma la figura che ci fa questa prima parte è quella di una lunga, lunghissima premessa, piena di attese (talmente insistite da includere in una scena una sorta di autoparodia) che forse si poteva tagliuzzare qui e là e che, come fa notare giustamente Gabriele Niola, non si capisce come possa interessare una generazione (o più in generale una platea) che si autoproclama iperattiva e ipercinetica.

E se l’altra caratteristica dei film di Yates è il loro essere sempre più delle opere per iniziati, che richiedono insomma una sorta di fresca preparazione, se non sui libri almeno sui sei film precedenti, I doni della morte la porta all’estremo: personalmente ho fatto molta fatica a seguire le vicende, soprattutto il namedropping continuo, e ho trovato buffo che spesso nel film siano i personaggi stessi a fermare l’interlocutore chiedendo “eh?”, “cosa?”. E soprattutto: “chi?”. Certo, non mancano le buone invenzioni e i momenti riusciti, Yates ci mette qualche idea di regia in più, il film è tematicamente molto forte nonché molto più adulto dei precedenti (senza tirare in ballo il sangue e il ruolo prominente che ha qui la tensione sessuale tra i tre protagonisti, Azkaban era un film sulla paura, questo è un film sulla paura della morte, fate un po’ voi), e questa indole un po’ più autoriale-tra-virgolette e un po’ meno luna park credo non faccia male a nessuno, ma l’impressione è che potremo giudicare le scelte di questa prima parte soltanto quando avremo visto la seconda.

The Social Network, David Fincher 2010

The Social Network
di David Fincher, 2010

Ogni stagione esce almeno un film su cui tutti devono avere un’opinione. Spesso, ma non sempre, il film merita queste attenzioni: The Social Network, senza dubbio, è uno di questi casi. Il vantaggio di questo rumore è la maggior visibilità di un film che sicuramente non rischiava di passare inosservato ma forse di essere frainteso da buona parte del pubblico, attratta magari in sala dalla sirena di Facebook. Gli svantaggi per chi scrive di cinema per passione sono però, da una parte, l’impressione di raggiunta saturazione, persino di ridondanza, per cui qualunque cosa ci sia da dire sul film sembra già stata detta (che sia stata letta o meno), e dall’altra la difficoltà di farsi largo tra i commenti di chi si occupa di cinema una settimana all’anno, giusto perché esce un film che parla di Facebook e di Mark Zuckerberg.

L’osservazione più curiosa che ho fatto nelle ultime settimane, mentre il film cominciava a essere visto (in patria è uscito circa due mesi fa, e la circolazione di uno screener ha reso semplice la sua reperibilità in lingua originale), è invece la netta divisione tra fan di David Fincher e quelli dello sceneggiatore Aaron Sorkin – gli ultimi a difendere il ruolo di primissimo piano del geniale autore di The West Wing nella riuscita del film, i primi a sottolineare (non del tutto a torto) che in un caso come questo è tra le mani del regista, della sua “visione del mondo” e della sua “idea di cinema”, che tutto torna. Ma è proprio in questa sintesi clamorosa che ho trovato il primo aspetto davvero straordinario di questo grande film: la capacità di Fincher di appropriarsi degli estenuanti e stupefacenti dialoghi di Sorkin, gli stessi che insieme a una costruzione narrativa perfetta che unisce una struttura circolare a un uso virtuosistico delle analessi vanno a formare quella che è la miglior sceneggiatura americana dell’anno (e di molti anni a questa parte), riuscendo a domarli in una forma cinematografica intensa e poderosa.

Altro che cinema di dialoghi filmati: basti pensare a sequenze come quella della discoteca, che ti investono in faccia come un treno in corsa, e in cui è evidente l’alchimia perfetta tra la sceneggiatura, la regia, il lavoro ammirevole del direttore della fotografia Jeff Cronenweth, lo stesso di Fight Club (che si permette di rischiare poco, ma quando lo fa raggiunge risultati meravigliosi, vedasi l’incredibile sequenza della gara di canottaggio), e la spettacolare colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross. Quest’ultimo, un aspetto a cui Fincher dà sempre moltissima rilevanza. Non a caso lo score è così prominente, perché aiuta a ottenere una continua sensazione di minaccia, presagio e forse di paranoia, che va a braccetto con lo spirito del protagonista. Che Fincher sia in grado di gestire in modo sublime la scottante materia sorkiniana lo dimostra comunque fin dalla prima memorabile sequenza, autentico pezzo di bravura (il primo di una lunga lista) che riesce a dare in pochi minuti l’idea del ritmo instancabile del resto del film, e mentre i dialoghi gettano le basi tematiche e narrative dell’intera pellicola restituisce dignità alla forma spesso vituperata del campo/controcampo.

Per il resto, The Social Network è tutto ciò che avete sentito, in qualche caso qualcosa di più: tra i risultati più felici di uno dei più interessanti registi contemporanei, è una grande storia americana di solitudine e rivalsa al cui centro c’è questo Mark Zuckerberg, antieroe sociopatico e sgradevole che grazie all’interpretazione (ben oltre la mimesi) di Jesse Eisenberg catalizza in un continuo rimbalzare tra empatia e repulsione le ansie e le frustrazioni di un’intera generazione – o meglio, di un intero sistema sociale. Ma è anche una storia di amicizia virile che (come già era successo in altri film di Fincher, come per esempio Zodiac) sembra prendere sempre più in prestito toni e linguaggi da dramma romantico, con le cause milionarie al posto dei tavoli dei divorzi, trasformandosi in una bizzarra ma commovente storia d’amore cieco e impossibile. E poi, quello che hanno detto tutti: un film che inquadra il presente con una lucidità frastornante e ipnotica, nascondendo dietro il racconto di un’ossessione una disamina spietata delle dinamiche contemporanee – un film che ora osserivamo con grandissima ammirazione, persino con timore, con un misto di entusiasmo e profondo disagio emotivo, ma a cui, con tutta probabilità, se tutto va come previsto, tra qualche anno guarderemo come a un’opera che ha raccontato, e segnato, un’epoca.

The Other Guys, Adam McKay 2010

The Other Guys
di Adam McKay, 2010

Dopo Land of the Lost, avevo dato più o meno per spacciata la formula che aveva portato Will Ferrell al successo (innumerevoli epigoni compresi) e ai risultati più esilaranti della sua carriera, il cui culmine insuperato è ancora il Roy Burgundy di Anchorman: una decadenza che si poteva già intravedere nella stanchezza del divertente (e basta) Semi-Pro e che sembrava definitiva. Ma The Other Guys mi fa ricredere quasi del tutto: Ferrell si è tirato indietro in fase di sceneggiatura, ma è il “suo” film più divertente dai tempi di Talladega Nights.

Al dì là del fatto che Adam McKay è in stato di grazia e la sua sceneggiatura scritta insieme a Chris Henchy è un ricettario eccellente (e “quotabilissimo”) di situazioni comiche e dialoghi riuscitissimi, il film trae molto giovamento dall’equilibrio tra Ferrell e Mark Wahlberg, tutt’altro che una spalla. E inoltre, il personaggio di Ferrell non è più lo screanzato ignorante per cui  ha passato il testimone alla triade Jody Hill – Ben Best – Danny McBride (plus David Gordon Green): era ora che l’attore si inventasse qualcosa di nuovo e fresco. Sorpresa: funziona benissimo. Il terreno su cui si muove non è certo dei più vergini, e questo non è il primo caso recente di “parodia” (tra virgolette) del buddy movie: ma se The Other Guys non è Hot Fuzz, ecco, non è nemmeno Cop Out.

La parte più immediatamente irresistibile del film è quella iniziale, con Samuel Jackson e The Rock che fanno i duri da action movie, che si risolve in una delle morti più farsesche che io ricordi: ma McKay riesce a non bruciare tutto subito e il film, a differenza di molte commedie simili, non conosce la classica fase di stanca della parte conclusiva. E anche se la forza del film sta tutta nella riuscita delle singole soluzioni (potremmo passare ore a elencare: la madre di Eva Mendes che viene usata come tramite per messaggi amorosi tra la figlia e Ferrell, Michael Keaton che cita di continuo le TLC senza rendersene conto, il dialogo del tonno e del leone), The Other Guys non si fa divorare dall’abituale abuso del cast di caratteristi (qui pochi e buoni) e ha una sua strana e delicata coesione grazie alla quale non sembra mai di assistere a una collezione di sketch. Ma a un film ben definito, con due personaggi veri. Bene così.

Il film ha già il suo titolo italiano, I poliziotti di riserva, ma per ora non sembra esserci una data d’uscita e il sito italiano della Sony non lo include nella pagina degli sneak preview: qui sento puzza di straight-to-video. Dato che il film in italiano perderebbe praticamente tutta la sua comicità verbale, il consiglio è di recuperarlo in lingua originale: il dvd Regione 1 esce tra un mesetto, quello britannico a gennaio.

Porco Rosso, Hayao Miyazaki 1992

Porco Rosso
di Hayao Miyazaki, 1992

“Un maiale che non vola è soltanto un maiale”

Lo so, non ha molto senso mettersi a parlare di Porco Rosso nel 2010. O meglio, mi correggo: non dovrebbe averlo se non avessimo dovuto aspettare 18 anni per vedere nelle nostre sale uno dei film più amati del grandissimo regista giapponese, per tacere del fatto che l’immaginifica e fantasiosa ambientazione milanese avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto per renderlo più “smerciabile”. Ma il nostro è un paese strano, è lo stesso paese dove i film d’animazione escono solo di pomeriggio perché “è roba per bambini”.

Ma Porco Rosso, come quasi tutte le opere di Miyazaki, è un film talmente universale da essere sostanzialmente senza età. Se le due sequenze in flashback, il ricordo di un amore magico nato volando sul pelo dell’acqua e l’incontro con la morte nella forma di una scia di aeroplani fantasma, valgono da sole tutto il cinema che potete immaginare, tutto il resto è semplicemente meraviglioso – e parlo di quel tipo di rara meraviglia per cui ci si sorprende a piangere senza motivo guardando dei bozzetti in bianco e nero accompagnati dalle musiche di Hisaishi, sui titoli di coda.

Porco Rosso è un capolavoro autentico e indiscutibile come ce ne sono (stati) pochi. Ed è nelle nostre sale, oggi, ora. Prendetevi un pomeriggio e andate a godervelo. Portateci i vostri figli e i vostri nipoti, se potete. In un certo senso, sono invidioso: avere l’occasione di scoprire il cinema di Hayao Miyazaki alle scuole elementari potrebbe davvero cambiare la loro vita. Decisamente in meglio.

Dream Home / Love in a puff, Pang Ho-Cheung 2010

Per evitare di ripetere le stesse cose due volte, contravvengo per una volta all’abitudine di scrivere un post per ogni singolo film: in questo caso parliamo infatti di due film diretti dallo stesso regista hongkonghese, il bravissimo Pang Ho-Cheung, usciti nel medesimo anno. Ma che non potrebbero essere più diversi. Oppure no?

Dream Home (Wai dor lei ah yut ho)
di Pang Ho-Cheung, 2010

Una ragazza si introduce in uno stabile e fa una vera carneficina: prima ammazza il custode, poi entra in due appartamenti e uccide uno per uno gli inquilini e alcuni malcapitati. Nel frattempo, i flashback ci raccontano gradualmente la storia della protagonista, il suo rapporto con i genitori e con il lavoro, la sua ossessione per quella casa le cui finestre danno sul mare. La soluzione dell’enigma narrativo da un certo punto in poi è abbastanza chiara, ma non è quello che conta: Dream Home è uno degli slasher più duri e impressionanti degli ultimi anni, che ispirandosi ai classici del genere (giallo all’italiana incluso, complice la favolosa fotografia pop di Yu Lik-wai e la colonna sonora dell’italiano Gabriele Roberto) funziona perfettamente anche come operazione spiccatamente satirica sulla Hong Kong di oggi, iperbole violenta e sopra le righe che scopre i nervi di un’autentica crisi sociale ed economica apparentemente insanabile. Lungi quindi dall’essere una sequela di ammazzamenti fine a sé stessa, anzi – anche la cosa più divertente da raccontare di Dream Home, a parte la risoluzione finale, è senz’altro il gusto sadico con cui Pang mette in scena questi singoli omicidi, passando con facilità estrema dai dettagli più gore e spietati (l’incipit, la ragazza incinta) a contrappassi ironici ed enfatizzati (il fattone ucciso con il suo stesso bong) che alleggeriscono “a modo loro” un film di fronte al quale è sinceramente difficile tenere aperti gli occhi tutto il tempo. Alla larga i sensibiloni, quindi. Ma per tutti gli altri, è una bomba assoluta. Imperdibile.

Love in a puff (Chi ming yu chun giu)
di Pang Ho-Cheung, 2010

Dall’inizio del 2007 anche a Hong Kong è entrato in vigore il divieto di fumo nei luoghi pubblici, in modo molto simile a quanto successo due anni prima nel nostro paese – anche se apparentemente più rigoroso. Uno degli effetti più curiosi è stata la nascita di un nuovo tipo di aggregazione sociale nella città: piccoli gruppi di persone, spesso sconosciute e provenienti da diversi ambienti lavorativi, si ritrovano intorno a un posacenere per consumare cibo da asporto e l’agognata sigaretta in libertà. L’idea brillante di Pang (sarebbe un ottimo spunto anche per il nostro paese, se ci fosse un regista in grado di fare come l’hongkonghese e di non applicare etichette morali ai fumatori) è quella di far partire una storia d’amore proprio da questo pretesto narrativo: Cherie è una commessa di Sephora, Jimmy è qualche anno più giovane e lavora in un’agenzia pubblicitaria, si incontrano proprio durante una “pausa sigaretta”, e durante una lunga settimana prendono in mano le loro vite e le rivedono completamente alla luce di un amore improvviso, forse tardivo, inatteso e quasi impalpabile. Un film leggero e gradevolissimo, adorabilmente logorroico (i dialoghi sono tanti, molto onesti, divertentissimi) e interpretato stupendamente da Miriam Yeung e Shawn Yue. Sembra una cosa da poco, ma è un caso esemplare di commedia romantica, intelligente e moderna. No, non è una cosa da poco.

Con questi due film, usciti in patria a un paio di mesi di distanza l’uno dall’altro, Pang si riconferma come uno dei talenti più eclettici del cinema hongkonghese. Ma nonostante le ovvie diversità tra un horror sanguinario e un film sentimentale, non è una forzatura dire che le due opere hanno più di un punto di contatto: entrambe utilizzano le regole del gioco, in modo preciso e allo stesso tempo molto libero, per far affiorare una riflessione sulle contraddizioni della città in cui sono ambientate le sue storie, su come Hong Kong sia cambiata e continui a mutare a più di 10 anni dal cosiddetto “handover”. In tal senso, se i due film sembrano meno ambiziosi e “autoriali” di sue straordinarie opere precedenti come Exodus o Isabella, è proprio in questa commistione tra cinema di genere e analisi sociale che si trova la loro bellezza: due film indubbiamente riusciti (soprattutto l’incredibile Dream Home) ma che visti in coppia sono forse il risultato più felice di uno degli autori più interessanti, curiosi e vitali di tutto il cinema asiatico contemporaneo.

Entrambi i film sono disponibili su YesAsia in edizioni hongkonghesi: piuttosto economiche ma appartenenti alla Regione 3 dei dvd e alla Regione A dei blu-ray. In ogni caso, se non avete problemi con le zone: qui Dream Home e qui Love in a Puff in dvd, qui il primo e qui il secondo in blu-ray.

Dino De Laurentiis R.I.P.

È morto Dino De Laurentiis.

Secret Reunion, Jang Hun 2010

Secret Reunion (Ui-hyeong-je)
di Jang Hun, 2010

Lee Han-gyu è un agente della National Intelligence Service che non riesce a sventare un attentato ai danni di un parente di Kim Jung-Il, reo di aver “tradito la patria” scrivendo libri critici nei confronti del dittatore. Tra gli attentatori c’è il giovane Song Ji-won, che riesce ad allontanarsi dal luogo del delitto senza essere arrestato. Entrambi vengono rinnegati dai rispettivi governi: Han-gyu a causa della sua cocciutaggine anti-nordica in un contesto in cui le relazioni tra i due stati si fanno più morbide, e Ji-won per via del suo rifiuto di uccidere un bambino testimone del delitto. Sei anni dopo, i due si incontrano, si riconoscono a vicenda – ma entrambi convinti di non essere stati riconosciuti dall’altro.

È proprio vero che chi ha tra le mani Song Kang-ho è a metà dell’opera: l’attore protagonista di molti grandi film di registi come Park Chan-wook, Kim Ji-woon e Bong Joon-ho, offre ancora una volta una performance geniale, trovando nel 29enne Kang Dong-won un partner assolutamente ideale. Per la fortuna di Jang Hun, regista cresciuto alla corte di Kim Ki-duk ma che differisce totalmente dallo stile rarefatto del suo maestro, Song non è però l’unica freccia al suo arco in quello che è diventato il campione di incassi in patria nel 2010: Secret Reunion è infatti un thriller davvero appassionante, una storia di amicizia virile raccontata con una varietà di toni degna della migliore tradizione del cinema sudcoreano, dalla commedia – persino degli equivoci – al melodramma psicologico, dietro cui si nasconde una riflessione non banale sui rapporti tra il Sud e il Nord (senza scomodare JSA) e sui cambi di rotta e di prospettiva che questi hanno avuto negli ultimi anni.

Il finale non piacerà a tutti, suona forse come un compromesso rispetto a quanto visto fino ad allora, smorza in qualche modo l’intensità del lato più drammatico del film, ma d’altra parte rappresenta una sorta di catartica liberazione e non rovina un film bello e avvincente.

Il film è passato al Far East Film di Udine ma per ora scordatevi un’uscita italiana.

È disponibile una edizione DVD coreana: purtroppo è solo Regione 3.

Poetry, Lee Chang-dong 2010

Poetry (Shi)
di Lee Chang-dong, 2010

Se sono lontani gli anni dell’entusiasmo incontrollato nei confronti della cinematografia sudcoreana, alcuni dei migliori autori di quel periodo sono tuttora attivi e sfornano ancora film di grande bellezza. Uno di questi è senza dubbio Lee Chang-dong, ex ministro della cultura e regista di alcuni (purtroppo pochi) film strepitosi tra cui una delle più dolorose riflessioni sulla Storia del suo paese (Peppermint Candy, 2000) e l’intenso dramma Oasis – particolarmente rilevante anche perché a suo tempo fu uno dei primi grandi titoli coreani a trovare una distribuzione nel nostro paese.

Mija è una signora anziana che per mantenersi insieme al debosciato nipote a carico fa la badante a un disabile, e nel tempo libero si appassiona alla poesia frequentando un corso pomeridiano; mentre cominciano gradualmente ad arrivare i primi sintomi del morbo di Alzheimer, Mija scopre che il nipote si è reso responsabile insieme ad alcuni amici di uno stupro di gruppo che ha portato al suicidio di una ragazza. Dopo aver assistito al cinismo dei genitori dei ragazzi, pronti a pagare una cifra considerevole per evitare che i figli vengano indagati, sarà costretta a risolvere la situazione in modo definitivo, sulla propria pelle, continuando ad appuntare sul suo taccuino impressioni di una natura che sembra l’unica fuga da un mondo crudele e spietato.

Come già i titoli precedenti, compreso il bellissimo Secret Sunshine, anche Poetry è un’opera molto ambiziosa, fin dal titolo, forse non per tutti i gusti: una ballata tenue di avvicinamento alla morte che cerca di riflettere sul senso della vita, sulla memoria e sull’oblio dell’identità, ma con un approccio del tutto naturalistico e privo di sottolineature melodrammatiche e forzature (persino quando le svolte narrative sembrerebbero richiederle) che gioca tutto sulla splendida, ironica ma dolente interpretazione di Yoon Jeong-hee (star del cinema coreano degli anni ’70, assente dagli schermi da più di 15 anni) e il cui finale, misterioso e implicito, è davvero la perfetta quadratura del cerchio.

Non mi risulta che sia prevista un’uscita italiana.

L’edizione dvd coreana è un po’ cara ma è region free.

Scott Pilgrim vs. The World, Edgar Wright 2010

Scott Pilgrim vs. The World
di Edgar Wright, 2010

Certe volte è solo questione di percezione, forse di prospettiva. Per alcuni Scott Pilgrim è un film con Michael Cera, per altri è un film di Edgar Wright. La distinzione nelle aspettative è tutta lì: in chi pensa o vuole pensare che l’attore tanto vituperato, spesso ingiustamente, possa essere considerato un fattore più che marginale all’interno della terza regia di uno dei migliori registi contemporanei dopo due enormità come Shaun of the dead e Hot fuzz. Personalmente, attendevo questa sua terza regia con una trepidazione senza pari: più di Inception, più di The Social Network. Sono quindi del tutto disposto a essere tacciato di pregiudizio: ero convinto che Scott Pilgrim avesse le carte per diventare il film dell’anno. Ora l’ho visto, e penso davvero che lo sia, il film dell’anno. L’avevo già deciso?

Posto che si tratta di un film immediatamente irresistibile e di fronte al quale, sinceramente, non riesco a immaginare si possa rimanere meno che abbagliati (se proprio non si deve stare per forza a battere le manine tutto il tempo come il sottoscritto) la cosa che ho trovato davvero sbalorditiva di Scott Pilgrim è il suo cercare e trovare strade nuove. Ci si lamenta spesso (altrove) di come il cinema contemporaneo non faccia altro che rimasticare ingredienti del passato, dissotterrare malinconie, redistribuire cliché? Edgar Wright parte dagli stessi presupposti, senza dubbio, ma l’inclusione del linguaggio dei videogame e del fumetto nella pellicola è totale, trasforma Toronto nel set di un platform indie visionario e delirante, mescolando l’orgia visiva con il linguaggio testuale delle disascalie, e pescando dalla loro sintesi anche tratti del tutto originali – come un montaggio che elimina dalla narrazione qualsiasi interferenza o momento di passaggio, concentrando tutte le energie sull’essenziale e facendone uno dei film più densi che si possano immaginare, evoluzione naturale di ciò che Wright aveva già mostrato in alcuni passaggi di Hot Fuzz. Tutt’altro che una commediola postadolescenziale per indie rockers: come i precedenti di Wright, è un film quasi sperimentale. Di certo è qualcosa di completamente diverso.

Detto questo, al di là di considerazioni che meriterebbero un’analisi più compiuta, Scott Pilgrim è un film mostruosamente divertente, scritto (da Wright insieme a Michael Bacall) con un’intelligenza e un’arguzia superiori alla media, spassosissimo come una commedia e adrenalinico come un action, con un ritmo travolgente, una colonna sonora stupenda e un cast strepitoso – tra cui spiccano Kieran Culkin, Jason Schwartzman, Chris Evans, Aubrey Plaza e ovviamente la stupenda (e stupendamente “normale”) Mary Elizabeth Winstead. Menzione d’onore per Ellen Wong, perché sennò la gente se ne dimentica. Insomma, un’autentica meraviglia visiva e narrativa che fonde effetti speciali perfetti a personaggi con un’anima e un cuore pulsante, uno di quei film che riguarderesti immediatamente una volta finito, uno di quei film per i quali bisogna inventare nuove definizioni. Per quanto vale, per quel che mi riguarda, un piccolo capolavoro. Altro che pregiudizi.

Poi c’è Michael Cera, sì. E sapete che c’è? È bravissimo. Oh.

Il film esce il 19 novembre 2010, lo stesso giorno della prima parte del settimo Harry Potter. Non potevo immaginare uno slot peggiore: probabilmente sarà un flop commerciale. Fate così: se siete d’accordo con me, anche parzialmente, sul valore e sulla bellezza di questo film, cominciate già da ora a spargere la voce. Mandate i vostri amici a vederlo. Magari funziona.

American: The Bill Hicks Story, Matt Harlock e Paul Thomas 2009

American: The Bill Hicks Story
di Matt Harlock e Paul Thomas, 2009

“I don’t know what you all believe, and I don’t really care. But you have to admit that beliefs are odd. Lots of Christians wear crosses around their necks. You really think when Jesus comes back he ever wants to see a fucking cross?”

Mettiamola così: se non avete mai visto nemmeno un estratto di uno spettacolo di Bill Hicks, a questo punto, è un po’ colpa vostra. Così come è un peccato ridurre la vostra conoscenza di Hicks a “uno di quelli a cui si ispira / da cui copia Luttazzi”. Tra i maggiori meriti di diffusione culturale di siti come Youtube negli ultimi (pochi) anni c’è infatti stata senza dubbio la possibilità di mettere alla portata di tutti, anche nel nostro paese (e a volte anche in italiano, grazie al lavoro certosino dei sottotitolatori), i materiali migliori dei più grandi stand up comedian americani, autentici filosofi della cultura popolare contemporanea, che fino a qualche anno fa erano più che altro dei nomi suggestivi e spesso nominati, le cui esistenze più leggendarie potevano trovare uno spazio in qualche lungometraggio (per esempio Lenny su Lenny Bruce o Man on the moon su Andy Kaufman) ma i cui monologhi, trasmessi in patria magari da reti come la HBO, non avevano certo spazio sui canali italiani. Geni come George Carlin e Richard Pryor, ma anche come Dave Chappelle o Chris Rock, Louis C.K. o Margaret Cho – e ovviamente come Bill Hicks, il comico scomparso per un cancro al pancreas nel 1994. Aveva solo 32 anni, eppure è considerato uno dei giganti della sua categoria.

Il documentario di Harlock e Thomas però va ben oltre la collezione di estratti dai suoi spettacoli più celebri (di cui ci saremmo persino accontentati), e per gran parte della sua durata è interessato soprattutto al modo in cui il talento di Hicks è andato a braccetto con la sua tumultuosa vita personale. Grazie alla collaborazione di molti famigliari e amici del compianto comico, la sua storia viene raccontata senza tralasciare alcun dettaglio utilizzando (oltre alle musiche dello stesso Hicks) l’archivio fotografico della famiglia fin dai primi anni di età, con un montaggio geniale (anche se estenuante) che riesce a dar vita alla staticità delle immagini fotografiche con uno stile da cartoon sperimentale. Il tutto intervallato ovviamente dagli estratti della luminosa carriera di Hicks, con una quantità di materiali semi-inediti o poco visti che faranno sbavare qualunque fan, i primi filmati in 8mm ai tempi delle superiori, le prime serate quando Hicks era così giovane da dover chiedere il permesso ai suoi genitori, le esperienze mistiche con le sostanze psicotropiche. Poi, la storia di Hicks è nota ai più: la fama, i problemi con l’alcol, la decadenza professionale, la riabilitazione, il ritorno sulle scene, il successo travolgente nel Regno Unito, la malattia e le ultime settimane di vita, ma anche i problemi con la censura – come quando la CBS si rifiutò di mandare in onda l’intero monologo registrato per lo show di David Letterman: sarebbe stata la sua ultima apparizione in tv, è andato in onda soltanto un anno fa, con le scuse tardive dello stesso Letterman. Ne esce il ritratto profondamente umano di un uomo mosso da un’ossessione e trascinato nel baratro dal suo stesso talento. Un abisso da cui è riuscito a uscire, anche se per poco – giusto in tempo per regalarci alcuni dei monologhi più lucidi, cattivi, sinceri e divertenti che vi possano capitare sotto mano, ancora oggi. Un’eredità pesante quanto preziosa a cui il film rende omaggio: forse tendendo un po’ verso l’agiografia, ma restituendo a Hicks il pieno merito di aver smitizzato e dissezionato le contraddizioni della società americana e occidentale di fine secolo come pochissimi altri.

L’edizione inglese è già disponibile in DVD e in Blu-ray.

L’illusionista, Sylvain Chomet 2010

L’illusionista (L’illusionniste)
di Sylvain Chomet, 2010

Tratto da un soggetto che Jacques Tati non riuscì (o forse non volle) mai a trasformare in film, il nuovo lungometraggio di Sylvain Chomet più che nell’intento di riportare nelle sale lo spirito dell’autore francese (nonostante l’omaggio palese non finisca nell’adattamento ma arrivi addirittura a un paradossale, buffo “incontro” tra il protagonista e il Tati dello schermo) riesce in quello di riportare tra il pubblico un’idea di cinema (d’animazione, e non solo) che forse si è perduta – allo stesso modo in cui, raccontano con chiarezza le vicende di Tatischeff, è svanita tra le platee d’Europa la fascinazione per i trucchi e per i prestigi del mago. Una sensazione di rottura trasparente e immediata: non a caso pochissimi secondi dopo l’inizio del film, un bambino dietro di me ha chiesto ai suoi genitori a voce molto alta “ma non parlano?”. Con un tono tendenzialmente scocciato, anche se l’intuizione era corretta e lui se n’è accorto prima di voi: la differenza con il cinema d’animazione a cui sono/siamo abituati è evidente, e dopotutto lo scarto con la malinconia nei confronti del passato è al centro del film. La fortuna, in questo caso, è non aver sentito più quel bambino per tutto il resto del film: mi piace pensare che sia stato conquistato dalla capacità di Chomet di raccontare una storia di solitudine e affetto, pur così dolente nei suoi ultimi rintocchi, con un’ironia d’altri tempi, un gusto spiccato per la costruzione delle scene e per la caratterizzazione di contorno (i miei preferiti: i tre gemelli iperattivi) e un desiderio violento di raccontare per immagini che nel cinema europeo ha ormai pochissimi profeti. “I maghi non esistono”, sentenzia Tatischeff nello sconcertante e addolorato finale, ma Chomet la sua piccola magia se l’è portata a casa.

Il film è nelle sale da una settimana ma forse non ve n’eravate accorti. Accorgetevi.

appendice al pube: le altre serie tv dell’autunno

[el pube è un pilota / fall 2010 edition: un'appendice]
[piccola guida non esaustiva alle serie tv che non ci stavano dall'altra parte]

A un mese dall’ultimo episodio, tappiamo i buchi.

Quest’anno The Walking Dead (AMC) era il Messia degli appassionati di serie tv. Non solo per le firme coinvolte (il regista Frank Darabont) e non solo perché è tratto da una storia a fumetti dalla straordinaria fama, ma perché questa serie per AMC è la quadratura del cerchio. Dopo tre drama come Mad Men, Breaking Bad Rubicon, la rete è diventata per molti la beniamina assoluta nonché il contenitore della migliore televisione possibile – ruolo che fino a poco tempo fa era occupato indiscutibilmente da HBO. Mancava solo l’approccio al genere, e così sono arrivati gli zombi: inutile dire che, pilot alla mano, la missione è compiuta. Forse è un po’ presto per decidere se The Walking Dead sia la nuova serie americana più bella della stagione, ma come già Boardwalk Empire (by the way: che roba grossa, un episodio più bello dell’altro) anche lei punta a giocare in un campionato tutto suo. Insomma, vedremo come procede, ma le premesse sono ben più che ottime.

Nota: a quanto pare, Fox Italia ha mandato in onda una versione del pilot più corta di una ventina di minuti. Io ve l’ho detto.

Il biglietto da visita di Downton Abbey (ITV), dalla distanza, non era dei più eccitanti: un period drama ambientato in una villa della provincia inglese negli anni ’10 e trasmesso da ITV con grande dispendio di mezzi non suona come il massimo della vita, me ne rendo conto, per chi è abituato a True Blood e Community. Ma lo dico per voi: fate uno sforzo di volontà e recuperatelo. Se volete una ragione: è scritto da Julian Fellowes, sceneggiatore premio Oscar per Gosford Park. Se ne volete una più concreta: è davvero una delle più belle sorprese dell’anno, con una flotta di personaggi e interpreti immediatamente irresistibili e una scrittura e una messa in scena ineccepibili. E c’è Maggie Smith che fa la vecchia arguta. Imperdibile. Peccato che siano solo sette episodi: l’ultimo dei quali va in onda il 7 novembre. Ma nel 2011 arriva la seconda stagione.

Quando ho cominciato a vedere Single Father (BBC One) ho pensato: chi potrebbe interpretare in Italia il ruolo di David Tennant? Forse Emilio Solfrizzi, o Fabio Insinna? Sì, perché questa miniserie della BBC ambientata a Glasgow, il cui protagonista è un fotografo con quattro figli (e mezza) che perde improvvisamente la compagna in un incidente stradale, è un prodotto che non sfigurerebbe nel palinsesto di Raiuno: la differenza è che questa è scritta, girata e soprattutto interpretata con una cura che ci sogniamo. Ma è più probabilmente una questione di alchimie: non so come abbiano fatto, ma dei quattro episodi che la compongono il primo e l’ultimo si passano a piangere come agnellini – e alla fine, nel giro di sole quattro ore, ci si è affezionati ai personaggi con un’intensità che molte serie impiegano intere stagioni a ottenere. Davvero bello. Certo, potrebbe non essere la vostra fetta di torta – oppure potrebbe farvi piangere come agnellini. Per chiunque segua Doctor Who tutto questo è fiato sprecato: vi ho già convinti quando ho detto “David Tennant”.

Qualcuno guarda Lost Girl (Showcase)? Sono l’unico? Fatemi compagnia. Non seguo in modo attento la tv canadese, e ho iniziato a vedere questa serie – la cui protagonista è una tizia di nome Bo che scopre di essere una succuba (!) e anche che una pletora di esseri mitologici di diverse culture vivono effettivamente in mezzo a noi (!) – immaginando fosse un altro guilty pleasure da aggiungere alla lista ed eventualmente da lasciare a metà strada. E invece questa specie di via di mezzo tra Buffy, True Blood e un sacco di altre cose, con un 80% di trama verticale e un residuo orizzontale su Bo che cerca di scoprire il mistero delle sue origini, è un gran spasso: è scritta in modo divertito e divertente, si concede libertà che i network americani (non via cavo) generalmente eviterebbero, e possiede uno spirito di libertà cazzona e anarcoide davvero rinfrescante. Il più grande ostacolo da principio è il cast: l’attrice protagonista Anna Silk non è il massimo della simpatia (e assomiglia troppo a Mary Louise-Parker) e nemmeno a Kristen “Chris Martin” Holden-Reid offriresti una cena. La migliore della compagnia è Ksenia Solo, anche se è un po’ impallata sul ruolo di spalla comica e sul look da darkettona con la frangia. Ma fa lo stesso: dopo tre o quattro episodi non se ne può più fare a meno.

Me me n’ero dimenticato l’altra volta, e credo di essere l’unico o quasi ad averla vista qui in Italia. Ed è un peccato. La serie creata e interpretata dal bravissimo Tom Hollander si intitola Rev. (BBC Two), punto incluso, e il protagonista è il parroco onesto e simpatico di una piccola diocesi anglicana alla periferia di Londra che si deve confrontare con gli aspetti più burocratici, politici ed economici della sua professione, con i fedeli che scarseggiano, con l’arrivismo dei “colleghi” e dei “superiori”, con la competizione delle altre confessioni, e ovviamente con la sua vita privata e famigliare. Divertentissimo e molto intelligente. Sei episodi da mezz’ora andati in onda dalla fine di giugno all’inizio di agosto: ci vuole poco, ma ne vale la pena.

Il personaggio che dà il nome a The Increasingly Poor Decisions of Todd Margaret (IFC) è americano, ma la serie è britannica al 100%: sei episodi il cui ultimo va in onda proprio oggi 5 novembre. Todd Margaret (intepretato da David Cross) è un precario imbranato che lavora in una multinazionale americana e che, per un errore dovuto alla stupidità del suo nuovo capo (ovvero Will Arnett: curiosamente i due recitano insieme anche in un’altra nuova serie di quest’anno, Running Wilde), viene spedito a Londra a dirigere l’ufficio inglese senza avere la minima competenza. Andrà tutto nel peggiore dei modi fin da subito. Normale che la comicità sia basata su reazioni a catena che travolgono la vita del povero Margaret, vittima della propria inettitudine, ma almeno nei primi due episodi la sensazione di fastidio e imbarazzo supera di gran lunga il divertimento. Non è certo da buttare, Cross è bravo e il suo stile si adatta bene all’umorismo british, ma non so se recupererò gli altri quattro.

La scomparsa di Alice Creed, J Blakeson 2009

La scomparsa di Alice Creed (The Disappearance of Alice Creed)
J Blakeson, 2009

Il titolo dice tutto: una ragazza di nome Alice Creed viene rapita. Il film è la storia del suo rapimento. I suoi due rapitori si chiamano Danny e Vic. Il film inizia con la preparazione da parte di Danny e Vic dell’appartamento che ospiterà Alice Creed. Il padre di Alice Creed è molto ricco. Danny e Vic no. Da lì in poi, vi lascio soli: la cosa migliore è non saperne nulla, come sempre accade per i film basati in qualche modo sui colpi di scena. E di questi ultimi, The Disappearance of Alice Creed fa un vero vanto, ma soprattutto il sostegno dell’intera narrazione: come si fa a tenere in piedi un film di 100 minuti ambientato quasi interamente in un bilocale con esclusivamente tre personaggi? Così, dopo una ventina di minuti c’è la prima sorpresa, che rimescola un po’ le carte del gioco. E dopo una quarantina di minuti, ce n’è una per cui sembra di dover buttare via l’intero mazzo. Da lì in poi, il film è un continuo andirivieni di ribaltamenti prospettici in cui il confine tra verità e menzogna si assottiglia sempre di più, ma il film funziona alla perfezione proprio perché le sue svolte sono elementi di un meccanismo che non nega mai se stesso né prende in giro o schiaffeggia lo spettatore. Tesissimo, diretto con talento dall’esordiente J Blakeson (un nome da tenere d’occhio) e forte di un notevole trio d’attori (tra cui una Gemma Arterton “normalizzata”), The Disappearance of Alice Creed è davvero una cosetta sorprendente.

Su tutto il resto, ne riparliamo quando l’avete visto.

Il film è nel listino Mikado e potrebbe uscire direttamente in dvd (?).

Se avete fretta o preferite le edizioni britanniche, è già uscito in dvd e blu-ray.

Nota: il trailer è inevitabilmente un po’ spoileroso, se volete affrontare il film a mente vuota. Io non ci avevo capito comunque una mazza, però ecco, siete avvertiti.

Gainsbourg (Vie héroïque), Joann Sfar 2010

Gainsbourg (Vie héroïque)
di Joann Sfar, 2010

L’aspetto più originale del biopic su Serge Gainsbourg che Joann Sfar ha tratto proprio da una sua opera a fumetti è senza dubbio quello più debitore del linguaggio da cui è adattato: il grande cantante francese viene accompagnato (o ossessionato) per tutta la sua vita da una sorta di doppio da lui creato durante l’infanzia e chiamato La Gueule (dietro a cui si nasconde il solito Doug Jones). Tridimensionalizzando La Gueule sullo schermo, idea tanto folle quanto efficace, Sfar riesce a dare per un po’ al suo film un senso e una consistenza quasi cartoonesca, alleggerendo il materiale “pesante” di un’infanzia minacciata dall’occupazione nazista, ma reiterare questa idea senza varianti per le oltre due ore del film mostra presto la corda. E il piccolo inganno che si cela sotto di essa.

Il problema maggiore di Gainsbourg è insomma che, una volta messa da parte la trovata iperbolica e surrealista, il film cade immediatamente in quasi tutti i tranelli del film biografico musicale, dalle altalene del maledettismo al gioco mortifero e fine a se stesso delle somiglianze tra il cast e i personaggi interpretati – anche se la spaventosa performance mimetica di Eric Elmosnino è senz’altro da applaudire. Ancora di più, finisce nel trappolone dell’accumulo episodico di singoli sprazzi della vita dell’artista, separati peraltro da improvvise ellissi lunghe anche mesi o anni. E alla fine del film conosciamo un sacco di aneddoti su Serge Gainsbourg, ma possiamo davvero dire di aver conosciuto Serge Gainsbourg?

Non mi risulta prevista un’uscita italiana. Se masticate il francese, potete acquistare il dvd francese.

The American, Anton Corbijn 2010

The American
di Anton Corbijn, 2010

Poteva suscitare un certo sconforto che il secondo film di Corbijn dopo Control, che era così affine alla sua carriera nei decenni precedenti, fosse qualcosa di così differente: un thriller ambientato in Italia con un assassino interpretato da George Clooney? Eppure, The American è un esperimento molto interessante: prende il fascino di tutti gli elementi che lo compongono e svolge una progressiva smitizzazione. Primo, la figura romantica del killer professionista, il cui biglietto da visita qui (nell’incipit nevoso del film) è invece ammazzare l’amata quando la copertura salta; secondo, lo stesso Clooney, tutt’altro che l’irresistibile gentleman degli Ocean’s; terzo, la location “esotica”: siamo in Italia ma non siamo certo a Firenze, il piccolo borgo abruzzese è molto bello a vedersi ma è spoglio, vuoto e privo del solito insieme di cliché legati all’ambientazione italiana. Rimanendo sull’argomento: di questi cliché generalmente solo noi italiani ci accorgiamo, ma almeno in questo film ci viene risparmiato quel noto senso di imbarazzo causato dal fraintendimento delle nostre abitudini da parte delle produzioni americane. C’è da dire che gli abitanti del borgo a volte parlano come automi senz’anima o come meri involucri, ma credo faccia parte del gioco: l’Abruzzo di The American è più un luogo dell’anima, un limbo beckettiano, che un paese su una mappa – un posto dove attendere un finale, che è inevitabile e annunciato. E il film si muove nella stessa direzione: è un thriller anticlimatico, silenzioso, decisamente inusuale per una produzione americana (anche nel budget di circa 20 milioni) e a suo modo garbatamente inospitale nei confronti del pubblico, visivamente un po’ deludente, piatto e poco personale – ma si fa perdonare con un finale tristissimo e perfetto.