2011

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#duemilaundici – il classificone dei film

[la lista si riferisce alla distribuzione italiana nell'anno solare, e quindi include soltanto film usciti nelle sale italiane di prima visione tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2011]

Top 15
I miei film dell’anno.
1. Drive di Nicolas Winding Refn
2. The Tree of Life di Terrence Malick
3. Super 8 di J.J. Abrams
4. Il Cigno Nero di Darren Aronofsky
5. Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno di Steven Spielberg
6. Il Grinta di Joel & Ethan Coen
7. Faust di Aleksandr Sokurov
8. Kick-Ass di Matthew Vaughn
9. La donna che canta (Incendies) di Denis Villeneuve
10. 13 Assassini di Takashi Miike
11. The Artist di Michel Hazanavicius
12. Una separazione di Asghar Farhadi
13. Poetry di Lee Chang-dong
14. Midnight in Paris di Woody Allen
15. Habemus Papam di Nanni Moretti

Menzione speciale: the others
Altri 15 film davvero bellissimi che però non ci stavano, in ordine alfabetico.
Boris – Il film / Blood story (Let me in) / Crazy, stupid, love / Easy Girl (Easy A) / Fast & Furious 5 (Fast Five) / The Fighter / Un gelido inverno (Winter’s bone) / I guardiani del destino (The Adjustment Bureau) / Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 / Monsters / Non lasciarmi (Never Let Me Go) / Rango / Ruggine / Super / Thor

Menzione speciale: the latecomers
I migliori film usciti in sala ma con anni di ritardo e quindi li metto qui perché sì.
1. Bronson di Nicolas Winding Refn
2. This Is England di Shane Meadows
3. Il buono, il matto, il cattivo (The good, the bad and the weird) di Kim Ji-woon

Menzione speciale: gli invisibili
I 10 migliori film visti quest’anno tra quelli che non sono usciti in sala.
1. Confessions di Tetsuya Nakashima (2010)
2. Submarine di Richard Ayoade (2010)
3. Attack the Block di Joe Cornish (2011)
4. Killer Joe di William Friedkin (2011)
5. Meek’s cutoff di Kelly Reichardt (2010)
6. Outrage di Takeshi Kitano (2010)
7. Another Earth di Mike Cahill (2011)
8. It’s Kind of a Funny Story di Anna Boden e Ryan Fleck (2010)
9. The man from nowhere di Lee Jeong-beom (2010)
10. Rare Exports di Jalmari Helander (2010)

Risponditore automatico: “Ehi, come mai non hai messo tal film?”
a) non l’ho visto
b) non mi è piaciuto
c) non mi è piaciuto abbastanza

Come ogni anno: nessuna classifica è la vostra tranne la vostra, questa è la mia.

Buone feste, ci ribecchiamo nel 2012. Fate i bravi.

Le Idi di Marzo (The Ides of March), George Clooney 2011

Le Idi di Marzo (The Ides of March)
di George Clooney, 2011

Un giovane e ambizioso consulente per le campagne elettorali del Partito Democratico diventa prima la pedina e poi il motore di un implacabile gioco di potere durante il voto per le primarie in Ohio. Arrivato al suo quarto film da regista e dopo la mezza delusione di Leatherheads, Clooney torna in gran forma con un film complesso ma piuttosto robusto ambientato dietro le quinte di un momento decisivo per la politica americana, raccontato con disilluso cinismo – ancora più duro se si considera il ruolo decisamente ambiguo che Clooney ha scelto per se stesso. La densa sceneggiatura scritta insieme a Grant Heslov e Beau Willimon non lascia troppi spiragli di luce: se l’ideologia è morta da un pezzo, l’idealismo rimane una tattica di facciata dietro cui si nasconde l’ipocrisia più spregiudicata, la lealtà privata di traguardi etici è un valore fine a se stesso, e l’unico modo per non farsi divorare è rispondere con le medesime armi, sporcare quel che resta del proprio candore, e prepararsi al cesaricidio. Il talento di Clooney, come già in Good Night and Good Luck, viene fuori soprattutto nella direzione degli attori: i momenti migliori sono infatti i tesissimi confronti psicologici tra i personaggi, tra cui gli abitualmente bravissimi Hoffman e Giamatti e un’ipnotica Evan Rachel Wood (mai così brava?), anche se Clooney affida tutto il cuore del suo film all’interpretazione trattenuta e dolente di Ryan Gosling.

Fright Night, Craig Gillespie 2011

Fright Night
di Craig Gillespie, 2011

Si può dire ciò che si vuole sul remake di Ammazzavampiri, cult movie di Tom Holland datato 1985 probabilmente assai diverso da come ve lo ricordate, ma non che si trattenga dal fare sforzi notevoli per svecchiare l’originale alla luce della consapevolezza e delle tendenze dell’horror contemporaneo – come quella che lega sempre più spesso il genere alla commedia. Si spinge molto, nella prima parte, sul personaggio geek di Christopher Mintz-Plasse, che interpreta un’altra variante più incattivita e antipatica di McLovin; d’altra parte, da un certo punto in poi, il perno dell’attenzione diventa invece il Peter Vincent di David Tennant.

Ed è lui, indubbiamente, il punto di forza del film: nelle mani dell’indimenticabile time lord di Doctor Who, Vincent diventa uno straordinario pavido showman rinchiuso in un decadente reliquiario vampiresco a Las Vegas che sembra rispecchiare la degradata tradizione stessa del film di vampiri: quando è in campo, come previsto, si mangia tutto il film – con buona pace del grossissimo Colin Farrell e dello spaesato Anton Yelchin. Lo stesso si può dire in qualche modo di Imogen Poots, splendida giovane attrice inglese già vista in 28 settimane dopoCenturion, ennesimo caso di out-of-his-league (come già Sarah Roemer in Disturbia o Haley Bennett in The Hole, per dirne due) che però grazie al suo carisma riesce a non cadere del tutto vittima dei cliché che le hanno ricamato intorno.

Uno dei maggiori limiti del film è il suo essere girato e pensato per il 3D: non sorprende che, di quando in quando, qualcuno lanci un oggetto verso gli spettatori, e la visione casalinga ne vanifica l’effetto circense. Un altro riguarda gli effetti visivi della nuit américaine, con le riprese diurne “scurite” in post-produzione per restituire l’idea del vespro che danno a gran parte del film una sensazione di fastidiosa artificiosità. Ma se si può fare il pelo allo stile o alla scarsa freschezza di tutto il progetto, il divertimento non manca affatto: Gillespie manovra il film con professionalità, tenendo per sé un paio di numeri da primo della classe (il long take durante la fuga in macchina come ne La guerra dei mondi di Spielberg), ma conservando un piglio leggero e onesto: basta guardare gli effetti speciali, sempre il meno realistici e plausibili possibile, perfettamente in linea con un film piuttosto sciocco ma, per nostra fortuna, ben conscio di esserlo.

#duemilaundici – i miei 12 dischi dell’anno




1. PJ HarveyLet England Shake
2. The DecemberistsThe King is Dead
3. Jay-Z & Kanye WestWatch The Throne
4. Florence and the MachineCeremonials
5. Beyoncé4
6. I CaniIl sorprendente album dei Cani
7. FeistMetals
8. Anna CalviAnna Calvi
9. Bon IverBon Iver
10. RadioheadThe king of limbs
11. VerdenaWow
12. Lisa HanniganPassengers

Bill Cunningham New York, Richard Press 2010

Bill Cunningham New York
di Richard Press, 2010

Bill Cunningham è un celebre fotografo del New York Times che, nel corso degli ultimi decenni, ha imposto il suo personalissimo stile diventando un punto di riferimento della cultura newyorkese e della fotografia di moda – anche perché ha contribuito a diffondere l’idea, ora sempre più riconosciuta, che la moda non stia sulle passerelle bensì sulla strada. Il coinvolgente documentario di Richard Press si concentra soprattutto sul paradossale rapporto tra la sua attività pubblica e la sua vita privata: l’ultrasettantenne Cunningham, che viene indicato come un’icona dall’intero mondo della moda, vive (o meglio viveva, ai tempi delle riprese) in un minuscolo appartamento nell’edificio della Carnegie Hall dove l’enorme archivio di tutte le sue foto mai scattate lascia appena il posto a una piccola branda, gira solo in bicicletta, si veste sempre nello stesso modo (il più pratico, a detta sua), conduce dunque un’esistenza quasi ascetica, comunque disinteressata all’universo bizzarro e colorato che rappresenta nelle sue foto. Nell’indagare le motivazioni di questo stile di vita, Press si tiene quasi sempre a una debita e rispettosa distanza, racconta la storia di Cunningham con un misto di ammirazione e tenerezza – ma alla fine tira un’inevitabile stoccata che, alla luce di quanto visto durante il film, apre uno spiraglio malinconico e doloroso sulla sua intera esistenza. Ma uno dei lati più interessanti del bel documentario riguarda il contrasto tra l’evoluzione inarrestabile della città di New York e la rigida inflessibilità del suo protagonista, che in un mondo digitalizzato e perfezionato si ostina a scattare foto con apparecchi analogici, cambiando rullini in corsa, scattando sulla sua bici verso il prossimo evento mondano, per poi sparire nel nulla, verso la sua rassegnata e sorridente solitudine.

Ho visto il film in un piccolo cinema di Akaroa, nel sud della Nuova Zelanda. Negli USA è uscito nel marzo 2010, mentre nel Regno Unito dovrebbe arrivare la prossima primavera. Al momento non sono a conoscenza di una data d’uscita italiana.

The Artist, Michel Hazanavicius 2011

The Artist
di Michel Hazanavicius, 2011

Ciò che mi ha davvero conquistato di The Artist, film muto in bianco e nero che negli ultimi mesi è diventato un vero “caso” (tanto da diventare uno dei favoriti per i Grossi Premi Americani del prossimo anno) è che funziona, benissimo, quasi a prescindere dall’impressionante ingombro del suo progetto. Il rischio di un film simile era, chiaramente, quello di un’operazione ironica che ammiccasse ai cinefili (non necessariamente agli “esperti”: agli amanti del cinema) dimenticando il pubblico, risultando velleitaria, presuntuosa o – peggio ancora – fredda e sterile. In verità Hazanavicius utilizza l’artificio insieme scaltro e coraggioso della riproduzione quasi-filologica del cinema degli anni del muto per restituire un’esperienza di un’onestà e di una semplicità semplicemente rinfrescanti; non mancano i pezzi di bravura, come la citatissima e irresistibile scena onirica in cui il sonoro “invade” il sogno di Valentin, ma il risultato è emozionante, autentico, quando non commovente – penso al montaggio parallelo che introduce la risoluzione finale, o alla sequenza meravigliosa in cui Bérénice Bejo si nasconde nel camerino di Valentin e ne abbraccia l’abito. La configurazione narrativa ricorda, per ovvie ragioni, quella di uno dei massimi capolavori del cinema americano, Singin’ in the rain, ed è difficile non pensare a Gene Kelly di fronte alla mimica e al corpo del favoloso Jean Dujardin, ma la bellezza di The Artist è proprio nella sua capacità di non trincerarsi dietro una facile nostalgia fine a se stessa, né per quella del muto nello specifico né per l’inevitabile mutamento che il cinema attraversa e continuerà ad attraversare lasciando alle spalle i detriti del passato: quella che vuole raccontare Hazanavicius è una storia d’amore e di orgoglio, di ossessione e di rinascita, che prescinda dai linguaggi con cui viene raccontata per andare dritta al cuore – ma mantenendo come perno inamovibile una passione vitale e travolgente per il cinema e per le sue storie.

#planewatched: The Help, The Beaver, Contagion

Come i più attenti avranno notato, a novembre sono stato via qualche giorno. Sono andato lontanuccio. E ho fatto dei lunghi, lunghissimi voli aerei. Durante i quali, a dire il vero, non avevo molta voglia di vedere film – infatti ne ho visti solo tre. Questi tre. La nota puntigliosa è che la qualità e la grandezza dello schermo permetteva una visione di discreta qualità, ma trattandosi di una condizione così peculiare (e non volendo più rimandare) per stavolta ho deciso di venir meno alla rigidità del format e di metterli tutti insieme.

The Help
di Tate Taylor, 2011

Il problema, nello scrivere di un film come The Help, è che i suoi elementi più interessanti stanno al di fuori del film; argomenti che non ho tempo, né voglia, di toccare qui. Per dirne uno: quanto c’è di veritiero, quanto di onesto, e quanto di sottilmente offensivo da un punto di vista storico-sociale nella storia della ragazza emancipata che aiuta le “governanti” di colore nel sud degli Stati Uniti a sfogare letterariamente gli ultimi (tra virgolette) retaggi dello schiavismo? Il film in sé, va detto, è assai meno stimolante delle polemiche che può suscitare, ma preso a sé stante funziona alla perfezione: si tratta di un “Oscar Movie” fatto e finito, ma è tenuto in vita per tutta la sua (notevole) durata dal suo eccezionale cast tutto al femminile, tra cui spiccano l’ottima Viola Davis (l’unica a recitare con un po’ di understatement, e infatti è la migliore del gruppo), un’adorabile Jessica Chastain e una fantastica Octavia Spencer, mentre Emma Stone per una volta risulta un po’ fuori posto. Bryce Dallas Howard spinge sul pedale dell’eccesso e della macchietta, finendo però per regalare un personaggio autenticamente irritante – ed è un complimento.

The Beaver
di Jodie Foster, 2011

Potrei ricopiare quanto ho scritto per The Help, e stavolta riguarderebbe, ovviamente, lo scontro tra attore e personaggio. Ma in questo caso il paratesto, diciamo così, fa parte del gioco: non c’è dubbio che la scelta di Jodie Foster di raccontare l’esaurimento nervoso di Mel Gibson alla luce delle vicende personali dell’attore contribuisca non poco a rinforzare il suo film – un dramma psicologico dalle venature bizzarre che riesce a riportare però, con il giusto dosaggio di ironia e patetismo, una trama quasi irraccontabile su binari sostanzialmente digeribili. Al minutaggio del film però non basta il ben definito e coinvolgente percorso di ascesa e caduta di un mostruosamente bravo Gibson, a cui affianca quindi quello del figlio Anton Yelchin, che occupa un buon terzo del film pur essendo del tutto accessorio – se si esclude la solita, incredibile Jennifer Lawrence.

Contagion
di Steven Soderbergh, 2011

Non ho certo visto tutti i film di Steven Soderbergh, scaltro e altalenante regista per cui – lo ammetto – non provo particolare simpatia, ma ho l’impressione che Contagion possa davvero essere il suo film migliore. La cosa certa è che si tratta di uno dei thriller migliori dell’anno: un’Apocalisse sanitaria orchestrata con classe e cinismo, accompagnata dalla colonna sonora perfetta di Cliff Martinez (in stato di grazia, tra questa e quella di Drive) che sfrutta alla perfezione gli elementi base della paura del contagio e un cast assurdamente ricco – spezzando però la più tradizionale coralità: i personaggi non si incontrano quasi mai tra di loro, sono perlopiù isolati, perduti o disperati, quando non propriamente vittime del sadismo del regista. La grande differenza che rende ancora più efficace Contagion è che qui non è “l’errore umano” a scatenare il contagio, ma un’incontro tra il Caso e il sistema globale – un incontro che ci scopre molto più fragili di quanto pensiamo, al di là della nostra scienza e della nostra volontà. Soderbergh non nasconde di fatto un certo interesse per una riflessione quasi satirica (la burocrazia farmaceutica, lo sgradevole blogger di Jude Law) ma il suo interesse è altrove, concentra tutte le sue energie sulla messa in scena, e il risultato è un horror teso ed entusiasmante, con un finale che è uno schiaffo in faccia, una risata beffarda e un presagio oscuro.

L’alba del Pianeta delle Scimmie (Rise of the Planet of the Apes), Rupert Wyatt 2011

L’alba del Pianeta delle Scimmie (Rise of the Planet of the Apes)
di Rupert Wyatt, 2011

L’ultima volta che qualcuno ha provato a riportare la saga di Planet of the Apes al cinema, lo sappiamo, non è andata nel migliore dei modi: il film di Tim Burton uscito ormai 10 anni fa, un blockbuster cupissimo e non proprio equilibrato, ebbe (in pochi lo ricordano) un enorme successo commerciale, ma venne anche universalmente (e spesso ingiustamente) maltrattato – e i fan più intransigenti del regista non gliel’hanno mai perdonato. Questo reboot, che prende lontanamente spunto da alcuni capitoli della saga originale, cerca di riportare, non con un prequel ma con una compiuta “storia delle origini” su cui impiantare una nuova serie, l’interesse del pubblico sulla storia della conquista della Terra da parte dei primati, proprio allontanandola da velleità (e aspettative) autoriali; e riuscendo in definitiva nell’impresa non facile di confezionare un film avvincente e intelligente capace di accontentare pubblico e critica. Parte di questa riuscita la si deve ovviamente all’evoluzione tecnologica che permette al film di Wyatt di essere anche una sorta di showcase della Weta, esemplificazione strabiliante dello stato dell’arte per quanto riguarda l’integrazione tra live action e CGI; ma è proprio nell’interpretazione (epocale, nel suo ristretto genere) del solito Andy Serkis che si trova la chiave del successo dell’operazione: a costo di non essere certo esente da qualche ingenuità, Rise è un film che nel turbinio dell’azione hollywoodiana e della meraviglia binaria non dimentica mai di curare e accarezzare il suo lato umano. Anche se ha le fattezze di uno scimpanzé.

30 minutes or less, Ruben Fleischer 2011

30 minutes or less
di Ruben Fleischer, 2011

Il secondo film di Ruben Fleischer nasceva sotto i migliori auspici: la sua opera prima Zombieland era stata una delle commedie horror più sorprendenti degli ultimi anni; il cast comprendeva non soltanto lo stesso Jesse Eisenberg, ormai lanciatissimo, ma anche un talento comico indiscusso (e in netta ascesa) come Aziz Ansari oltre all’ormai irrinunciabile Danny McBride; e il plot sembrava rifarsi approssimativamente al modello dell’ottimo Pineapple Express di David Gordon Green. Purtroppo 30 Minutes or Less, nonostante sia un film sufficientemente gradevole e davvero ben realizzato, stenta a spiccare sulla media e sembra accontentarsi di un minimo sindacale di divertimento. Gli si riconosce il merito di voler tagliare davvero corto (il film dura circa un’ora e 20, ma sembra persino più breve) senza tirarla per le lunghe come spesso accade nella commedia americana odierna, ma per quanto riguarda il disegno dei personaggi la cosa non va del tutto a suo vantaggio, e al di sotto del ben calibrato mix di generi e della bravura degli interpreti mancano completamente il carattere e l’inventiva che avevano reso così indimenticabile l’opera precedente di Fleischer. La questione Danny McBride è più particolare: la star della magnifica serie Eastbound and down subisce un deciso calo di carisma e interesse se si priva il suo personaggio-stampino ignorante e vanaglorioso (con tanto di spalla) ogni accenno di redenzione, trasformandolo di fatto in un villain vero e proprio. E questa sottile ma radicale differenza toglie al film un’ambiguità morale che, forse, gli avrebbe giovato.

Il film dovrebbe uscire anche in Italia con WB, prima o poi.

Another Earth, Mike Cahill 2011

Another Earth
di Mike Cahill, 2011

Dopo aver festeggiato l’ammissione al MIT, la giovane Rhoda, guidando verso casa, sente una notizia alla radio: il puntino blu che è apparso nel cielo quella notte è un vero pianeta, finora rimasto nascosto, e del tutto simile alla Terra. Distratta dal tentativo di scorgerlo dal finestrino, Rhoda si schianta contro una macchina ferma causando la morte di una donna e di un bambino.

La premessa di Another Earth – sarebbe un peccato rivelare molto di più sulla trama, ma anche sulla natura del pianeta gemello (attenti ai trailer spoilerosi) – fa capire piuttosto bene quale sia il meccanismo del film, che affronta la fantascienza da una prospettiva singolare quanto la sua ambientazione nella periferia del Connecticut, distante dalla spettacolarità hollywoodiana (dopotutto il film è costato solo 200 mila dollari), per raccontare una storia di errori, rimpianti e impossibili riscatti, dolorosa e intensa, visivamente originale e quasi impressionista. Per Cahill, e per la bravissima protagonista e co-sceneggiatrice Brit Marling, il genere serve soprattutto allo scopo di rivelare l’intimità dei personaggi, ma questo non impedisce ad Another Earth di essere all’occorrenza anche uno dei film di fantascienza più curiosi, affascinanti e sorprendenti degli ultimi tempi. Come nell’improvviso e beffardo finale: un vero colpo di genio che riesce a trascinare l’inquietante mistero del film, delle sue domande sull’identità e sulle seconde occasioni, ben oltre i titoli di coda.

Presentato all’ultimo Sundance, il film uscirà in dvd negli states alla fine di novembre, e in queste settimane è prevista l’uscita in sala in mezza Europa. In Italia dovrebbe uscire il 18 maggio 2012.


appendice al pube / guida non esaustiva alle nuove serie tv (ottobre/novembre 2011)

Dove eravamo rimasti? Ah, sì. Un mese fa vi ho raccontato i pilot di un po’ di nuove serie tv di settembre. Adesso possiamo terminare l’infornata autunnale con quelle iniziate tra ottobre e l’inizio di novembre – alcune delle quali sono cominciate da settimane, permettendoci di giudicarle non soltanto dall’episodio di apertura.

Homeland (Showtime) è, molto brevemente, la migliore nuova serie della stagione. La protagonista è un’agente della CIA convinta che il Sergente Brody, ritrovato in un buco in Iraq dopo otto anni di prigionia, sia stato convertito e sia diventato un terrorista. Dal canto suo, Brody deve affrontare il ritorno in famiglia: i figli non l’hanno quasi conosciuto, la moglie si stava rifacendo una vita – e con il suo migliore amico. La serie riempie in qualche modo il vuoto lasciato dalla compianta Rubicon, ma riesce a sorpassarla giocando in modo perverso con i punti di vista dei suoi personaggi: dopo 6 episodi non ha conosciuto un momento di stanca, e c’è già una seconda stagione all’orizzonte. Claire Danes è incredibile, il resto del cast non sta certo a guardare. Recuperatela subito.

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Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno, Steven Spielberg 2011

Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno (The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn)
di Steven Spielberg, 2011

Prima di Tintin ho sempre guardato con sospetto all’utilizzo massiccio della performance capture nel cinema d’animazione, forse per questioni di gusto estetico, forse perché ha allontanato dalla strada maestra la carriera di un regista del calibro di Robert Zemeckis. Ma è proprio con un film realizzato in questo modo che si realizza un desiderio inespresso ma covato nel nostro cuore da tempo: non soltanto il ritorno di un gigante come Steven Spielberg alla sua forma migliore, ma anche di un genere puramente avventuroso, quasi dimenticato e da tempo favolosamente nostalgico, di cui lo stesso regista aveva scritto una pagina memorabile con la trilogia di Indiana Jones.

Si intenda, Tintin non era un film “rischioso”: una macchina produttiva da 135 milioni di dollari, l’egida di Peter Jackson, la penna di tre fra i migliori sceneggiatori britannici in circolazione, un personaggio che – per ammissione stessa del regista e anche dell’autore Hergé, scomparso nel 1983 – sembrava fatto apposta per diventare il protagonista di un film di Spielberg. La sorpresa non è dunque che Tintin sia riuscito, divertente, ben scritto e realizzato, ma che sia così maledettamente irresistibile, che sia all’incirca il miglior Spielberg degli ultimi 10 anni e quello più “meraviglioso”, forse, dai tempi di Jurassic Park, un film dove si ritrova quello stesso senso di incanto e la capacità di restituirlo sullo schermo che ha “passato” ad Abrams in Super 8, ritrovato nel proprio passato per quello che diventato è a tutti gli effetti – dimenticando quel quarto fallimentare capitolo – l’unico Indiana Jones possibile.

Partendo da spettacolari titoli di testa firmati Weta che aggiornano quelli, già classici, di Catch me if you can, il Tintin di Spielberg è un film che non lascia allo spettatore un attimo di tregua e di respiro, inanellando un’invenzione dietro l’altra in un’autentica giostra dinamica – di cui il 3D funge da propagatore e non da alimentatore – ma senza il pericolo che si tratti di horror vacui: lo scopo dell’orchestra animata organizzata da Spielberg e Jackson è quello di sbalordire e rilanciare di continuo, ed è un obiettivo raggiunto e superato. Anche perché le sequenze migliori del film, come quella del deserto che in un flashback si trasforma in un mare in tempesta oppure l’incredibile, quasi impensabile piano-sequenza dell’inseguimento del falco mostrano che dietro Tintin c’è non solo il talento narrativo e commerciale che nessuno oserebbe negare a Spielberg, ma la sua capacità prettamente geniale di piegare tutto, le esigenze tecnologiche, economiche, tecniche, artistiche, a una poetica di rara schiettezza e a una passione nel fare cinema che lascia negli occhi uno stupore ubriacante. Ne vogliamo ancora. E ne avremo ancora.

Una separazione, Asghar Farhadi 2011

Una separazione (Jodaeiye Nader az Simin)
di Asghar Farhadi, 2011

Nader e Simin sono una coppia borghese benestante di Teheran, dove vivono con la figlia undicenne e il vecchio padre di Nader. Simin ha ottenuto dopo anni il visto per lasciare il paese, ma il marito non se la sente di lasciare il padre malato di Alzheimer; così la donna decide che la separazione è l’unica soluzione possibile, e Nader rimasto solo con la figlia è costretto a prendere in casa Razieh, una religiosissima donna incinta che baderà all’anziano in sua assenza, ma all’insaputa del turbolento marito Houjat.

Asghar Farhadi, aggirando la censura (il film era stato temporaneamente bloccato a causa di alcune dichiarazioni del regista, in favore di colleghi esiliati e imprigionati, che l’avevano costretto a fare pubblica ammenda pur di continuare a lavorare) costruisce una storia di personaggi che apparentemente non scava nel tessuto sociale dell’Iran di oggi, ma finisce in verità per raccontarlo come pochissimi altri sono riusciti a fare – attraverso proprio le armi del dramma, asciuttissimo e spietato, più che attraverso quelle del film di denuncia. Nella storia raccontata da Farhadi i personaggi non sono infatti mossi soltanto dalle enormi contraddizioni sociali e religiose del paese ma da pulsioni invividuali, da un’umana, universale e “normalissima” quotidianità sotto cui si intravedono a ogni passo trame sociali che forniscono l’innesto narrativo di gran parte del film, e che sono di base le radici del contrasto tra le due coppie di protagonisti.

E la forza del film è proprio in questo formidabile quartetto di personaggi, i cui interpreti non a caso sono stati premiati collettivamente a Berlino, costruiti su dialoghi martellanti e un crescendo tesissimo che, da mezz’ora circa fino alla fine del film, mette a dura prova i nervi dello spettatore – soprattutto perché gioca con calcolata severità sul ribaltamento morale, con il risultato che si finisce a fare il tifo per tutti e (più probabilmente) per nessuno. Farhadi, che si dimostra un regista di grande sensibilità ma anche di grande fiuto, è riuscito in un vero colpo da maestro: un film estremamente specifico (su un paese spezzato a metà, in balia di se stesso e alla ricerca disperata di una propria normalità) ma anche terribilmente universale, comprensibile a tutti, su quattro persone che assistono all’implacabile combustione del proprio mondo, e che lottano contro di essa buttandoci dentro i propri valori pur di uscirne indenni.

Nota: il trailer è molto bello ma anche molto spoileroso; il mio consiglio è quello di guardare il film senza sapere della trama niente di più di ciò che vi ho detto lassù.

Melancholia, Lars Von Trier 2011

Melancholia
di Lars Von Trier, 2011

Se diamo per accertata la scaltrezza che lo contraddistingue, Lars Von Trier nel suo ultimo film sembra voler applicare alla lettera una considerazione sul cinema più diffusa di quanto non si voglia ammettere – e cioè, che la gran parte del pubblico si ricorderà soprattutto l’inizio e la fine del film. Così, il regista danese apre Melancholia con una sequenza di spaventosa bellezza, una decina di minuti (forse meno) composti da autentici tableau vivant (non a caso utilizzati massicciamente nella pubblicistica del film) con un uso del ralenti che ne moltiplica esponenzialmente l’intensità – uno stile che però viene immediatamente abbandonato all’apertura del film vero e proprio. Allo stesso modo, Trier chiude il film in modo tragicamente emozionante, con una ventina di minuti che svolgono alla perfezione lo spunto iniziale in funzione, finalmente, dei suoi due personaggi principali – peccato che per arrivare a tutto questo si debba passare attraverso un’ora di insostenibile celebrazione nuziale che va a scatafascio e che, se pure ha certamente lo scopo di costruire il personaggio di Justine, appare a giochi fatti come un’evitabile e lunghissima digressione, utile semmai al regista perché si muove su territori a lui più consoni. La sorpresa del film è che in realtà Melancholia risulta più interessante quando si sposta sul genere, anche se osservato da una prospettiva trasversale: se tra i due capitoli che compongono il corpo centrale del film il secondo funziona decisamente meglio non è soltanto a causa della radicalizzazione del contrasto tra Justine e Claire, né perché Charlotte Gainsbourg è più brava di una bellissima e stranamente acerba Kirsten Dunst, ma anche perché il film si riappropria di un senso di minaccia più comprensibile e universale, rimettendo in campo il gigantesco e ineffabile Melancholia – destinato a divorare questa Terra e i suoi piccoli stronzi uomini – e con esso una potenza e un mistero tale da trasformare l’infelicità umana nel sogno passeggero e malinconico di un piccolo pianeta già fantasma. Un film spezzato a metà, quindi, tra la suggestione e la tensione dei primi e degli ultimi minuti e uno studio di personaggi inefficace quando non irritante. Un’indecisione programmatica, ma che impone al film anche un freno emotivo non indifferente: forse era quello che voleva suggerire Trier, giunto ad una sorta di epitome nichilista, ma per questa umanità non è rimasta nemmeno una lacrima da versare.

Faust, Aleksandr Sokurov 2011

Faust
di Aleksandr Sokurov, 2011

Una delle più grandi ovvietà che si possano dire sul Faust di Sokurov, vincitore del Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, è che non è un film per tutti. Ma è anche una verità. Non ci si riferisce però, come potrebbe sembrare, alle capacità intellettuali dell’autore e spettatore, ma all’accettazione di un patto. Un film, ogni film, nasce da una sorta di stipulazione, oserei dire diabolica a questo punto, che può esaurirsi con il tempo della visione o durare una vita intera, tra il film stesso e lo spettatore: il primo presenta una visione del mondo, un sistema di valori e di leggi, che il secondo dovrà accettare per riuscire a far parte dell’esperienza filmica. In questo, e non tanto nella sua intelligibilità, sta la differenza, soltanto relativa, con il cinema a cui siamo abituati: il Faust è un film che chiede al suo spettatore qualcosa in cambio. Una possibile chiave per eliminare questo scarto, che provoca certamente timore – ce ne sono molte altre: la bellezza del film sta anche nella sua capacità di essere qualcosa di completamente diverso per ciascuno, inclusa la possibilità che per qualcuno sia soltanto un film terribilmente noioso – la propone lo stesso Sokurov all’inizio del film, con una spettacolare e inquietante inquadratura a volo d’uccello che mette la sua ben nota storia all’interno di una cornice tutt’altro che realistica, aliena, onirica: l’esperienza inconscia prima ancora che razionale è forse la modalità più semplice per affrontare il film, e i suoi personaggi che promettono di essere padroni del loro destino quando non fanno che schiacciarsi l’uno con l’altro, sballottati come in una teca di vetro o in una palla di neve. E non c’è dubbio che per Sokurov l’impianto visivo sia di principale importanza: la sua riflessione sul desiderio passa sì anche attraverso esacerbanti monologhi filosofici, insistite bizzarrie surrealiste e consuete provocazioni formali, ma già dalla scelta del formato è l’immagine pura – al tempo stesso meravigliosamente pittorica e arditamente sperimentale, antica e moderna come la storia che racconta – a imporsi come il filtro attraverso cui osservare il mondo. Che poi Sokurov riesca o meno a comunicare attraverso la sua ricerca esacerbante un significato compiuto e autentico, quello è un altro discorso: ma il suo magnifico film è prima di tutto un’esperienza ipnotica da cui ciascuno trarrà conclusioni differenti, e che lascia una forte traccia del suo passaggio. Si tratta senza dubbio di un patto impegnativo, a tratti più sacrificale che mutuale, ma è un contratto su cui sono felice di aver messo la firma.

Midnight in Paris, Woody Allen 2011

Midnight in Paris
di Woody Allen, 2011

“What is it with this city? I need to write a letter to the Chamber of Commerce.”

Chi ha dato per scontato, a causa di qualche titolo poco riuscito, che Woody Allen fosse del tutto bollito e che fosse ormai capace di funzionare – il caso di Whatever Works - solo su copioni vecchi di trent’anni, si dovrà probabilmente ricredere di fronte a Midnight in Paris: un’opera insieme colta e semplice, poetica e divertentissima, sul potere avvincente e stordente della nostalgia, in cui Owen Wilson, alter ego dell’autore perfetto come pochi altri prima di lui, interpreta uno sceneggiatore hollywoodiano con ambizioni da romanziere che finisce per incanto nella Parigi dei suoi adorati anni ’20, a bere con Hemingway, Fitzgerald e Cole Porter – e a innamorarsi di una bellissima musa di Picasso che a sua volta sogna di vivere nella Belle Époque.

Ricco di suggestioni che vanno al di là del gioco spassoso dei riferimenti e dei riconoscimenti (con un cast spettacolare in cui spiccano l’incredibile Dalì di Adrien Brody e la Zelda Fitzgerald di Alison Pill), tra cui una riflessione profonda e inestimabile sul valore artistico assoluto della città come opera d’arte in continua mutazione, il film di Allen riesce a raccontare una Parigi talmente bella e formidabile da saper spezzare la linearità del tempo riducendolo a strati, e insieme al bravissimo Darius Khondji riesce a fotografarla – fin dai seducenti titoli di testa – sfuggendo sempre con grande naturalezza, anche nei suoi aspetti più “turistici”, al pericolo dell’effetto-cartolina. E grazie ai suoi dialoghi magnifici, prima cinici e poi totalmente stregati, Allen trova proprio nella necessità di liberarsi della nostalgia, di guardarla semmai con ammaliato distacco, un rimedio impareggiabile per sopravvivere al presente.

“That’s what the present is. It’s a little unsatisfying, because life is unsatisfying.”

Submarine, Richard Ayoade 2010

Submarine
di Richard Ayoade, 2010

Ambientato in Galles nella metà degli anni ’80, Submarine è l’opera prima di un apprezzato regista televisivo e musicale, noto però ai più per aver interpretato il ruolo di Maurice nella splendida sit-com The IT Crowd. Ma nel raccontare la storia di Oliver Tate, quindicenne che cerca di sfuggire alla quotidiana mediocrità dell’adolescenza (l’emarginazione sociale, il bullismo, il primo amore, la prima volta, la separazione tra i genitori, la paura della morte) trasformando la sua vita interiore in un intenso racconto cinematografico, Richard Ayoade è riuscito ad andare ben oltre ogni possibile aspettativa, realizzando un piccolo miracolo – un romanzo di formazione sentimentale incredibilmente coinvolgente e di strabiliante intelligenza, uno dei film britannici più belli e coinvolgenti degli ultimi anni. L’ha fatto sfruttando al massimo la bravura dei suoi due protagonisti Craig Roberts e Yasmin Paige (ma anche gli “adulti”, tra cui spicca Paddy Considine, sono memorabili) e inventandosi uno stile personale, spesso roboante e grafico, tra fumetto e cinefilia, ma basato su uno storyboard di grande precisione, e giocando sempre sul limite tra immaginazione, alienazione e una tangibile, sorridente malinconia. Un autentico gioiello, impreziosito dalle bellissime (di per sé, ma anche per come sanno dialogare con le immagini e con la storia) canzoni di Alex Turner degli Arctic Monkeys, un film semplice ed emozionante che ci chiede senza troppi pudori di innamorarci di lui – e a cui, francamente, non sapremmo come o perché dire di no.

Il film è stato presentato e acclamato a Toronto, al Sundance e a Berlino, per poi uscire nel Regno Unito lo scorso marzo; grazie alla co-produzione di Ben Stiller ha trovato anche una distribuzione negli Stati Uniti, riscontrando il medesimo unanime successo di critica.

Al momento non mi risulta che sia prevista un’uscita italiana.

Potete già acquistare le edizioni britanniche in dvd e blu-ray. E vi consiglio di farlo.

Amici di Letto – Friends With Benefits, Will Gluck 2011

Amici di Letto (Friends With Benefits)
di Will Gluck, 2011

Arrivare in ritardo rispetto a No Strings Attached ha giovato in molti modi a Friends With Benefits: abbiamo visto come e quanto si poteva sbagliare un film con un tema così simile, e ciò contribuisce a valorizzare ancora di più quanto sia riuscito questo differente svolgimento. Ma il vantaggio competitivo, non solo nei confronti di Reitman ma anche della media dei romance odierni, era già sulla carta: quella formata da Justin Timberlake e Mila Kunis è un’accoppiata davvero rara, sono terribilmente (troppo?) bravi, affascinanti ed entrambi di una bellezza travolgente (tanto che la loro alchimia rischia di causare un attrito nello sviluppo narrativo: come possono due simili bombe atomiche metterci così tanto per innamorarsi l’uno dell’altra?); e poi c’è l’invidiabile cast di contorno (Harrelson, Jenkins, la solita fantastica Patricia Clarkson, i cameo di Emma Stone e Andy Samberg) e un regista come Will Gluck, che ha già avuto modo di mostrare (nel bellissimo Easy A ma anche nella sua stupidissima spassosa opera prima Fired Up) di avere freschezza, ritmo, e talento nella direzione degli attori.

Ma la cosa migliore di Friends With Benefits, come già nei due film precedenti di Gluck, è indubbiamente la sua spiccata consapevolezza: come accade sempre più spesso (dai tempi di Insonnia d’Amore, forse) si tratta di una commedia romantica ambientata in un mondo in cui esistono le commedie romantiche; quindi, un’altra sorta di variazione su come proprio queste ultime, al fianco dei più canonici complessi legati al rapporto con i propri genitori eccetera, condizionino irrimediabilmente i rapporti tra giovani uomini e giovani donne – lo dice la Kunis esplicitamente all’inizio, prendendosela con Katherine Heigl di fronte a un poster di The Ugly Truth, e lo dice il film – in modo semplice ma assolutamente geniale – con l’inserto di un film-nel-film, una commedia ridicolizzata eppure irresistibile con Jason Segel e Rashida Jones.

Certo, Gluck non mantiene per tutta la sua durata (non irrilevante: circa 110 minuti) l’inarrestabile cadenza dei dialoghi – spesso davvero esilaranti – della prima metà e lo sguardo beffardo e cinico sui rapporti di coppia, ma anche questo fa parte del gioco, in un film che si muove in parallelo ai suoi personaggi: il sesso lascia spazio ai sentimenti, il romanticismo mette in ombra lo scherzo, e così (come già avevo notato in Crazy Stupid Love di Ficarra e Requa) anche Friends With Benefits finisce per diventare la commedia romantica che era stata guardata con derisoria distanza. E non c’è niente di male.

This Must Be The Place, Paolo Sorrentino 2011

This Must Be The Place
di Paolo Sorrentino, 2011

Da quando abbiamo deciso che Paolo Sorrentino sarebbe stato l’unico (o il più probabile) regista italiano a potersi confrontare non solo con la qualità ma anche con lo stile e – perché no – con la vendibilità dei maestri del cinema americano, una domanda, anche alla luce dei riconoscimenti, è balenata in molte delle nostre menti: come si troverebbe Sorrentino in una produzione di quel tipo? This Must Be The Place è la risposta: un film quasi interamente italiano, ma recitato in inglese, interpretato da una star, con un budget sostanzioso (poco meno di 30 milioni di dollari) e ambientato all’estero – in Irlanda, e ovviamente negli Stati Uniti.

La soluzione di questa curiosità è però, purtroppo, abbastanza deludente. Il problema di This Must Be The Place – lo avrete letto e lo leggerete ovunque - è soprattutto una questione di misura: Sorrentino è sempre stato un regista virtuosistico e baldanzoso, lo dimostrano i clamorosi pezzi di bravura disseminati nei suoi film precedenti e che non mancano nemmeno qui, ma in questo film il regista e il solito Luca Bigazzi (che fa però un lavoro davvero ammirevole intorno agli spigoli e nel cuore del mito estetico dell’America on the road) perde spesso il controllo del mezzo tecnico, in un profluvio inarrestabile di dolly e di carrelli; che però, purtroppo, sembrano non procedere insieme al personaggio, né verso alcuna direzione a dire il vero, danzandogli piuttosto davanti in un’altalena vertiginosa; il regista sembra dimenticarsi il potenziale trasporto emotivo di un movimento di macchina trasformandolo in una fiaccante chinetosi.

Certo, il film non è tutto qui: c’è la riuscita e peculiare interpretazione di Penn (pur rovinata irrimediabilmente dal doppiaggio italiano), c’è la colonna sonora di David Byrne (intorno a cui Sorrentino costruisce l’immancabile pezzo di bravura, vedi sopra), c’è un’ironia sorniona e quieta che a tratti riesce a conquistare – ma l’esuberanza formale rimane in primo piano, nascondendo frequentemente (basti pensare ai tre lenti ed elaborati carrelli circolari con cui è girato il lungo monologo di Aloise Lange, sotto ai quali le parole – pur pesanti e provocatorie – perdono di rilevanza) molte delle difficoltà e le debolezze della sceneggiatura, decisamente meccanica (la risoluzione finale del personaggio), spesso indecisa (per esempio nel tratteggio di personaggi secondari solo in funzione del protagonista) e forse persino un po’ pretestuosa.

Va detto però che questo film (che non è un brutto film in senso assoluto, diciamo che si tratta di una questione di prospettive) rappresenta un punto di svolta importante per il cinema italiano: una produzione nostrana che ha investito capitali ingenti, non solo economici, su un vero Autore che non ha paura di mettere nel film tutto se stesso, tutte le sue capacità, a manciate, a badilate, senza paura di fallire – o meglio, anche a costo di fallire. Sorrentino avrà preso male le misure e si sarà fatto trascinare troppo, ma è ancora il regista di cui si parlava all’inizio: l’unico in grado di competere davvero con i maestri, e di vincere. Un esempio per tutti, persino in un film sommariamente sbagliato come questo.

Crazy, Stupid, Love., Glenn Ficarra e John Requa 2011

Crazy, Stupid, Love.
di Glenn Ficarra e John Requa, 2011

Dopo l’improvvisa richiesta di divorzio, Cal (Steve Carell) comincia a sbevazzare in un bar alla moda, dove viene avvicinato da Jacob, fascinoso womanizer (Ryan Gosling, niente meno) che gli promette di forgiarlo a sua immagine. Nel frattempo, il figlio Robbie è innamorato della babysitter; che però a sua volta è innamorata di Cal. Eccetera. Le cose prendono una piega imprevista dopo l’incontro tra Jacob e Hannah, un delizioso avvocato con la faccia di Emma Stone.

Crazy Stupid Love è un caso più unico che raro: una commedia romantica corale (o quasi) sulle relazioni sentimentali e sull’amore che non risulta sciapa, meccanica o stucchevole. Ficarra e Requa sono riusciti in questo intento, in realtà, tramite un doppio inganno: i due registi, che con I Love You Phillip Morris avevano già dimostrato di sapersi districare tra gli ingranaggi della commedia inserendovi piccole scariche elettriche ed esplosive, fanno ancora una volta il giro intorno ai cliché, ma anche alla loro stessa political incorrectness, per arrivare a una soluzione dell’intreccio che riesce a chiudere in modo impeccabile tutte le parentesi senza rinunciare all’umanità e al cuore dei suoi personaggi. Diventando di fatto una tenera e divertente commedia romantica, e basta: non so se il cinema americano ne abbia bisogno, noi sì.

E i meriti sono divisi equamente tra la sceneggiatura di Dan Fogelman (che viene dalla Disney: ha scritto Cars e Rapunzel), i registi che hanno il coraggio di prendersi tutto il tempo disponibile (il film dura due ore secche, andando spesso ben al di là dello “stretto necessario”), e infine gli attori, ovviamente fondamentali per la riuscita del film, ma qui in particolare stato di grazia. E se Julianne Moore è Julianne Moore, Analeigh Tipton è una gran bella scoperta ed Emma Stone non è nemmeno più catalogabile come essere umano, il meglio lo danno Carell e Gosling: un’inattesa e incredibile coppia comica.

Il film è uscito nelle sale italiane il 16 settembre. Purtroppo non se n’è accorto nessuno: nelle sole due settimane di programmazione erano tutti a vedere il film dei Puffi.