La solitudine dei numeri primi
di Saverio Costanzo, 2010
Non mi capita molto spesso di pensare che un film sia radicalmente trasformato dalle scelte della sua colonna sonora. Qualche volta però capita un film che ci ricorda quanto sia importante il rapporto tra musica e immagini – ovviamente in opere che fanno utilizzo delle musiche in modo significativo: il fatto che sia così evidente può anche non andare a vantaggio del film stesso. In La solitudine dei numeri primi, la cui bellissima colonna sonora è curata da Mike Patton, ci sono almeno tre musiche, tutte intradiegetiche, che sono fondamentali per lo svolgimento del racconto: l’incipit spettacolare della recita teatrale dei bambini, con un pezzo inedito dei Goblin; la lunga sequenza della festa adolescenziale, con la musica da discoteca dei primi anni ’90; la scena dell’incontro tra Mattia e Alice nell’appartamento di quest’ultima, con Bette Davis Eyes. Il primo pezzo, per esempio, riesce da solo a dare il La all’intera narrazione successiva: La solitudine dei numeri primi è un romanzo di formazione sentimentale ma è raccontato come un horror, ne richiama i toni, la costruzione della tensione, ma di fatto è la colonna sonora a fare gran parte del lavoro. Per quanto riguarda la sequenza centrale della festa liceale, ovviamente inframmezzata dai flashback e i flashforward attraverso i quali è raccontata la storia di Alice e Mattia, quello è il punto del film dove Saverio Costanzo si sblocca dagli indugi che hanno caratterizzato la prima parte, e ancora una volta la musica sembra essere il veicolo ideale per questa autentica liberazione dalla sceneggiatura. L’impressione che ho avuto è che la collaborazione con Giordano non abbia giovato al film, i cui primi tre quarti d’ora sono caratterizzati da dialoghi forzati, personaggi di poco interesse e una generale scarsezza di energia visiva e narrativa, seguendo un’idea fin troppo scoperta della trasposizione letteraria sotto la quale si intravede poco cinema. Nel momento in cui i personaggi smettono di parlare, in cui la musica assordante copre le loro voci divenute inessenziali, il film diventa più interessante – prima un tour de force visivo e sonoro (a patto di vederlo nelle condizioni ideali: a volume altissimo) e poi una inevitabile concatenazione di eventi in cui il gioco del montaggio parallelo acquista finalmente un senso compiuto. I dialoghi, il grande ostacolo alla riuscita completa di questo film inusuale e sbilanciato, smettono di avere un peso e si gioca di più sui rapporti tra i corpi, sui contrasti tra i luoghi. Il film smette di spiegare e comincia a raccontare: bisogna dargli un po’ di pazienza e fiducia, ma il film di Costanzo, imperfetto ma coraggioso, qualcosa restituisce. E infine, la canzone di Kim Carnes, che Alice sta ascoltando a volume altissimo quando Mattia arriva alla sua porta e che non viene interrotta al suo ingresso: anche qui è la musica a parlare, insieme agli sguardi e ai corpi dei due protagonisti. Nel finale, a parlare è il silenzio.
(recensione da applauso silenzioso)
Saverio Costanzo è il Gennaro Nunziante degli snob festivalieri.
sono abbastanza concorde con te. il dialoghi che mi son piaciuti di più sono stati i due “si” “no” “si” “no”. non scherzo, eh
Mi unisco all’applauso di Raevan ma non voglio che sia silenzioso… Ma scosciante proprio! Recensione bellissima e giustissima. L’uso della musica in quei momenti è strepitoso e un film del genere, con le sue imperfezioni, è comunque da vedere e soprattutto apprezzare.
Isabella Rossellini è bravissima e la scena del matrimonio mi ha gelato il sangue.
il problema di questo film è il cognome del regista e forse anche il nome. Non l’ho visto e credo che non lo vedrò. Recensione bella come sempre e grazie per avermi rivelato la parola che cercavo dentro di me da mesi: intradiegetica
Bellissima recensione….hai saputo esprimere tutte le mie sensazioni