Avatar
di James Cameron, 2009
Sono già pronto. Da sabato scorso, quando ho visto il film, mi sono preparato a tutto: so già perfettamente cosa sentirò e leggerò da domani in avanti, durante i pasti, sui mezzi pubblici, al bar, nei vostri status di Facebook. Leggerò e sentirò che il film è semplicistico, banale e scontato, che è "un’americanata", che la storia non è all’altezza degli effetti speciali, che gli effetti speciali sono belli ma che film è "una cazzata".
Lasciatevi dire una cosa: PFFT. Non avrei altro da aggiungere su questo argomento: se dopo quasi tre ore di questo spettacolo allucinante e spudorato, con i vostri occhialetti 3D sugli occhi e una poltrona bella comoda, uno schermo grande e senza vicini di posto che vi portano fuori strada sbuffando, se dopo questo venite a dirmi che la storia però è la solita solfa, concedetemi di pensare che sia anche un po’ un problema vostro. PFFT.
Che poi, lo sapete che c’è? Che questa benedetta "storia", con cui molta gente si sta mostrando tanto ossessionata, "il contenuto", non è una cosa così semplice. Anzi. La battaglia che mette in campo il film non è semplicemente quella tra buoni e cattivi sullo sfondo di un amore impossibile: gli ultimi hanno il volto di un’umanità sconfitta, una razza in fuga, dichiaratamente vicina all’estinzione, probabilmente per sua stessa mano, una cultura morente perché ha dimenticato il rapporto tra il corpo e il mondo. E sì, lo so bene, che ho scritto "corpo", e sto per scriverlo di nuovo. E al di là dei più semplici e meno sottili richiami e ricorsi storici, le opposizioni del film sono palesemente costruite su quello: da una parte c’è l’ossessione umana dell’alterità, con gli avatar alieni e i robot-marionetta, e dall’altra un popolo che tramite connessioni organiche è un tutt’uno con il mondo, una sintesi tra cultura e natura. Altro che superficiale sfoggio di effetti speciali.
D’altra parte, poi, c’è tutta la creazione di un mondo e delle sue leggi, che Cameron affronta con una ybris a tanto così dal delirio di onnipotenza, chiedendo allo spettatore di abdicare alla propria immaginazione per dedicarsi incondizionatamente alla sua, ficcando dentro l’atmosfera di Pandora i sogni e gli incubi di una dozzina d’anni, con una foga incontrollabile e un entusiasmo compositivo che lascia senza fiato. E scegliendo come veicolo narrativo di questo suo mondo una vicenda che, più che "banale", definirei piuttosto archetipica (oltre che profondamente cameroniana) ma con caratteri fiabeschi che si adattano alla perfezione alle ambientazioni del film, tanto sognanti quanto terrificanti.
Ma se anche fosse, se anche avesse ragione chi dice che il film è scritto in fretta e furia perché l’importante sono le battaglie, le fughe, i voli e le esplosioni, sinceramente: chi se ne frega. Primo, perché l’evoluzione tecnologica sarebbe già di per sé portatrice di significato, soprattutto in un film così, che al di sotto della meraviglia visiva fa pulsare una riflessione spietata, disillusa e crudele del futuro del genere umano e (ancora una volta) delle sue preziose macchine – così come lo sono, portatori di significato, le visioni, i sogni, e le passioni che prendono vita nell’incarnato blu e negli incredibili occhi (finalmente!) del popolo Na’vi.
Ma ancora di più, perché Avatar è prima di tutto uno spettacolo sconvolgente ed emozionante, un film che stai a guardare dall’inizio alla fine con gli occhi e la bocca e il cuore spalancati, sognando di trasferirti tra le foreste di Pandora, sognando di volare, di volare a cavallo di draghi multicolore dannazione!, sognando di fonderti con la natura, con le maledette piante!, di sentire pulsare dentro il tuo corpo le voci dei tuoi antenati, dei tuoi simili, di tutti i popoli a venire. Una cosa così.