[el pube è un pilota / fall 2010 edition: un'appendice]
[piccola guida non esaustiva alle serie tv che non ci stavano dall'altra parte]
A un mese dall’ultimo episodio, tappiamo i buchi.

Quest’anno The Walking Dead (AMC) era il Messia degli appassionati di serie tv. Non solo per le firme coinvolte (il regista Frank Darabont) e non solo perché è tratto da una storia a fumetti dalla straordinaria fama, ma perché questa serie per AMC è la quadratura del cerchio. Dopo tre drama come Mad Men, Breaking Bad e Rubicon, la rete è diventata per molti la beniamina assoluta nonché il contenitore della migliore televisione possibile – ruolo che fino a poco tempo fa era occupato indiscutibilmente da HBO. Mancava solo l’approccio al genere, e così sono arrivati gli zombi: inutile dire che, pilot alla mano, la missione è compiuta. Forse è un po’ presto per decidere se The Walking Dead sia la nuova serie americana più bella della stagione, ma come già Boardwalk Empire (by the way: che roba grossa, un episodio più bello dell’altro) anche lei punta a giocare in un campionato tutto suo. Insomma, vedremo come procede, ma le premesse sono ben più che ottime.
Nota: a quanto pare, Fox Italia ha mandato in onda una versione del pilot più corta di una ventina di minuti. Io ve l’ho detto.

Il biglietto da visita di Downton Abbey (ITV), dalla distanza, non era dei più eccitanti: un period drama ambientato in una villa della provincia inglese negli anni ’10 e trasmesso da ITV con grande dispendio di mezzi non suona come il massimo della vita, me ne rendo conto, per chi è abituato a True Blood e Community. Ma lo dico per voi: fate uno sforzo di volontà e recuperatelo. Se volete una ragione: è scritto da Julian Fellowes, sceneggiatore premio Oscar per Gosford Park. Se ne volete una più concreta: è davvero una delle più belle sorprese dell’anno, con una flotta di personaggi e interpreti immediatamente irresistibili e una scrittura e una messa in scena ineccepibili. E c’è Maggie Smith che fa la vecchia arguta. Imperdibile. Peccato che siano solo sette episodi: l’ultimo dei quali va in onda il 7 novembre. Ma nel 2011 arriva la seconda stagione.

Quando ho cominciato a vedere Single Father (BBC One) ho pensato: chi potrebbe interpretare in Italia il ruolo di David Tennant? Forse Emilio Solfrizzi, o Fabio Insinna? Sì, perché questa miniserie della BBC ambientata a Glasgow, il cui protagonista è un fotografo con quattro figli (e mezza) che perde improvvisamente la compagna in un incidente stradale, è un prodotto che non sfigurerebbe nel palinsesto di Raiuno: la differenza è che questa è scritta, girata e soprattutto interpretata con una cura che ci sogniamo. Ma è più probabilmente una questione di alchimie: non so come abbiano fatto, ma dei quattro episodi che la compongono il primo e l’ultimo si passano a piangere come agnellini – e alla fine, nel giro di sole quattro ore, ci si è affezionati ai personaggi con un’intensità che molte serie impiegano intere stagioni a ottenere. Davvero bello. Certo, potrebbe non essere la vostra fetta di torta – oppure potrebbe farvi piangere come agnellini. Per chiunque segua Doctor Who tutto questo è fiato sprecato: vi ho già convinti quando ho detto “David Tennant”.

Qualcuno guarda Lost Girl (Showcase)? Sono l’unico? Fatemi compagnia. Non seguo in modo attento la tv canadese, e ho iniziato a vedere questa serie – la cui protagonista è una tizia di nome Bo che scopre di essere una succuba (!) e anche che una pletora di esseri mitologici di diverse culture vivono effettivamente in mezzo a noi (!) – immaginando fosse un altro guilty pleasure da aggiungere alla lista ed eventualmente da lasciare a metà strada. E invece questa specie di via di mezzo tra Buffy, True Blood e un sacco di altre cose, con un 80% di trama verticale e un residuo orizzontale su Bo che cerca di scoprire il mistero delle sue origini, è un gran spasso: è scritta in modo divertito e divertente, si concede libertà che i network americani (non via cavo) generalmente eviterebbero, e possiede uno spirito di libertà cazzona e anarcoide davvero rinfrescante. Il più grande ostacolo da principio è il cast: l’attrice protagonista Anna Silk non è il massimo della simpatia (e assomiglia troppo a Mary Louise-Parker) e nemmeno a Kristen “Chris Martin” Holden-Reid offriresti una cena. La migliore della compagnia è Ksenia Solo, anche se è un po’ impallata sul ruolo di spalla comica e sul look da darkettona con la frangia. Ma fa lo stesso: dopo tre o quattro episodi non se ne può più fare a meno.

Me me n’ero dimenticato l’altra volta, e credo di essere l’unico o quasi ad averla vista qui in Italia. Ed è un peccato. La serie creata e interpretata dal bravissimo Tom Hollander si intitola Rev. (BBC Two), punto incluso, e il protagonista è il parroco onesto e simpatico di una piccola diocesi anglicana alla periferia di Londra che si deve confrontare con gli aspetti più burocratici, politici ed economici della sua professione, con i fedeli che scarseggiano, con l’arrivismo dei “colleghi” e dei “superiori”, con la competizione delle altre confessioni, e ovviamente con la sua vita privata e famigliare. Divertentissimo e molto intelligente. Sei episodi da mezz’ora andati in onda dalla fine di giugno all’inizio di agosto: ci vuole poco, ma ne vale la pena.

Il personaggio che dà il nome a The Increasingly Poor Decisions of Todd Margaret (IFC) è americano, ma la serie è britannica al 100%: sei episodi il cui ultimo va in onda proprio oggi 5 novembre. Todd Margaret (intepretato da David Cross) è un precario imbranato che lavora in una multinazionale americana e che, per un errore dovuto alla stupidità del suo nuovo capo (ovvero Will Arnett: curiosamente i due recitano insieme anche in un’altra nuova serie di quest’anno, Running Wilde), viene spedito a Londra a dirigere l’ufficio inglese senza avere la minima competenza. Andrà tutto nel peggiore dei modi fin da subito. Normale che la comicità sia basata su reazioni a catena che travolgono la vita del povero Margaret, vittima della propria inettitudine, ma almeno nei primi due episodi la sensazione di fastidio e imbarazzo supera di gran lunga il divertimento. Non è certo da buttare, Cross è bravo e il suo stile si adatta bene all’umorismo british, ma non so se recupererò gli altri quattro.