2010

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La prima cosa bella, Paolo Virzì 2010

La prima cosa bella
di Paolo Virzì, 2010

L’anno del cinema italiano non poteva iniziare sotto un segno migliore: ma il nuovo film di Paolo Virzì è molto più che un buon auspicio: la storia dolce e amara di una madre bellissima e travolgente, di un passato burrascoso rivissuto attraverso gli occhi e la memoria di un figlio triste a cui "ha rovinato la vita", di una città da cui fuggire ma con cui prima o poi si deve tornare a fare i conti, la storia di un padre, di un fratello e di una sorella e di una famiglia, la storia, di disarmante sincerità, di un amore scontato ma grande come un’intera vita, di una sera, di una fotografia e di una canzone. E molto più banalmente, una delle opere più felici del regista toscano.

Il mio problema, al momento, è che la visione di La prima cosa bella è stata una delle esperienze più coinvolgenti e commoventi della mia recente vita di spettatore. Forse è un problema mio, anzi, lo è sicuramente – ma resta che ho qualche problema a razionalizzare, a spiegarvi perché il film è imperdibile, semplice eppure stupefacente, perché Paolo Virzì e Francesco Bruni non sono mai stati così in forma, perché sono gli eredi più veri e profondi della miglior commedia all’italiana, del mondo che la sua lente deformante e spietata rende ancora più bello e toccante, oppure perché Micaela Ramazzotti è sempre più sorprendente o perché a Stefania Sandrelli voglio bene come se fosse una di famiglia.

Fidatevi e basta.

Avatar, James Cameron 2009

Avatar
di James Cameron, 2009

Sono già pronto. Da sabato scorso, quando ho visto il film, mi sono preparato a tutto: so già perfettamente cosa sentirò e leggerò da domani in avanti, durante i pasti, sui mezzi pubblici, al bar, nei vostri status di Facebook. Leggerò e sentirò che il film è semplicistico, banale e scontato, che è "un’americanata", che la storia non è all’altezza degli effetti speciali, che gli effetti speciali sono belli ma che film è "una cazzata".

Lasciatevi dire una cosa: PFFT. Non avrei altro da aggiungere su questo argomento: se dopo quasi tre ore di questo spettacolo allucinante e spudorato, con i vostri occhialetti 3D sugli occhi e una poltrona bella comoda, uno schermo grande e senza vicini di posto che vi portano fuori strada sbuffando, se dopo questo venite a dirmi che la storia però è la solita solfa, concedetemi di pensare che sia anche un po’ un problema vostro. PFFT.

Che poi, lo sapete che c’è? Che questa benedetta "storia", con cui molta gente si sta mostrando tanto ossessionata, "il contenuto", non è una cosa così semplice. Anzi. La battaglia che mette in campo il film non è semplicemente quella tra buoni e cattivi sullo sfondo di un amore impossibile: gli ultimi hanno il volto di un’umanità sconfitta, una razza in fuga, dichiaratamente vicina all’estinzione, probabilmente per sua stessa mano, una cultura morente perché ha dimenticato il rapporto tra il corpo e il mondo. E sì, lo so bene, che ho scritto "corpo", e sto per scriverlo di nuovo. E al di là dei più semplici e meno sottili richiami e ricorsi storici, le opposizioni del film sono palesemente costruite su quello: da una parte c’è l’ossessione umana dell’alterità, con gli avatar alieni e i robot-marionetta, e dall’altra un popolo che tramite connessioni organiche è un tutt’uno con il mondo, una sintesi tra cultura e natura. Altro che superficiale sfoggio di effetti speciali.

D’altra parte, poi, c’è tutta la creazione di un mondo e delle sue leggi, che Cameron affronta con una ybris a tanto così dal delirio di onnipotenza, chiedendo allo spettatore di abdicare alla propria immaginazione per dedicarsi incondizionatamente alla sua, ficcando dentro l’atmosfera di Pandora i sogni e gli incubi di una dozzina d’anni, con una foga incontrollabile e un entusiasmo compositivo che lascia senza fiato. E scegliendo come veicolo narrativo di questo suo mondo una vicenda che, più che "banale", definirei piuttosto archetipica (oltre che profondamente cameroniana) ma con caratteri fiabeschi che si adattano alla perfezione alle ambientazioni del film, tanto sognanti quanto terrificanti.

Ma se anche fosse, se anche avesse ragione chi dice che il film è scritto in fretta e furia perché l’importante sono le battaglie, le fughe, i voli e le esplosioni, sinceramente: chi se ne frega. Primo, perché l’evoluzione tecnologica sarebbe già di per sé portatrice di significato, soprattutto in un film così, che al di sotto della meraviglia visiva fa pulsare una riflessione spietata, disillusa e crudele del futuro del genere umano e (ancora una volta) delle sue preziose macchine – così come lo sono, portatori di significato, le visioni, i sogni, e le passioni che prendono vita nell’incarnato blu e negli incredibili occhi (finalmente!) del popolo Na’vi.

Ma ancora di più, perché Avatar è prima di tutto uno spettacolo sconvolgente ed emozionante, un film che stai a guardare dall’inizio alla fine con gli occhi e la bocca e il cuore spalancati, sognando di trasferirti tra le foreste di Pandora, sognando di volare, di volare a cavallo di draghi multicolore dannazione!, sognando di fonderti con la natura, con le maledette piante!, di sentire pulsare dentro il tuo corpo le voci dei tuoi antenati, dei tuoi simili, di tutti i popoli a venire. Una cosa così.

Ti stramo, Pino Insegno e Gianluca Sodaro 2008

Ti stramo
di Pino Insegno e Gianluca Sodaro, 2008

Una volta ogni tanto mi piace mettermi a difendere l’indifendibile, con il rischio che un appoggio relativo al sistema venga scambiato per una convalida entusiasta e assoluta: pazienza, questa non è la prima né sarà l’ultima volta che mi trovo a fare l’avvocato del diavolo. Ho una pellaccia.

Perché sono sicuro che state pensando che a un film diretto da Pino Insegno, presenza malefica e detestabile della televisione italiana, oltre che tra i più orgogliosi rappresentanti della lobby dei doppiatori, oltre che membro della terribile Premiata Ditta che al cinema ci provò già nel 1995 con il terribile L’assassino è quello con le scarpe gialle, non dovrebbe essere nemmeno concessa dignità di post. E perché mai? Mettiamo da parte gli atteggiamenti snob e concentriamoci sulle intenzioni e, ex post, sui risultati.

Le prime sono quantomeno rispettabili, se non condivisibili: le parodie demenziali di film, generi o filoni, nel cinema americano hanno una lunga tradizione, ma in Italia sono praticate poco, spesso malamente, soprattutto negli ultimi decenni – dopo aver fatto la fortuna, a modo loro, di star come Totò o Franchi e Ingrassia. L’intento dei due registi e della sceneggiatrice Francesca Draghetti (anche lei della Premiata Ditta: la meno insopportabile delle due) è quindi quella di fare un film italiano che si rifaccia in tutto e per tutto al linguaggio degli spoof americani, un’operazione simile a quella che Ezio Greggio compì nel 1994 con Il silenzio dei prosciutti rifacendosi al suo amico e mentore Mel Brooks.

Ma laddove Greggio omaggiava alcuni suoi film del cuore scomodando un cast di caratteristi statunitensi, il bersaglio di Insegno e Sodaro è tutto italiano, ed è – ovviamente – il cinema adolescenziale portato al successo da autori come Volfango de Biasi, Federico Moccia e Fausto Brizzi: il sottotitolo del film, Ho voglia di un’ultima notte da manuale prima di tre baci sopra il cielo, non lascia certo molti dubbi. E che dire, oh, perlomeno abbiamo un nemico in comune: alla fine provo più antipatia per quel tipo di cinema che per l’intenzione di fare un film demenziale che lo sfotta – seppur bonariamente, amabilmente, senza avere la pretesa che lasci il benché minimo graffietto sulla fiancata di un sistema che vale milioni di euro.

E come è andata, insomma? Chiaro: non è certo così come non poteva essere un lavoro di fino, né si tratta un’operazione particolarmente raffinata. Va bene, d’accordo, il film è una sciocchezza e gli attori (tranne Ughetta D’Onorascenzo, che interpreta Didi) sono tutti dei cani da galera: e questo potevate capirlo da soli. Ma forte del fatto di essersi costruito addosso una delle aspettative più basse che la storia del cinema italiano recente ricordi, Ti stramo in realtà fa molti più sforzi del previsto, e pur non riuscendoci sempre perché alcuni personaggi sono davvero improponibili e imbarazzanti (la sorellina cicciona e ninfomane, il dj napoletano), azzecca un numero decente di gag, a volte spingendo sul tasto dell’assurdo (la gag dell’idrante) o dell’idiota (la gag del delfino), altre volte rubacchiando qua e là dai classici del genere, e finisce per far ridere più di quanto io sia disposto ad ammettere in questa sede.

Siamo lontanissimi dalle opere migliori dei fratelli Zucker e di Jim Abrahms, e grazie al cazzo: ma Ti stramo ha molta più dignità dei film con cui Jason Friedberg e Aaron Seltzer si sono arricchiti in questi anni.

No, non mi hanno pagato.

Primer, Shane Carruth 2004

Primer
di Shane Carruth, 2004

E’ bene fare una precisazione: se non avessi avuto a disposizione il tasto "pausa" e sotto gli occhi una sinossi dettagliata del film da seguire passo passo, non credo che sarei riuscito a capire granché di quel che accade in questo film, soprattutto nei primi e negli ultimi 20 minuti. In verità, anche con questi aiuti non sono certo di avere compreso totalmente la struttura temporale di Primer.

Ma questo non fa che aumentare il fascino di un film piccolo ma a suo modo estremo nell’applicare la sua idea di partenza: quella di un film sul viaggio nel tempo che non scenda mai a patti con lo spettatore ma piuttosto con la realtà e la scienza, che non presenti insomma soluzioni condiscendenti nel dispiegarsi del paradosso. Insomma, il nucleo del film è questo: se qualcuno inventasse davvero un modo per viaggiare nel tempo (a) lo farebbe per sbaglio (b) farebbe uso più ingegneria che filosofia, più cinismo che avventura e (c) farebbe un gran macello.

Soltanto un ingegnere matematico come Carruth, al suo esordio, potrebbe aver pensato di realizzare qualcosa del genere, un film sul viaggio nel tempo così anticlimatico e così complesso – ma anche così affascinante: Primer è un’opera che mette alla prova il cervello dello spettatore, che non lascia la possibilità di distrarci un minuto e che lascia in bocca una sensazione di angoscia, di mutazione, di disillusa disfatta, anche senza bisogno comprendere tutti i passaggi – anche perché, dopo una visione sola, è una bella sfida.

Ma non c’è solo questo: c’è anche una messa in scena calibrata, talentuosa e inquietante, che sa utilizzare le luci e i colori in senso davvero espressivo. E al di sotto del caos temporale, una storia di ambizione e ybris che lascia di sasso. In ogni caso, massimo rispetto a Carruth per aver realizzato tutto ciò, di fatto, con solo 7 mila dollari e un paio di settimane di riprese, scrivendo, dirigendo e interpretando il ruolo di protagonista – anche se poi ha passato due anni della sua vita a montarlo.

Primer fece innamorare molti al Sundance, qualche anno fa. Ora il pubblico, qui presente, richiederebbe a gran voce a Carruth un’opera seconda. Stiamo pronti col bigino.

Il film non è mai uscito in Italia, se volete il dvd uk costa una decina di euro.

Eric Rohmer R.I.P.

[adieu]

È morto Éric Rohmer. Aveva 89 anni.

Big fan, Robert D. Siegel 2009

Big fan
di Robert D. Siegel, 2009

Tra i film accolti più calorosamente nell’edizione 2009 del Sundance Film Festival c’è stato sicuramente l’esordio alla regia di Robert D. Siegel, che si è fatto le ossa come redattore del celebre sito satirico The Onion per poi scrivere niente meno che la sceneggiatura di The Wrestler. Ma se c’è un motivo per cui il film ha ottenuto l’attenzione dei media, soprattutto sulla rete e nei blog specializzati, è il protagonista Patton Oswalt.

Da noi è quasi del tutto sconosciuto, ma Oswalt è uno dei più bravi e applauditi stand-up comedian della scena alternativa americana già dagli anni ’90, e negli ultimi anni è uscito definitivamente allo scoperto anche presso il grande pubblico, prima con un ruolo fisso nella lunga sit-com King of the queens (comunque inedita in Italia), poi grazie al doppiaggio di Remi nell’edizione originale di Ratatouille, e ultimamente in diverse serie tv molto popolari tra cui United States of Tara e Dollhouse. Quella di Big Fan era una scommessa non da poco, se si ha presente il personaggio: incentrare sulla fisicità dell’attore una storia drammatica di solitudine e alienazione sociale.

Paul Aufiero è un parcheggiatore quasi 40enne, vive ancora con la madre, e nella vita ha un solo interesse e una sola ossessione: i New York Giants. Una sera incontra in un locale il suo eroe. Che lo massacra di botte e lo manda all’ospedale. L’apporto di Oswalt, che interpreta il protagonista con un’intensità e insieme un’ironia sconvolgenti, è stato ben più che determinante per il film, e ha permesso a Siegel di muoversi agilmente in due direzioni: la prima è il ritratto di un tifoso americano ma soprattutto quello, cinico e caricaturale, dell’imbarazzante fauna di Staten Island che gli gira intorno; la seconda è la tesissima discesa all’inferno di Paul fino all’incontro con la sua nemesi, un tifoso dei Philadelphia Eagles.

Questo misto di esasperata tensione à la Taxi driver e di soffocata comicità beffarda si può confrontare facilmente con Observe and report, anche per la sfida al typecasting del suo protagonista. E anche se il film di Jody Hill è ben più compiuto e crudele di questo, anche Big fan rientra senza dubbio tra i film indipendenti americani più stimolanti, bizzarri e squilibrati dell’anno appena trascorso.
 

Dubito che il film abbia la benché minima intenzione di uscire in Italia. Il DVD (USA-Regione1) esce il 12 gennaio. Fate i vostri conti.

Drillbit Taylor, Steven Brill 2009

Drillbit Taylor
di Steven Brill, 2008

I numi tutelari di questo film sono principalmente due: il primo è il compianto John Hughes, da cui nasce, secondo i credits, l’idea dei tre geek tormentati tra i corridoi delle superiori che decidono di assumere un barbone come guardia del corpo. Il secondo, più diretto e ancor più decisivo, è la sublime serie tv Freaks and geeks: andata in onda una decina di anni fa (ma mai sbarcata in Italia) la serie creata da Paul Feig e prodotta da Judd Apatow, ambientata in una high school del Michigan nel 1981 e trombata dal network dopo una sola bellissima stagione, raccoglieva proprio l’eredità di Hughes adattandola ai tempi e con un cast di future star (James Franco, Seth Rogen, Jason Segel), e ha rappresentato il vero terreno fertile sui cui è cresciuta la commedia americana degli ultimi anni.

In questo film Apatow infatti produce, Seth Rogen è co-autore della sceneggiatura, e i tre ragazzini protagonisti, con le dovute varianti del caso, sembrano un rip-off assai meno riuscito del trio di irresistibili freshman della serie, Sam Neal e Bill. Ma non c’è dubbio che rispetto agli altri due bellissimi script firmati da Rogen per il cinema, Superbad e Pineapple express, qui i risultati siano diversi. Forse perché il target è decisamente più basso (Drillbit Taylor è sostanzialente la versione tween di un prodotto di Apatow) ma probabilmente anche per demerito di Brill, amico di lunga data di Apatow e di Adam Sandler, che non mostra particolare talento né interesse per la messa in scena. E ancora di più perché, tolto Owen Wilson e Danny McBride, sufficientemente spassosi, il cast fa pena: senza un cast come si deve, è difficile azzeccare un film del genere. E infatti.

Niente di che, insomma. Ma almeno non fa piangere sangue come Anno uno e qualche risata la tira via.

Sherlock Holmes, Guy Ritchie 2009

Sherlock Holmes
di Guy Ritchie, 2009

Trovo che sia abbastanza sciocco che si possa andare a vedere un film come Sherlock Holmes di Guy Ritchie per poi indignarsi (o soltanto per potersi indignare) del fatto che il personaggio di Arthur Conan Doyle non risponda alle proprie aspettative o all’idea che ci si è fatti, nel tempo, di questo personaggio. Primo, perché è chiaro il film risponderà solo e unicamente alla visione del testo originale da parte dell’autore. Secondo, perché è una capricciosa perdita di tempo: se pensate che il film possa ferire il vostro immaginario state a casa vostra, giusto? Il discorso ovviamente si applica a una serie infinita di testi culturalmente rilevanti, per esempio i libri di Tolkien o gli eroi della Marvel.

Detto questo, in realtà, ho trovato lo Sherlock Holmes di Ritchie assai più conforme alla mia idea di Holmes rispetto a quel che mi aspettassi – presuntuoso, antipatico e (solo?) ubriacone, mena le mani come un professionista, lavora di deduzione, possiede il talento (la cui rappresentazione filmica è tra i punti di diamante del film: Sherlock Holmes, a modo suo, è un time traveler) di vedere il mondo come collezione di elementi e non solo come flusso. E alla fine il regista si mette un po’ in secondo piano, soprattutto rispetto ai suoi film passati, mantenendo del suo stile soprattutto lo spirito un po’ goliardico e cazzone, mettendo da parte deviazioni metafisiche (presenti in Revolver ma, tra le righe, pure in Rocknrolla) e lasciando stavolta più spazio alla crew tecnica: in Sherlock Holmes hanno una rilevanza impressionante le (assolutamente splendide) scenografie e i costumi che con piglio steampunk ricreano una Londra elegante e fangosa, una strepitosa città-cantiere dove si muovono cupi complotti all’ordine costituito.

Ovviamente la mano di Ritchie si fa sentire, senza dubbio nel montaggio delle (ottime) scene d’azione, tra cui spicca l’eccezionale scena in slow-motion dell’esplosione, ma soprattutto nella direzione sopra le righe e quasi cartoonesca degli attori: con una coppia come Robert Downey Jr. e Jude Law ha gioco facile. E qui interviene uno dei fattori più interessanti del film, così come uno dei più risaputi (e chiacchierati): come può svilupparsi la trattazione della coppia Holmes-Watson ai tempi del "bromance"? Il film dà una sua risposta, alquanto seducente, ma mantenendo un registro scherzoso che permette di non prendersi mai sul serio – ammiccando, semmai, giusto a chi vuol sentire.

Un mero divertissement, siamo d’accordo, ma di quelli implacabilmente irresistibili.

Friday Prejudice #202

[fuck yeah tony jaa]

Pim pum pam, il nuovo episodio di Friday Prejudice.

The invention of lying, Ricky Gervais e Matthew Robinson 2009

The invention of lying
di Ricky Gervais e Matthew Robinson, 2009

Non è una gran sorpresa che questo film sia costruito su un’idea brillante (riassumendo: l’umanità non ha sviluppato la capacità di mentire, finché un timido e vessato impiegato non "inventa la bugia") anche perché è una considerazione che poteva essere fatta a priori, leggendo una qualunque sinossi. La vera sorpresa sta nel modo del tutto personale in cui Gervais e Robinson applicano questo ribaltamento.

The invention of lying infatti, forse a causa dell’invalicabile "britannicità" del suo protagonista e co-regista, chissà, è un film ancora più strano e avulso dal sistema della commedia americana di quanto il suo bizzarro soggetto possa far credere – non tanto per il tema affrontato ma soprattutto per il procedimento sbilanciato, quasi brutale, con cui il tema viene sviscerato. Soprattutto nella lunghissima prima parte, costruita quasi unicamente su estenuanti dialoghi (ovviamente privi di menzogne) che insistono sul contesto più che sulla narrazione rasentando l’esercizio di stile, e che pur giocando ad armi impari con la resistenza dello spettatore, sono diverse spanne sopra la media della commedia odierna.

Nonostante l’evidente "povertà" del linguaggio cinematografico, ridotto davvero all’osso, forse per letterale incapacità o forse per lasciare più spazio alla sceneggiatura e al lavoro degli attori, qualche artificio sinceramente un po’ facilone (perché la voce fuori campo omnisciente di Gervais nell’incipit?), e qualche colpo a vuoto nella seconda metà, una volta superata la svolta narrativa che da commedia surreale trasforma il film in una più prevedibile ma ficcante satira religiosa, non sminuiscono l’ammirazione per la bravura di Ricky Gervais nel sapersi districare su terreni differenti dai suoi successi televisivi – in attesa che impari davvero a fare il regista, quasi tutto il resto è da amare alla follia.

Ovviamente, se non vi piace Ricky Gervais, statene tranquillamente alla larga.

Il film non ha ancora una distribuzione italiana.

Whip it, Drew Barrymore 2009

Whip it
di Drew Barrymore, 2009

Certe volte la capacità di adattarsi a un canone senza farsi divorare da esso mi sa colpire di più della ricerca dell’originalità a tutti i costi. Oppure, per meglio dire, l’aderenza a un modello prestabilito può non essere condannabile di per sé – così come, senza dubbio, non può considerarsi necessario e sufficiente per portare a casa un’opera riuscita e compiuta. Tutto ciò per dire che Whip it è un oggetto che scatenerebbe l’entusiasmo (o l’ilarità) di qualunque strutturalista: il suo progetto narrativo è infatti ben più che prevedibile, i suoi componenti fanno riferimento alla struttura del "film sportivo" fin nel dettaglio, senza sgarrare di un millimetro, mettendo al margine svolte narrative che, spesso e volentieri, fanno la fortuna del cinema indipendente e la gioia del suo pubblico. Tutto va, per farla breve, come deve andare.

Eppure l’esordio alla regia della notissima attrice, ultima erede di una delle più lunghe dinastie della storia dello spettacolo americano, è perfettamente riuscito, a modo suo. Scritto dalla pattinatrice Shauna Cross sulla base di un suo stesso romanzo semi-autobiografico, Whip it è un film che, per raccontare la sua piccola storia di emancipazione femminile, sceglie senza troppi imbarazzi di sfruttare a fondo proprio la sua stessa rasserenante supponibilità. A costo di farvi arrabbiare: non solo perché rinuncia a prendersi le sue dovute libertà, evita il più possibile di uscire dai confini e dal seminato, ma è anche ambientato in un contesto sociale e culturale che sembra appiattire e livellare i contrasti a cui la sceneggiatura stessa farebbe riferimento: viene raccontato un mondo soffocante da cui è impossibile fuggire, ma sullo schermo vediamo in realtà un mondo senza veri cattivi – un mondo in cui, in fondo, è facile smarcarsi e fuggire verso il lieto fine. Ma questo in fondo è anche il modo, sostanzialmente iperbolico, in cui quasi qualunque adolescente vede e racconta gli ostacoli sulla strada del riconoscimento di sé. Non riesco, insomma, a non provare una punta di entusiasmo per il modo in cui la Barrymore è riuscita, con delle premesse così preoccupanti (e in un’opera prima, seppur tardiva) a fare un film così maledettamente piacevole, e un film così serenamente onesto da premesse così conformiste.

Tra le sue fortune c’è anche quella di aver avuto dietro la macchina un direttore della fotografia come Robert Yeoman, collaboratore fisso di Wes Anderson, che riesce a lavorare su elementi visivi come (per esempio) i contrasti di colore tra le divise, lasciandosi andare di tanto in tanto (comunque più di quanto faccia il resto della crew: un esempio tra tutti è la scena d’amore subacquea), regalando altresì alcune sequenze sportive di notevole impatto – così che la regista possa concentrarsi su qualcosa che fa più parte del suo DNA: la direzione degli attori. Ed è qui, nel cast quasi tutto femminile del film (la solita – irresistibile – Ellen Page, una sorprendente Marcia Gay Harden, una stupenda Kristen Wiig, la Barrymore stessa, spassosa), che troviamo il vero elemento di alterità del film: forse è la spiegazione del perché Whip it, la sua rigidità strutturale, riesca a farsela perdonare, in men che non si dica.

Davvero notevole la lista di 57 canzoni che costituiscono la bellissima traccia sonora del film, tra cui tre pezzoni di Jens Lekman, un paio dei Go! Team, gli Strokes, i CYHSY, i soliti MGMT, eccetera.

Whip it non ha ancora una distribuzione italiana.

American Splendor, Shari Springer Berman e Robert Pulcini 2003

American Splendor
di Shari Springer Berman e Robert Pulcini, 2003

Si può pensare quello che si vuole di American Splendor, ma una cosa è quasi certa: che non esistono molti film come American Splendor. Perché i due registi, che non a caso vengono dal documentario, riescono a realizzare, allo stesso tempo, un film tratto dai fumetti di Harvey Pekar, un biopic di finzione su Harvey Pekar, e un documentario su Harvey Pekar – senza che i tre linguaggi, diversissimi, si annullino a vicenda.

Anzi, è proprio dalla ricchezza di questa strana alchimia che nasce l’assoluta unicità di American splendor: una complessità che però la Berman e Pulcini decidono di affrontare con grande ironia e gusto dell’assurdo e del paradosso, facendo convivere sullo schermo la linearità del miglior cinema indipendente a un impianto quasi teorico sull’identità e l’alterità tra artista e personaggio, e mettono in scena un gioco di specchi tra realtà e finzione dando l’impressione che non si possa fare altrimenti – come se non ci fosse altro modo di raccontarla, la storia di Harvey Pekar. Probabilmente è così.

Grandissima la prova d’attore di Paul Giamatti, magnifica quella di Judah Friedlander.

Wet Hot American Summer, David Wain 2001

Wet Hot American Summer
di David Wain, 2001

Ambientato in un campo estivo nell’estate del 1981, l’esordio cinematografico del regista di Role Models è un caso tipico di film ignorato alla sua uscita e divenuto un cult movie negli anni successivi, attraverso il web e l’home video, ed è un incrocio tra un "summer camp movie" e la parodia degli stessi – con un tono che mescola una malinconia tipica della commedia del decennio a venire con una demenzialità che ricorda più propriamente uno spoof.

Una delle (poche) ragioni per recuperarlo è il cast davvero ricco e pieno di attori che diventeranno pezzi grossi della commedia USA, come Paul Rudd, Amy Poehler, Elizabeth Banks, Ken Marino di Party Down. Con Janeane Garofalo a fare da mentore, insieme al David Hyde Pierce di Frasier. Dalla sua invece Bradley Cooper, che ora è una delle star del cinema americano, esordisce in sala con questo film – facendo sesso con Michael Ian Black in un capanno degli attrezzi.

Chiaramente il film è sciocco, frammentario e volgarotto, ma con le sue pretese veramente rasoterra riesce ad assestare qualche colpetto al classismo degli adolescenti americani. Dire che non mi sono divertito, poi, sarebbe disonesto: il montage della gita in città con la direttrice è assolutamente geniale, così come la gag ricorrente dei bambini morti per la negligenza di Paul Rudd. E tutte le scene in cui Paul Rudd e Elizabeth Banks limonano duro.

Max Manus, Joachim Rønning e Espen Sandberg 2008

Max Manus
di Joachim Rønning e Espen Sandberg, 2008

Non è proprio semplicissimo muoversi nella ristretta e poco diffusa cinematografia norvegese, ma è pur vero che almeno un titolo all’anno spicca sugli altri per il suo successo critico e/o commerciale. Ed è facile identificare questo singolo film con il vincitore del nazionale Amanda Award (Amandaprisen). Nel 2007, per esempio, ci fu lo straordinario Reprise. Nel 2008, l’altrettanto sorprendente The man who loves Yngve.

Quest’anno a vincere l’ambito premio* è stato invece questo biopic in forma di dramma storico-bellico ambientato durante l’occupazione nazista della Norvegia, il cui protagonista, che dà il nome al film, è un vero mito nazionale della resistenza. E non sorprende che la rappresentazione delle sue eroiche e patriottiche imprese debba fare i conti con un approccio piuttosto tradizionale alla materia, prima di tutto da un punto di vista narrativo.

Ma se probabilmente per i norvegesi tutta la questione storica è più intellegibile (e pare abbia scatenato una polemica in patria sul ruolo della resistenza) ciò non toglie che il film sia un prodotto di impeccabile e innegabile professionalità – oltre che inaspettatamente vendibile: non è poco già il fatto che le vicende di Manus conquistino e appassionino senza troppi sforzi, nonostante siano ambientate in un contesto che, fuori dai confini della Scandinavia, è assai poco raccontato.

A tratti poi, Max Manus riesce a raggiungere un’intensità davvero notevole – quasi sempre grazie alla fantastica e mimetica prova d’attore di Aksel Hennie. Il resto lo fanno l’eccellente fotografia, il montaggio, l’accuratissima ricostruzione storica. Non sposta di un millimetro verso nord il baricentro del cinema europeo, ma non è nemmeno una cosa da poco.

In ogni caso un bel passo avanti, per Rønning e Sandberg. I due non muoiono dalla voglia di farvelo sapere, ma il loro esordio alla regia era stato Bandidas.

*Oltre al premio come miglior film dell’anno, Max Manus ha vinto gli Amanda come miglior attore, attrice non protagonista, fotografia, sceneggiatura, sound design e il premio del pubblico.

Il film non ha una data d’uscita italiana, così come non ce l’ha la sua "controparte" danese, Flame & Citron di Ole Christian Madsen.