2010

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City of life and death, Chuan Lu 2009

City of life and death (Nanjing! Nanjing!)
di Chuan Lu, 2009

Nel dicembre del 1937, durante la seconda guerra sino-giapponese, l’esercito giapponese conquista la capitale della Repubblica Cinese. Durante le settimane successive, conosciute come “il massacro di Nanchino”, decine di migliaia di donne verranno stuprate e centinaia di migliaia di civili verranno uccisi; altre decine di migliaia troveranno invece rifugio all’interno di una temporanea “zona di sicurezza” istituita dall’uomo d’affari nazista John Rabe.

Questo breve e drammatico periodo, poco presente sui nostri libri di storia occidentali così come l’intero conflitto, viene narrato da Chuan Lu attraverso i punti di vista di alcuni personaggi, in particolare due assistenti di Rabe e, soprattutto, un soldato giapponese: il sergente Kadokawa. La scelta di guardare agli orrori perpetrati dell’esercito nipponico a Nanchino attraverso gli occhi di un loro soldato, con il quale il film stabilisce un rapporto di simpatia (chiedendo altrettanto al pubblico) ha causato qualche guaio al regista, ma è uno dei punti di forza del film: pur all’interno di una prospettiva storica tutto sommato consona al nazionalismo cinese, il film si libera con questo artificio dal manicheismo che avrebbe potuto soffocarlo. Diventando uno dei più strazianti e dolorosi affreschi di morte del cinema recente, uno squarcio violento e sulla Storia e sugli orrori della guerra che funziona sia come ricostruzione dell’evento (con alcune scene di massa che fanno venire i brividi solo a ripensarci) che come racconto del percorso di sopravvivenza, eroismo, lutto, dei suoi personaggi. Con uno sguardo sull’abisso totale dell’uomo che è insieme compassionevole e spietato, sconvolto e disilluso, ma in definitiva profondamente umano. Non era facile.

E poi, City of Life and Death è anche un film visivamente eccezionale, fotografato in un abbagliante bianco e nero e diretto con il necessario ma naturale sforzo di non sbilanciarsi in vantaggio del mero gusto compositivo – tenendosi saldo anzi a un rigore impeccabile e assolutamente maturo. Un grandissimo film.

In UK il film è già disponibile in DVD e in Blu-ray. Un consiglio: guardatelo in Blu-ray.

Approfondimento: scoprire che fine ha fatto John Rabe dopo il ritorno a Berlino.

Assault Girls, Mamoru Oshii 2009

Assault Girls (Asaruto gâruzu)
di Mamoru Oshii, 2009

Mamoru Oshii è uno degli autori più importanti dell’animazione nipponica e, più in generale, uno dei registi giapponesi più visionari e più amati dagli appassionati del genere: ma se la sua filmografia a partire dalla fine degli anni ’70 (soprattutto dal 1981, anno in cui iniziò a dirigere l’anime di Lamù) è davvero ricca, il pubblico occidentale abbina la sua firma soprattutto al seminale ed epocale Ghost in the Shell del 1995 e al suo incredibile sequel Innocence del 2004. Dopo la (personale) delusione del grottesco Tachiguishi Retsuden, comunque assai apprezzato da molti suoi fan, un paio d’anni fa a Venezia Oshii portò The Sky Crawlers, un bellissimo film d’animazione metafisico e purtroppo poco conosciuto nonostante sia da tempo in commercio anche in Italia. Con Assault Girls Oshii torna a dirigere un lungometraggio live action a quasi un decennio di distanza dal diseguale ma affascinante Avalon, di cui richiama a tratti alcune atmosfere, convenzioni e palette.

Questo cappello riassuntivo serve solo a prendere tempo perché io, in tutta franchezza, Assault Girls non sono riuscito a capirlo.

Lungo poco più di un’ora, il film è ambientato in una realtà simulata che ha le fattezze di un deserto dove alcune bellissime guerriere (chi armata fino ai denti, chi con la capacità di trasformarsi), accumulano punti eliminando degli enormi vermoni digitali che escono delle sabbie. Basta. Non c’è molto altro. Non c’è praticamente alcuna vera evoluzione narrativa, se non la decisione di unire le forze per un nemico più difficile da battere. Tra l’altro, il film si apre con un incipit verbosissimo che dà un contesto distopico ma che in definitiva è del tutto inutile ai sensi di ciò che verrà: dopo questo, c’è una (spettacolare) sequenza action finita la quale il film fa una brusca frenata. E in parole povere, non succede più niente fino a pochi minuti dalla fine. Poi: bang, boom, fine.

Ovviamente il film sotto il profilo visivo è una goduria, a cui contribuisce non poco l’accecante bellezza di Meisa Kuroki (e di Rinko Kikuchi, ma in modo minore) ma il film si ferma lì, al look post-tutto delle sue interpreti, alle pose plastiche, alle armi e ai mirini. Forse c’era qualcosa da capire che mi è sfuggito, un’altra profonda riflessione del Nostro sul futuro sempre più fragile dell’identità e dell’anima? Lo dico sinceramente: spiegatemelo voi. Perché io ci ho visto tre ragazze giapponesi che sparano ai vermoni, e poco altro.

L’edizione home video americana è region free sia in DVD che in Blu-Ray ed esce la prossima settimana.

The Loved Ones, Sean Byrne 2009

The Loved Ones
di Sean Byrne, 2009

A mettermi la pulce nell’orecchio era stato, come spesso accade in questi casi, il buon Nanni Cobretti dal Frightfest londinese. Ma The Loved Ones aveva già un biglietto da visita di tutto rispetto, tra cui materiali promozionali (trailer, locandine) eccezionali e uno spunto narrativo che non può far gola a qualunque appassionato: proprio perché il “prom”, il ballo di fine anno, è un oggetto così noto e risaputo nel cinema americano e soprattutto nel cinema di genere, cosa ne avrebbe potuto trarre un regista australiano esordiente che viene dalla Tasmania?

Bene, tanto qualunque fossero le aspettative, il film di Sean Byrne ha provveduto a ribaltarle e travolgerle con una forza deflagrante: The loved ones è uno degli horror più belli ed eclatanti degli ultimi tempi, un’opera piccola e indipendente ma che sa infilare la mano e i coltelli nei piedi e nel cuore, strizzando e perforando, riuscendo a fare tesoro in modo tanto allucinato quanto preciso di molte lezioni del miglior cinema horror (la provincia, la famiglia, la perdita, le case nere, le cantine e i loro scheletri) facendole esplodere dall’interno, con un’ambiguità e un’inquietudine che molti registi hanno dimenticato per inseguire i gusti di un pubblico addolcito e pigro. Senza strafare però, senza l’ansia del primo della classe né quella di esagerare con i dettagli gore: il film è senza dubbio impressionante e a tratti spaventoso, ma è anche sorprendentemente equilibrato nel bilanciare la rappresentazione con il fuoricampo, come se Byrne avesse già una sua morale a cui rispondere. Non mi sorprenderebbe, visto che l’interesse del regista, una volta tralasciati gli aspetti più sanguinari, va nella direzione della rappresentazione di un irresistibile incastro amoroso e affettivo che riesce a essere a suo modo (e in ogni direzione possibile) anche disperatamente romantico – e che trova nella figura terrificante di Lola e nella performance di Robin McLeavy lo sfogo estremo e violento di un intero immaginario. In tal senso, quello della doppia traccia (l’intreccio “principale” da una parte, l’appuntamento dell’amico con la ragazza dark dall’altro) potrebbe sembrare l’aspetto più debole del film ma in realtà mostra con efficacia, sia nel disseminare false tracce che nel dare infine soluzioni illuminanti, che nulla, davvero nulla in The Loved Ones è lasciato al caso.

Ma il film non ha nemmeno bisogno di caricarsi o di essere caricato, visto che conquista fin dall’incredibile incipit. D’altra parte, la sequenza finale è tra le più belle che si possano immaginare dopo un’ora e un quarto passata a stringersi le ginocchia al petto.

Non è prevista un’uscita italiana. L’edizione inglese è già in commercio in DVD e Blu-ray.

Jonah Hex, Jimmy Hayward 2010

Jonah Hex
di Jimmy Hayward, 2010

Ci dev’essere stato un momento durante la produzione di Jonah Hex, forse addirittura in pre-produzione, in cui qualcuno ha alzato la mano, ha chiesto il silenzio dei suoi pari e ha detto: ma perché stiamo facendo questo film? Non vedete che è tutto sbagliato? Non vedete che farà schifo? Mi piace regalare quest’ultimo barlume di umanità a quello che è con tutta probabilità il più brutto – sicuramente uno dei più brutti film in cui sia incappato quest’anno. Ci saranno senz’altro film peggiori in circolazione, ma di solito non ci casco, evito, scanso.

Ditemi pure che ci sono cascato perché c’è Megan Fox: accetto l’accusa, ma sprecare l’avvenenza dell’attrice in un ruolo come quello della puttana-dal-cuore-d’oro è roba di tutti i giorni. Come si fa invece a mettere in fila uno dietro l’altro Josh Brolin, John Malkovich, Michael Fassbender, Will Arnett, Jeffrey Dean Morgan e Michael Shannon e partorire un film così impresentabile? Non me ne capacito. Cioè, almeno il carisma. Invece il regista semi-esordiente Hayward (aveva già co-diretto Horton, questo è il suo primo film live action), un ex animatore cresciuto in casa Pixar, gira proprio un cartoon ma seriosissimo e mortifero, un western inconsistente e ridicolo oltre che privo del senso del ridicolo – e di ironia: la sceneggiatura è firmata dal dinamico duo Neveldine & Taylor dei Crank ma riesce nell’impresa eccezionale di prendersi alla lettera da capo a piedi. E direi che gli ho dedicato già fin troppo spazio.

Lasciate perdere. Piuttosto recuperate Sukiyaki Western: Django di Takashi Miike, che ne so, oppure a questo punto rivalutate Pronti a Morire di Sam Raimi – dopo aver visto questa roba, penserete probabilmente di averlo maltrattato ingiustamente.

Exit Through the Gift Shop, Banksy 2010

Exit Through the Gift Shop
di Banksy, 2010

Non mi ha sorpreso ritrovare sul web diverse e accese discussioni su ciò che viene raccontato in questo documentario diretto da uno dei più noti e acclamati street artist al mondo e presentato all’ultimo Sundance. Anche alcuni critici hanno trattato la questione: chi accettando acriticamente i fatti narrati, chi dando per scontato che sia tutta una (impegnativa) presa in giro. Ci sono poi posizoni intermedie che ritengono che una “risposta” sia quasi del tutto ininfluente, o meglio che sia inutile scannarsi: tanto è la domanda, quella che conta. Uno degli scopi del film era senza dubbio proprio quello di farci interrogare sulla credibilità di una storia simile per far scaturire dalla questione il senso centrale della riflessione sul mercato dell’arte; in tal senso, la storia di Guetta e soprattutto quella della sua ascesa non è una beffa nei confronti dello spettatore, che è anzi complice, ma del mercato stesso – un’irresistibile satira del sistema in cui quest’ultimo mostra le sue contraddizioni senza bisogno delle iperboli tipiche della satira.

Poi Exit Through the Gift Shop è anche un sacco di altre cose: è indiscutibilmente un documento straordinario sull’opera quotidiana degli street artist che contiene peraltro alcune impagabili immagini di artisti come Invader e Banksy stesso al lavoro; ma è anche la storia di un uomo inadeguato e ossessivo che insegue un’impresa eccezionale e raggiunge degli obiettivi impensabili nonostante o proprio per via della sua inadeguatezza; è un film terribilmente divertente, in qualunque modo lo si voglia prendere; e alla fine, proprio nel suo continuo negarsi come tale e nel suo utilizzare la figura di Guetta come terzo elemento del paradigma, Exit Through the Gift Shop è davvero l’unico documentario possibile su Banksy.

E va benissimo così.

Non è prevista un’uscita italiana. Il dvd inglese si può già acquistare.

The Town, Ben Affleck 2010

The Town
di Ben Affleck, 2010

Sei anni fa in Team America: World Police, Trey Parker e Matt Stone facevano cantare a uno dei loro pupazzi “I need you like Ben Affleck needs acting school: he was terrible in that film”. Il film in questione era Pearl Harbour, ma nonostante alcune intepretazioni applaudite e il sodalizio con Kevin Smith grazie al quale acquistò molte simpatie, basta pensare che nel 2003 l’attore era riuscito a infilare una tripletta come Daredevil, Gigli e Payback per capire come potesse essere considerato a quei tempi. Tutto ciò per far capire meglio la sorpresa che fu vedere nel 2007 il suo straordinario e intenso esordio alla regia, Gone Baby Gone. Nel giro di tre anni, con un’inattesa Coppa Volpi per Hollywoodland nel mezzo, Affleck si era trasformato dall’attore rigido e legnoso che conoscevamo in uno dei più promettenti registi del cinema americano.

Proprio per questo, le aspettative intorno a The Town erano considerevoli: riuscirà l’opera seconda a tenere testa a quel sorprendente esordio? O si era trattato solo di un colpo di fortuna? Bando agli indugi, questo film è probabilmente inferiore al suo precedente, ma è anche senza dubbio una conferma: Ben Affleck è davvero un bravissimo regista. Il film è più canonico nel suo sviluppo narrativo, ma anche più onesto: Affleck riprende ancora una volta l’ambientazione bostoniana a lui cara e racconta la storia amara e romantica di un riscatto impossibile, mettendo a fondamenta tre eccellenti sequenze di rapina – una che apre in grande stile il film, un ottimo inseguimento centrale (quello con le maschere da suora), e quella che dà il moto all’inevitabile conclusione.

Ma The Town non è solamente un film di rapina o un “western contemporaneo”, né è soltanto il film del Doug MacRay che Affleck si è cucito addosso con innegabile talento a partire dal libro di Chuck Hogan, ma è un film che fa grande tesoro dei suoi moltissimi personaggi e del suo brillante cast (tra cui spiccano Jon Hamm, Jeremy Renner e due attrici favolose in ogni senso come Rebecca Hall e Blake Lively) per dipingere un robustissimo affresco sulla periferia americana che non ha paura di prendersi i suoi tempi (il film dura circa due ore, e si sentono tutte) e che fa pochissimi sconti nel raccontare il contrasto tra il legame con le proprie origini (la città, il quartiere, la via) e il desiderio pulsante di fuga dal proprio passato. Fino a quando Doug non capisce che se la fuga è possibile, il passato si paga.

Il lungo articolo sull’ultimo numero di Empire dice una cosa interessante, dice che The Town in qualche modo mostra che cosa ne è stato dei ragazzi che il buon Will Hunting ha lasciato a South Boston, alla fine del film che proprio ad Affleck regalò la fama (e mezzo Oscar come miglior scneggiatore): giusto. Ora resta da vedere se con questo titolo si sia conclusa la sua “saga bostoniana”, se Affleck sia in grado di raccontare altre storie, altri luoghi, se sia capace di fuggire anche lui da quella città e da quelle ossessioni. Ma se farà sempre la stessa cosa con questa qualità, non saremo certo qui a lamentarci. E in conclusione a una lista di meritati elogi, il pezzo dice anche un’altra cosa: “tutto questo dal tizio di Gigli“. L’hai detto.

Buried, Rodrigo Cortés 2010

Buried
di Rodrigo Cortés, 2010

“Le Cinémascope ce n’est pas fait pour des hommes, c’est fait pour les serpents ou les enterrements”
(Fritz Lang ne Il disprezzo, 1963)

Torniamo a parlare (dopo Frozen, che era ambientato per gran parte su una seggiovia ferma sopra una pista da sci), di film che rappresentano a loro modo una scommessa. Più impegnativa, in questo caso: un film di circa un’ora e mezza ambientato esclusivamente all’interno di una bara sepolta chissà dove. Esclusivamente. Il talentuoso Cortés infatti non ha alcuna intenzione di scendere a compromessi, non realizza flashback luminosi che permettano di respirare – eppure realizza con l’aiuto di un ispirato Ryan Reynolds un film assolutamente esaltante, un piccolo gioiello di puro intrattenimento sull’istinto di sopravvivenza.

In un certo modo, è anche un film anche molto coraggioso, quasi estremo – non a caso, è una produzione europea: non tanto perché non si sale davvero mai in superficie, ma perché si permette di fare cose come allungare l’esperienza fascinosa e terrificante del buio in sala (quanti film “commerciali” recenti ricordate in cui lo schermo rimane nero così a lungo, non a caso all’inizio del film, giocando tutto sui suoni?), giocare in modo crudele con l’orizzontalità del formato cinematografico e con l’inganno della quarta parete (quant’è straniante quando la macchina da presa si “allontana” da Reynolds verso l’alto) e riuscire in quei due metri cubi a utilizzare il linguaggio cinematografico con una ricchezza espressiva inaudita visto il contesto: un carrello veloce in avanti in una tomba? Ecco.

Certo, riconosco che c’è qualche ingenuità nel trattamento della materia più strettamente politica del film, centrale nello sviluppo della trama (di cui non racconto nulla perché io stesso non sapevo ed è stato più divertente scoprirlo al cinema) ma secondaria rispetto all’esperienza più fisica del film e alle considerazioni fatte finora; e poi, vogliamo ricordarlo, stiamo parlando di un film di un’ora e mezza circa esclusivamente ambientato in una bara sepolta chissà dove ma che tiene meravigliosamente botta per tutta la sua durata. Provateci voi, provateci. Il solito vecchio discorso: se vi metterete a fare banali osservazioni sulla batteria o sulla ricezione del telefono cellulare (domande a cui peraltro il film risponde, e con una certa perizia: giusto per intenderci) mi chiedo cosa ci andiate a fare, al cinema.

Nei cinema dal 15 ottobre 2010

el pube è un pilota: guida alle nuove serie tv (fall 2010)

[el pube è un pilota / fall 2010 edition]
[piccola guida
non esaustiva alle nuove serie tv]

La lunga estate è finita: Lost ha finito la sua corsa, il resto del tempo è stato speso a elaborare il lutto rivalutando e innamorandomi perdutamente di due cose straordinarie come Breaking Bad e Fringe, le cui ultime stagioni recuperate tardivamente (rispettivamente la terza e la seconda) sono state esperienze sinceramente travolgenti, e continuando ad amare senza reticenze due serie come True Blood e Mad Men, quest’ultima divenuta ormai talmente sublime da sfiorare l’assurdo. Ma ora è tempo di guardare avanti: ecco un piccolo riassunto dei pilot delle nuove serie tv* che mi sono puppato per spirito di sacrificio.

Tra tutte le moltissime serie iniziate durante il mese di settembre, Boardwalk Empire (HBO) era probabilmente la più attesa: produzione ricchissima a cura di Martin Scorsese e Mark Wahlberg, cast d’eccezione con Steve Buscemi e Michael Pitt in prima fila, ambientazione favolosa ai tempi del proibizionismo, set stupendi, scene di massa, la libertà data dal cavo. Il pilot, diretto dal Gran Maestro in persona, non ha deluso le aspettative: un vero e proprio (bellissimo) film di un’ora e dieci, scorsesiano in tutto e per tutto, una vera manna per qualunque fan del regista in vena di una caccia al marchio di fabbrica, tra iridi e fermo immagine e via dicendo. Gli episodi successivi, a dire il vero, per ora vivono all’ombra di quella prima esplosione, ma la serie tiene comunque botta: in giro c’è magra, questa roba è oro che cola sugli occhi. Facciamocelo durare. Kelly Macdonald for teh win.

In verità Rubicon (AMC) sta arrivando proprio in questo periodo alla fine della sua prima stagione: ma la terza produzione originale della rete che ha proposto due tra i drama più belli del decennio (ovvero Mad Men e Breaking Bad) e che si prepara al botto annunciato di The walking dead si difende con i denti nel ruolo un po’ reietto di “cugina minore”. Ci mette parecchio a crescere: dopo tre o quattro episodi la tentazione di farla finita è fortissima. Ma sarebbe un errore, e lo dico a chi ha mollato il colpo: tornate sui vostri passi. Giocata su una costruzione della tensione d’altri tempi che non ha nulla a che fare con la televisione di oggi, nemmeno con quella più raffinata, Rubicon è uno dei progetti più adulti della televisione americana e, come tale, richiede pazienza. Diamogliela. Sono sicuro che, come già i suoi “cugini maggiori”, crescerà sempre di più.

Negli ultimi anni sono molte le serie comedy a cui ci siamo affezionati irrimedialmente (30 Rock, Community, Glee, Modern Family, per fare solo alcuni dei nomi più altisonanti) ma il panorama dei nuovi titoli, come si può vedere, è abbastanza sconfortante. Su tutti spicca Raising Hope (Fox), serie creata dal Greg Garcia dell’amatissimo My Name is Earl, che torna a raccontare una piccola epoea white trash – quella di Jimmy, un ragazzo spiantato e non troppo intelligente che mette incinta una serial killer prima dell’esecuzione e che si trova una bimba a carico. Deliziosamente scorretto ma anche estremamente zuccheroso: non per tutti quindi, ma la qualità di scrittura e i production values sono evidentemente sopra la media. Ottimo il cast, in primis Martha Plimpton – ma c’è anche la grandissima Cloris Leachman nel ruolo della nonna suonata. Ho l’impressione di non avervi convinti.

Ha senso parlare di una serie che hanno già trombato? In questo caso sì, perché Lone Star (Fox), il cui protagonista era un truffatore bigamo, aveva tutte le carte per diventare il gioiello incontrastato della stagione. Una vera scommessa, quella del canale: trasmettere una serie “da cavo” su un network come Fox, con il quale sembrava aver poco da spartire. Purtroppo, gli ascolti disastrosi hanno massacrato le speranze di sopravvivenza, e la nota tendenza della rete ad abbassare la mannaia senza il coraggio di puntare sul lungo periodo ha fatto il resto: dopo due episodi, Lone Star non esiste più, e come fa notare Rei su Serialmente questo è anche un bruttissimo segno. Il mio consiglio sarebbe di recuperare comunque i due episodi, perché sono bellissimi – ma averli visti e sapere che è tutto lì è frustrante. Regolatevi voi.

Come spesso accade, una delle serie migliori della stagione non è americana ma britannica, e così rischia di passare inosservata. Anche perché il format crea confusione: Sherlock (BBC) è composto da tre “lungometraggi” invece dei soliti sei episodi, di cui almeno due (il primo e il terzo) sono dei pezzi di televisione della madonna che la maggior parte dei network americani si sogna. I nomi coinvolti non lasciavano troppi dubbi: lo Steven Moffat di Doctor Who, il Mark Gatiss di League of Gentlemen, Martin Freeman nel ruolo di Watson e il sorprendente Benedict Cumberbatch nel ruolo di Sherlock Holmes. Una figata senza pari, che tra l’altro con acuto sadismo lascia il pubblico con la bava alla bocca per la seconda stagione.

Rimaniamo temporaneamente nel Regno Unito, dove si conclude proprio in questi giorni la prima stagione di Him & Her (BBC Three), una sit-com ambientata interamente in un bilocale abitato da due twentysomethings, ma non per questa priva di una sua grazia. Tag: sesso, più parlato che esibito. Una serie assolutamente impensabile in un paese come il nostro però, e difficile da immaginare anche negli states, non tanto per la “volgarità” tra virgolette ma per l’idea di andare a sollevare il velo di pudore che nasconde i riti quotidiani di una giovane coppia, tra il letto e il water, tra le coccole e le caccole. Di contorno, dialoghi divertentissimi e una stupenda coppia di protagonisti: Russell Tovey e Sarah Solemani. In giro se ne parla poco, ma merita.

Adesso che è finito Lost, ve ne sarete accorti, sono tutti a caccia del “nuovo Lost“. Posto che sia possibile o che ce ne sia bisogno senza avere il tempo di tirare il fiato, The Event (NBC) sembra essersi addossato la responsabilità senza che nessuno glielo abbia chiesto. Della serie si parla già maluccio un po’ dappertutto, ma la verità è che il pilot è godibile e il secondo episodio è persino migliore – anche perché smette di menare il can per l’aia e mette bene in chiaro da subito quali sono gli argomenti in campo, invitando chiaramente gli spettatori a indossare un bel giubbotto di sospensione dell’incredulità. Gradisco. Reggerà il colpo ancora per qualche episodio o farà la fine ingloriosa di Flashforward? Per ora ha la nostra attenzione, ma occhi ai passi falsi.

L’altra serie di cui si puntava molto già mesi prima del primo episodio (o dei leak, a seconda) è No Ordinary Family (ABC), che dalle informazioni sembrava avvicinarsi molto a Heroes mescolato con I fantastici quattro. In realtà l’esperimento del pilot è quello di applicare la formula stravincente di Modern Family al modello della serie di supereroi, cercando di evitare i casini combinati da Heroes puntando su un format che ricorda da vicino Gli Incredibili della Pixar. Una serie così derivativa non poteva suscitare troppe simpatie: il coro dice già visto, già fatto, piantatela. Però onestamente il pilot (l’unico episodio che ho visto) è molto spassoso: se non fa l’errore di prendersi troppo sul serio, ci sarà da divertirsi. Sennò ciccia.

Non per niente The Big C (Showtime) è diventata vittima insieme alle precedenti Weeds e Nurse Jackie di un innocuo skit del SNL: la rete che la ospita sembra fare le serie con lo stampino, a volte. Il fatto è che le fa proprio bene: anche questa, in cui la protagonista scopre di avere un cancro incurabile e ribattezzata da qualche parte “Breaking Bad without the meth and the awesomeness”, è un prodotto di tutto rispetto, con una sceneggiatura validissima e ottimi interpreti, soprattutto Laura Linney. Dopo qualche episodio però la serie comincia ad avere il fiato corto: personalmente l’ho abbandonata, e di solito non è un buon segno.

Ognuno ha i suoi guilty pleausure televisivi in ogni stagione: c’è chi guarda Pretty Little Liars (che io ho lasciato dopo il pilot), io invece ho Hellcats (The CW), serie incentrata su una studentessa di legge interpretata dal biondo faccione ricciolone di Aly Michalka che per sostenere gli studi è costretta a fare la cheerleader e a dividere la stanza con Ashley Tisdale. Ovviamente è una ginnasta con i controcazzi e farà un culo così a tutte le altre, e ovviamente scoprirà che è uno sport vero e durissimo dove si può MORIRE tipo. E c’è spazio per l’amore! E c’è spazio per l’amicizia! E c’è spazio per un numero impressionante di coreografie e/o balletti su una delle peggiori colonne sonore di sempre. Veramente brutto, assolutamente irresistibile.

[EDIT] Il fatto che mi sia dimenticato di Running Wilde (Fox) nella prima stesura del post la dice lunga sul mio gradimento della serie con Will Arnett e “la tipa di Felicity“, sulla quale per ora ho deciso di sospendere il giudizio – probabilmente perché non sarebbe troppo entusiasta. Il pilot è gradevole e divertente anche se un po’ moscetto considerati i talenti coinvolti (c’è Peter Serafinowicz, perdio!), il secondo episodio ha azzerato la mia voglia di continuare. Vado avanti giusto perché Will Arnett è Will Arnett e perché sto aspettando che prima o poi cominci a diventare veramente divertente.

Passiamo infine ai punti dolenti: le serie tv con cui ho deciso di chiudere dopo il pilot, o parte di esso, per le ragioni più svariate. La prima è Undercovers (NBC), nuova creatura (nientemeno!) di J.J. Abrams, modellata su film come True Lies e Mr and Mrs Smith ma senza più nulla da dire sull’argomento se non “ehi hai visto sono dicolore”. L’unico punto di forza è Gugu Mbatha-Raw, bellissima attrice inglese già vista in Doctor Who di cui non riusciremo mai a imparare il nome e che quindi chiameremo semplicemente “Gugu” o “quella figa stratosferica di Gugu”. Il resto è più o meno da buttare. Delusione anche per Big Lake (Comedy Central) che non fa ridere manco per sbaglio nonostante la produzione di Adam McKay e Will Ferrell e per Outsourced (NBC) che nonostante le promesse (e qualche risata) si è rivelato una cosetta poco lol e pure un pochetto razzista. Terriers (FX) è invece un titolo interessante e ben realizzato, ecco: l’unico problema è che dopo il pilot non avevo alcuna intenzione di proseguire, forse è un problema mio. Non è il caso invece di Nikita (The CW) che invece fa schifo al cazzo e credo non ci sia altro da aggiungere. Di Chase (NBC) e Hawaii Five-0 (CBS) ho visto dieci minuti a testa: quanto basta per capire che non parliamo nemmeno la stessa lingua. Invece The Defenders (CBS) non è male, se vi piacciono i drama processuali: per capirci, a me fanno schifo (motivo per cui ho abbandonato a metà il pilot di The Whole Truth (ABC), nonostante fosse interessante e ci fosse Rob Morrow.

In realtà nessuna nuova serie autunnale è all’altezza della vera perla dell’estate 2010: iniziata a fine giugno e terminata all’inizio di settembre, Louie (FX) (che ho ribattezzato “la migliore serie tv che nessuno sta guardando”) è scritta, diretta e interpretata dallo stand up comedian Louis C.K. (di cui vi obbligo a vedere Hilarious) ed è un autentico gioiello televisivo con picchi di genio assoluto, una delle cose più belle e divertenti che vi possano capitare in questi mesi davanti agli occhi. La prima stagione è composta di 13 episodi, recuperatela a ogni costo, intendo ora.

*questo post ovviamente non include serie già iniziate prima dell’estate

Get him to the Greek, Nicholas Stoller 2010

Get him to the Greek
di Nicholas Stoller, 2010

È importante fare delle distinzioni, quando si parla dei film scritti, prodotti e/o diretti da Judd Apatow. Discorso fatto mille volte su questo blog: non sono tutti belli né tutti brutti, Superbad non è Drillbit Taylor, Walk Hard non è Year One, Apatow sceneggiatore non è Apatow regista, e via dicendo. Tutto sommato però è piuttosto semplice trovare nel corpus apatowiano dei tratti distintivi che identificano buona parte dei lavori che portano, in un modo o nell’altro, la sua firma. Get him to the greek, sorta di sequel (più uno spin-off, nel senso che riprende solo un personaggio, l’Aldous Snow di Russell Brand) di Forgetting Sarah Marshall, risponde in tutto e per tutto a uno di questi modelli, che sintetizziamo così: gli uomini sono tutti dei simpatici eterni bambinoni, le donne invece sono delle odiose castranti puttane scassapalle. Ma se per avere dei dialoghi assolutamente irresistibili e divertentissimi come sono quelli di Get him to the Greek, grazie anche al talento di Jonah Hill e alla presenza scenica di Russell Brand, saremmo anche disposti a perdonare questa e molte cose già tipiche dei film diretti da Apatow (il ritmo catatonico, l’assenza di regia nelle scene in cui i personaggi sono sobri, le sequenze tirate per le lunghe fino allo sfinimento, la sfilata di amichetti, la sensazione che il film duri cinque ore e mezza) quello che non siamo disposti a perdonare è la moraletta che Stoller e compagnia ci sbattono in faccia dopo un’ora e mezza di gente che vomita, beve, scopa, vomita, si droga e beve e vomita di nuovo e scopa, perché dà proprio l’impressione che per giustificare la presunta “scorrettezza” e del film si debba per forza bilanciare con una parte finale del genere – del tutto annunciata dal tono generale del film – su cui tanto valeva mettere dei grossi cartelli al neon con scritto DROGA BRUTTO, insomma, un procedimento persino più fastidiosamente perbenista di chi almeno mette le cose ben chiare dal principio. Per usare di riflesso la stessa metafora del film, ci avete promesso un concerto al Greek Theatre e ci avete dato Storytellers?

Nelle sale italiane dal 3 dicembre con il titolo In viaggio con una Rock Star.

Vedere questo film doppiato è come vedere un musical senza le parti cantate: l’edizione dvd e blu-ray inglese esce il primo novembre, quella americana (Regione 1) è già in commercio.

La passione, Carlo Mazzacurati 2010

La passione
di Carlo Mazzacurati, 2010

Nel quartetto degli italiani in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, il nuovo film di Carlo Mazzacurati è probabilmente quello che è stato accolto più positivamente – o meglio quello di cui io, personalmente, avevo sentito parlare con meno riserve dai fidati contatti distribuiti per il Lido. Ciò nonostante, La Passione è stata per me una non troppo sonora ma innegabile delusione. Non tanto perché sia un film indifendibile (non lo è, anzi, ha i suoi momenti) ma perché spreca la possibilità di parlare con intelligenza e acume dello stato del cinema e della cultura in Italia (e l’intenzione c’era, basta vedere l’incipit) per girare più spesso intorno a una più facile comicità fatta di un accumulo di sketch, battute e macchiette che non fanno mai ridere, inseguendo l’ambizione di una sorta di dolente confessione artistica che, nell’interminabile parte conclusiva, sfocia in un misticismo autoindulgente che fa venire il nervoso persino in un film italiano. E tra disequilibri e indecisioni, a risentirne è la qualità dei personaggi (grave, in un film fatto solo di personaggi), tratteggiati con poca cura, soprattutto quelli secondari sopra i quali Silvio Orlando si muove a bordo di uno stampino col pilota automatico. Nella depressione generale, Battiston è ancora una volta il migliore della compagnia, mentre è inutile spendere troppe parole su Corrado Guzzanti, il cui assoluto genio televisivo non trova per nulla la sua dimensione – semplicemente: fuori posto.

Devo dedicare però una nota particolare all’esperienza tanto interessante quanto mortificante della visione di La Passione in una sala del centro a Milano, che potrebbe addirittura aver determinato in qualche modo il basso gradimento del film stesso. In poche parole, il pubblico ha riso a squarciagola per tutta la durata del film (e fin qui niente male, contenti loro) ma spesso e volentieri in momenti in cui sullo schermo non succedeva niente, addirittura nel passaggio tra una scena e l’altra – non dico che ci sia un problema se tutti ridono nella gag del divano letto, pace all’anima loro ma almeno è una gag, parlo di grasse e rumorose risate in sala mentre un personaggio si mette le ciabatte e basta. A quanto pare, non sono l’unico ad aver notato questa cosa. In una prospettiva particolarmente snob, sono giunto alla conclusione disumana che a tutto ciò abbia contribuito il lancio del film, spacciato dal trailer per una specie di commedia demenziale: forse il pubblico pur di non vedere stravolte le proprie aspettative preferisce affrontare un film (anche socialmente, Goffman docet) non come il film che stanno vedendo ma come il film che credevano di vedere? Non sono sicuro di voler sentire la risposta.

Nightmare, Samuel Bayer 2010

Nightmare (A Nightmare on Elm Street)
di Samuel Bayer, 2010

Realizzato nel lontano 1984, Nightmare – Dal profondo della notte è stato uno degli horror più epocali di quel decennio. Ma è inutile che ve lo racconti: grazie al cielo è anche uno dei più celebri e dei più amati, non soltanto perché era spaventoso e non solo perché creava un personaggio destinato a entrare nella leggenda come Freddie Krueger, di cui non ci saremmo più liberati nel bene e nel male (né tantomeno Robert Englund), ma perché era, diciamo così, per usare un giro di parole, un film della stramadonna.

Non è certo una sorpresa che il remake non sia nemmeno lontanamente all’altezza dell’originale di Wes Craven: non era ciò che gli si richiedeva. E fare un remake di un classico non è un reato. Ciò che gli si richiedeva, dunque, era di non fare completamente schifo. Beh, missione fallita: Samuel Bayer, che ha alle spalle una lunghissima carriera di regista di videoclip e spot alla quale mi auguro ritornerà il prima possibile, non si sa come ma riesce nel miracolo di replicare il modello narrativo del film originale trasformandolo in una sequela noiosissima e ripetitiva di ammazzamenti, senza nemmeno sfruttare a dovere la presenza scenica di Jackie Earle Haley – relegato a fare il vocione minaccioso senza la possibilità di muovere un muscolo della faccia. E non è una questione di “i tempi sono cambiati e non ci spaventa più niente”: se riguardo adesso il primo Nightmare lo trovo ancora inquietante, questo fa sbadigliare.

L’unico errore che saggiamente Bayer evita è quello del Freddie compagnone con il carnet di battutacce degli ultimi capitoli della saga, e qui il nostro si limita a una collezione limitata di innocue catchphrase – ma incappa in quasi tutti gli altri, compresa una maggiore enfasi sulla “creazione” di Krueger in un lungo flashback durante la quale ci si ritrova a pensare alle margheritine e un cast di tremende facce da schiaffi in cui si salva, parzialmente, solo Rooney Mara.

Ecco, Rooney Mara è una tipa a posto, poi però uno pensa a Heather Langenkamp e gli viene voglia di spaccare tutto.

Four lions, Christopher Morris 2010

Four lions
di  Christopher Morris 2010

Ciò che sorprende di più di Four Lions, che racconta i maldestri tentativi di quattro giovani musulmani radicali a Sheffield di compiere un attentato suicida durante la Maratona di Londra, è come faccia dimenticare piuttosto in fretta di essere un film “scandaloso” o “pericoloso”: Morris trova un modo tutto suo, degno figlio della tradizione comica britannica, per affrontare a viso aperto (ma non a denti stretti, anzi, permettendo al pubblico risate crudelmente liberatorie) uno dei pochi autentici tabù della contemporaneità – e minarne i fondamenti con le armi dell’ironia e della satira, realizzando una commedia quasi-demenziale che non bada tanto alle mezze misure e, cosa ancora più importante, fa ridere davvero.

Morris in realtà è meno sfrontato di quanto non sembri: nonostante il suo progetto sia stato respinto dalla BBC e da Channel 4, si è mosso facendo ben attenzione a non pestare troppo i piedi (superato un certo limite, c’è poco da scherzare) ma quello che è riuscito a ottenere con questa irresistibile farsa, recitata splendidamente da tutto il cast, è una riflessione autentica e sincera che riesce ad andare più in profondità rispetto alla media dei servizi giornalistici o dei film più seriosi – gli stessi che per amore dello spettacolo e per paura di non offendere nessuno rimangono impegolati spesso negli stessi pregiudizi che avrebbero voluto sfatare. Morris invece spazza via tutto, sa che l’unico modo per raccontare questi personaggi è allontanarli dalla macchietta del musulmano pazzo, dipinge case, famiglie, abitudini quotidiane, disegna dei veri personaggi e gioca tutto sulla sua idea migliore: tracciare la differenza tra l’ignoranza e la cattiveria, tra la banalità e l’inevitabilità del male. Assolutamente consigliato.

Non è prevista un’uscita italiana. Il dvd inglese si può già acquistare.

R.I.P. Tony Curtis (1925-2010)

Tony Curtis è morto ieri a Las Vegas, aveva 85 anni.

R.I.P. Arthur Penn (1922-2010)

Arthur Penn è morto ieri a New York. Il giorno prima aveva compiuto 88 anni.

Innocenti Bugie, James Mangold 2010

Innocenti bugie (Knight and Day)
di James Mangold, 2010

Spesso e volentieri i film di cosiddetto-intrattenimento sembrano divertirsi a sfidare la sospensione dell’incredulità soprattutto attraverso sequenze d’azione che sfidano a loro volta le leggi della fisica e/o della logica. Per fare alcuni esempi a casaccio: True Lies di James Cameron, Desperado di Robert Rodriguez o Mission Impossible 2 di John Woo sono film che hanno spinto questo metodo fino alle estreme conseguenze – giustificandolo però rispettivamente con l’ironia, con il citazionismo, e con il puro stile. Matrix e i suoi sequel, a modo loro, hanno trovato l’inghippo ideale per annullare il problema: ambientando le sequenze stesse in un mondo parallelo cui le regole hanno perso ogni senso – e in cui tutto è concesso. È proprio per questo tipo di situazione che qualcuno ha creato l’orrido eppure diffusissimo termine “americanata”, parolaccia dispregiativa coltivata da decenni di antagonismo antiamericano e che presupporrebbe un’inesistente inferiorità intellettuale di quella che è, sommariamente, la più grande cinematografia al mondo. Detto questo, da queste parti difficilmente sentirete lamentele profonde e serie su quanto una sequenza sia “poco credibile”: nella maggior parte dei casi, una sequenza risponde all’economia generale del film in cui è inserita, all’immaginario da esso creato – che il più delle volte è coerente con se stesso anche se il film è brutto o malriuscito. Se il personaggio in questione sopravvive dunque a prove impossibili, non c’è niente di male in sé: la sua azione risponde a un’immagine del mondo creata intorno a lui e alla sequenza, e il problema con la sospensione dell’incredulità nasce dall’illusione che il mondo rappresentato nel film (d’azione, ma non solo) sia il mondo che sta fuori dalla sala – mentre invece non è che un’altra Matrice i cui confini spaziotemporali sono unicamente quelli del quadro e della visione.

Questo lunghissimo e inutile cappello solo per dire che la sequenza di Knight and Day ambientata a Pamplona è così cretina da mandare al macero queste mie ragionevolissime regole di accettazione e di rispetto. Un “salto dello squalo”, per tirare in ballo in modo (non del tutto esatto, a meno che non si voglia considerare il corpus dei film interpretati da Tom Cruise) una terminologia televisiva: non tanto per l’inferenza che in Spagna ci sia una corsa dei tori ogni volta che ci si mette dentro una macchina da presa, ma per la ricercatissima idiozia con cui tutta la sequenza è realizzata. Così, un film che fino a quel momento si era configurato umilmente come un action movie scemotto giusto con qualche ambizione da commedia brillante (sorprendentemente, la cosa migliore del film è proprio lo scambio screwball tra Cruise e l’insopportabile Cameron Diaz) ma che in reatà punta tutto – soprattutto nel budget – sull’esotismo sciatto del continuo cambio di location sulla falsariga dei M:I, nonostante qualche idea sinceramente azzeccata (la sequenza in cui Cameron Diaz “perde” un giorno e da una sparatoria in un capannone si ritrova in costume su un’amaca in un’isola deserta, con i flash velocisissimi dei “passaggi” intermedi) diventa a quel punto un palese affronto all’intelligenza dello spettatore medio. Si esagera a bella posta, insomma, nella consapevolezza che nessuno l’avrebbe comunque mai preso sul serio. Qui sta forse uno degli errori di fondo di Mangold (regista altalenante che qui si piega persino più del solito alle esigenze della produzione) e compagnia, simile a quello intravisto nel remake di A-Team: che un film di intrattenimento dalle premesse sanamente sciocche debba per forza diventare un film risibile, che una commedia action costosa e rumorosa non possa godere del rispetto che meriti, che si debba mandare tutto in vacca per farsi quattro risate. Non per niente il pubblico, a cui non piace essere preso in giro, non ha gradito.

Ma parliamo pur sempre di un film che ha attraverso un gran numero di cambi di rotta di regia, sceneggiatura (passata tra le mani di una dozzina di persone) e di casting, con Gerard Butler che gli ha preferito (questa, poi) The bounty hunter accanto a Jennifer Aniston. Il più grande peccato: non aver sfruttato a dovere il carisma di Cruise, attore sempre più interessante nonostante al giorno d’oggi alcuni pregiudizi legati alla sua dubbia sanità mentale gli diano qualche problema agli occhi del pubblico. Ne riparliamo tra una ventina d’anni.

Nelle sale italiane dall’8 ottobre 2010

My Son, My Son, What Have Ye Done, Werner Herzog 2009

My Son, My Son, What Have Ye Done
di Werner Herzog, 2009

Inutile nasconderlo, sentiamo la mancanza di David Lynch. Da quando quattro anni fa decise con l’immenso INLAND EMPIRE di tracciare una netta linea di separazione tra chi era disposto ad accettare fino in fondo le conseguenze devastanti del suo cinema e chi no, ci ha fatto penare e continua a farci penare per un nuovo capolavoro. Non abbiamo invece lo stesso problema con Werner Herzog, che negli ultimi anni ha continuato il suo percorso autoriale con indefessa coerenza, sia con le forme del documentario sia, come in questo caso, utilizzando a suo beneficio il cinema americano per proseguire il suo discorso sull’uomo e sul contrasto tra natura e cultura, e i suoi indimenticabili ritratti di uomini che trascinati dalla visione del volto autentico della Terra hanno riplasmato il mondo alle condizioni della propria geniale follia.

Quello che My Son potrebbe sembrare ma non è: un contentino per i fan dell’uno o dell’altro; un divertissement per chi si diverte ad abbinare con superficialità i nani al primo e le cascate al secondo. Quello che è: un pezzo di cinema radicale calato nelle fauci della fiction, una parabola di scontro travestita da stand-off poliziesco, in cui l’importanza assolutamente centrale della provocazione linguistica, per esempio attraverso una direzione degli attori scopertamente antinaturalista, asciugata di ogni espressione oppure caricata fino all’estremo, è solo uno strumento come un altro per svelare agli occhi dello spettatore l’assoluta assurdità del mondo.

A patto che egli accetti le regole non così esplicite di ribaltamento delle aspettative che, seguendo la lezione dei due registi, passa attraverso lo straniamento per arrivare alla rivelazione. Sarebbe difficile capirlo se la presenza ingombrante dei due nomi non fungesse da freccia luce al neon? Fatto sta che, nonostante il film sia di Herzog e herzoghiano in modo preponderante, tornando all’osservazione iniziale, anche il produttore David Lynch ci mette ben più che una zampata. Non tanto nel nano di turno, ma in quel modo assolutamente unico di osservare il mondo e di renderlo immediatamente inquietante, di mettere fuori posto gli elementi che sostengono la realtà e mescolando le sinapsi che li connettono – ma anche nella misura in cui My Son sa raccontare con spirito autenticamente surrealista i paradossi della periferia e della famiglia americana.

Uno stile e una firma, a modo suo, che si incontra con perfetta alchimia con quello di Herzog e con un cast che, per primo, accetta le stesse regole (primo tra tutti l’incredibile Michael Shannon) per raccontare tra i pochi metri quadri di una strada che separa due case, con lo sguardo rivolto a una natura lontana e imperscrutabile, una lotta tragica che confonde arte e vita e che non può avere vincitori né vinti. La sintesi perfetta tra i due grandissimi autori, in attesa magari di un film che porti ancora una volta al di là le molte premesse e le partite aperte da questo, è comunque quanto di più sorprendente e frastornante, in tutte le accezioni possibili, ci possa capitare.

Ip man 2, Wilson Yip 2010

Ip Man 2 (Yip Man 2)
di Wilson Yip, 2010

Forse non dipende dalle capacità di Wilson Yip, il fatto che il pur validissimo Ip Man 2 non sia all’altezza del bellissimo film che l’ha preceduto. L’impressione è che l’inferiorità sia data dal contesto. Il sequel nasce infatti, a quanto pare, anche dalla voglia di raccontare ciò che accadde dopo la fuga del maestro Ip Man a Hong Kong – vale a dire: l’incontro con un giovane Bruce Lee, grazie a cui l’arte e la leggenda del Wing Chun si diffuse in tutto il mondo. Ma i diritti degli eredi si sono messi tra il dire e il fare, e così a Yip e al produttore Raymond Wong è rimasto da raccontare quel lasso di tempo che va dagli accadimenti del primo film all’incontro stesso. Qui sta il relativo problema: ciò che succede in questo periodo è assai meno intenso di quello che abbiamo visto in Ip Man. Da una parte c’è la guerra, i giapponesi cattivi, un’autentica lotta per la sopravvivenza; da questa parte il baricentro si sposta sulla questione coloniale, l’orgoglio culturale delle arti marziali cinesi, i britannici che incarnano i nuovi villain.

In ogni caso, non fatevi ingannare dal precedente paragrafo: nonostante un certo calo d’interesse, Ip Man 2 è davvero uno spettacolo di tutto rispetto. Vedere Donnie Yen in azione è sempre e comunque una pacchia senza uguali (al giorno d’oggi) e l’incontro-scontro tra il nostro e un Sammo Hung stupendamente invecchiato (che cura anche in questo caso le bellissime coreografie, concedendosi ben più di un cameo)  su un tavolino pericolante è imperdibile. La teatralità delle scenografie e la precisione della fotografia, insieme alle musiche trascinanti di Kenji Kawai, chiudono il cerchio.

Per quanto riguarda l’anelato incontro con Bruce Lee, la risposta arriva sui titoli di coda. Mi piace pensare che un giorno o l’altro ce la faremo, a portarla a casa.

Come per il film precedente, non è prevista un’uscita italiana. Cosa me lo chiedete a fare.

Nel 2010 è uscito anche un prequel diretto da Herman Yau.

The housemaid, Im Sang-soo 2010

The housemaid (Hanyo)
di Im Sang-soo, 2010

Presentato all’ultimo Festival di Cannes, The housemaid è il sesto film diretto da uno dei più talentuosi registi della Corea del Sud, noto dalle nostre parti soprattutto per La moglie dell’avvocato (stranamente uscito nelle sale italiane) e che nei suoi precedenti due lavori, gli eccellenti The president’s last bang e The old garden, era riuscito nell’obiettivo di unire alla perfezione storie intense di personaggi con la ricostruzione di momenti storici recenti e ben precisi, ancora vivi e dolorosi nell’immaginario collettivo coreano.

The Housemaid è il remake di un classico del cinema coreano diretto da Kim Ki-young nel 1960 e racconta la storia di Eun-yi, una ragazza di bassa estrazione sociale che viene assunta per lavorare in una villa per una coppia ricchissima, come governante e babysitter di una coppia di gemelli non ancora nati, finché non viene travolta dagli eventi a causa dei capricci sessuali del suo datore di lavoro. Ma nonostante la progressione narrativa si rifaccia a meccanismi melò più tradizionali, Im non si accontenta affatto di rimanere ancorato a una prospettiva meno ambiziosa del solito o legato alla mera psicologia dei suoi personaggi: in realtà il film è una pungente e irresistibile parabola sui rapporti di potere e di classe in Corea del Sud.

Da una parte c’è il divario economico che spezza in due il paese, con ville da sogno in mano a famiglie di eterni bambini che ogni sera bevono una bottiglia di vino pregiato e ascoltano musica classica in soggiorno e una parte di popolazione che è costretta dalle proprie condizioni sociali al compromesso più bieco, che può sfociare addirittura in una nuova forma di schiavitù o di prostituzione dell’individuo. Dall’altra, ancora più rilevante, c’è il divario tra uomini e donne: e il ritratto feroce e disincantato, tratteggiato con cinismo e senza mezze misure negli altri tre personaggi femminili, cela dietro una prospettiva apparentemente misogina una lucidissima considerazione del potere smisurato dell’universo maschile.

In tal senso, le parole più rivelatorie e illuminanti dell’intero film sono quelle pronunciate dalla giovane madre di Hae-Ra, la ragazza incinta, per convincerla a far buon viso a cattivo gioco di fronte ai tradimenti del marito: “tutti gli uomini in quella famiglia sono così. Guarda tua suocera: ha dovuto attraversare cose orrende per colpa di quegli uomini. La gente normale non potrebbe nemmeno immaginarlo. Ma ha tenuto duro, per diventare quello che è oggi. E guardala ora: tutti venerano la terra dove cammina. Anche tu sarai così”. Ed Eun-yi è il punto di incontro di queste diseguaglianze, l’ultimo anello della catena sociale, una donna costretta a umiliarsi e a chiedere scusa per gli errori e le inguistizie altrui – e che proprio sul suo corpo gioca la sua inflessibile, disperata quanto definitiva vendetta.

Suck, Rob Stefaniuk 2009

Suck
di Rob Stefaniuk 2009

All’interno dell’inarrestabile trend-invasione dei film e delle serie tv sui vampiri (o con i vampiri dentro), Suck non si distingue sicuramente per le sue ambizioni di mercato: scritto, diretto e interpretato da un attore comico semisconosciuto al di fuori dei confini del Canada, il film è una piccola commedia horror con un’attitudine da musical rock, tutta basata sulla metafora del vampirimo come “selling out” discografico (simile a quella di Jennifer’s Body, se vogliamo: non certo una delle più pregnanti), caratterizzata da un’umorismo sciocco e non troppo originale e da una messa in scena scombiccherata che, a modo suo, diciamola tutta, fa anche simpatia.

Di fatto, l’unico motivo di vero interesse in Suck è la partecipazione di alcuni celeberrimi musicisti, che regalano infatti i momenti migliori del film: Moby è un metallaro di nome Beef che lancia pezzi di carne cruda dal palco e chiama il suo pisello “Baby Beef”, Iggy Pop è un saggio produttore che si pruduce in perle tipo “let me tell you what I’ve learned in my many travels: always use a condom, and never trust a goddamn vampire”, Alice Cooper è un temibile e potentissimo vampiro che (a me) ricorda morbosamente il Dream del Sandman di Gaiman, e c’è anche Henry Rollins che fa Henry Rollins. Tutti e quattro fanno una fine ingloriosa: halleluja. Il resto del film, a parte qualche gag (la vampira che succhia il sangue di un impiegato un po’ nerd con una cannuccia e poi, sgamata, dice “it’s not what it looks like”) è abbastanza dimenticabile. Per tacere delle canzoni.

Assolutamente geniale, invece, l’idea di utilizzare per un flashback di Malcolm McDowell (sì, c’è anche lui, nel ruolo di un cacciatore di vampiri per vendetta con la benda nera da pirata sull’occhio; e non vi ho ancora detto che si chiama Eddie Van Helsing) alcune scene appositamente rimontate di un film del 1973, nello specifico O Lucky Man! di Lindsay Anderson. Gran bella trovata.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana

A Serbian film, Srdjan Spasojevic 2010

A Serbian film
di  Srdjan Spasojevic, 2010

Appena ho finito di guardare A serbian film, prima di arrivare a capire se mi fosse piaciuto o meno, due pensieri mi sono passati per la testa. Il primo, che forse sono troppo vecchio (o troppo poco ossessionato) per queste cose. Il secondo, che al di là del giudizio di valore avrei generalmente sconsigliato il film a chiunque me l’avesse chiesto. Tanto è piuttosto facile convincere qualcuno a non guardarlo: basta raccontarglielo. Il giorno dopo, per esempio, sono stato invitato durante una pausa-pranzo a descrivere dettagliatamente la trama del film: il risultato è che nessuno degli astanti si azzarderà mai a vederlo.

Affrontare la visione con il distacco cinico grazie al quale è spesso più semplice scivolare attraverso le peggiori bestialità del cinema più “estremo” è, nel caso di questo film, davvero difficile: da un certo punto in poi, Spasojevic gioca al continuo rilancio con perfidia (ogni dieci minuti si arriva a pensare: cosa potrà mai succedere di peggio? E poi, puntualmente, succede di peggio) e con un piacere spietato della provocazione che difficilmente gli sarebbe concessa in altre cinematografie, costruisce un meccanismo narrativo assai intelligente considerati i temi del film (a metà film “saltiamo” tre giorni e siamo costretti a ripercorrerli con il protagonista in flashback man mano che costui riprende la memoria) e produce quella che è a tutti gli effetti una delle più terrificanti e implacabili discese agli inferi del cinema degli ultimi anni.

Un film di cui si potrebbe discutere per giorni e che sotto al torture porn non nasconde certo le sue ambizioni, persino storico-sociali, che sono perlopiù irrisolte: A serbian film è senza dubbio un’opera che mette in campo una riflessione sull’abisso umano in cui il contesto serbo ha ben più che una rilevanza contestuale, ma che fa sì che ci si chieda troppo spesso dove si fermi l’autentica riflessione sul presente e dove inizi la provocazione gratuita. Lo sberleffo finale fa propendere per la seconda ipotesi, e probabilmente qualcuno penserà anche che il film vada troppo oltre. Personalmente trovo che questo aspetto più “serio” del film di Spasojevic sia piuttosto debole, rafforzato semmai dall’abbinamento tra lo squallore definitivo rappresentato e una cerca ricerca visiva della rappresentazione.

A serbian film è invece molto più interessante come parabola acuta e disperatamente pessimista sui confini e sui limiti della visione, sia in senso cinematografico (il campo e il fuoricampo) che in senso morale, che innesca cortocirtuiti di voyeurismo tra i personaggi e lo spettatore che lasciano sinceramente con gli occhi spalancati.

Astenersi deboli di stomaco e puri di cuore.