febbraio 2011

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R.I.P. Annie Girardot (1931-2011)

Annie Girardot è morta oggi a Parigi. Aveva 79 anni.

Post in attesa: gli arretrati

Giusto per precisare: il blog è ancora vivo. E la prossima settimana si parla di questi film.


R.I.P. Dorian Gray (1936-2011)

[addio]

Maria Luisa Mangini AKA Dorian Gray si è uccisa oggi, all’età di 75 anni.

It’s Kind of a Funny Story, Anna Boden e Ryan Fleck 2010

It’s Kind of a Funny Story
di Anna Boden e Ryan Fleck, 2010

“Do you like music?”
“Do you like breathing?”

Spesso se un film mi piace mi metto giù quei cinque minuti e mi spiego perché mi piace. A volte un film mi piace e basta. Lo riconosco, It’s kind of a funny story è un film quasi programmaticamente ruffiano, persino un po’ paraculo se lo si mette a confronto con Half Nelson di Boden e Fleck, ed è un film che non sceglie certo la via più tortuosa per parlare della malattia, della terapia, della cura: così come le sue soluzioni narrative non puntano certo a stravolgere alcun punto di vista. Ma forse perché non trovo personalmente nulla di sbagliato nell’affontare una storia o un tema con un po’ di propositività, in barba a quel modo diffuso e un po’ distorto di guardare ai film che premia solo e soltanto chi “fa vincere i cattivi” e disprezza a prescindere la pratica dell’happy end, It’s kind of a funny story è un film che mi ha totalmente, indistricabilmente incastrato. La verità è che Boden e Fleck hanno realizzato poco più che un’opera armoniosa e gradevole, ma che compie il mezzo miracolo di chiudersi dentro un reparto psichiatrico per un’ora e mezza senza risultare patetico nemmeno per un minuto, dando magari al bravo Keir Gilchrist un ruolo ruvido e difficile da amare (troppo intelligente, troppo furbo, troppo sensibile) ma azzeccando completamente quello che è, per sua definizione, uno dei casting secondari impossibili per eccellenza: appunto, il reparto psichiatrico. In particolare la sorprendente Emma Roberts, la cui bellezza non deve trarre in inganno sulla sua bravura (la ragazza ha un futuro che va ben oltre i meriti del suo DNA) e Zach Galifianakis, usato finalmente in modo brillante e originale – ovvero sottolineando l’espressività geniale della sua fase calante e non solo del suo lato più rabbioso e incontrollabile, giocando tutto sulla sottrazione invece che sull’accumulo: un rischio visto il contesto, certo, ma del tutto premiato da risultati. Il film è poi realizzato con una grazia ineccepibile, anche nella messa in scena, anche se alla fine a conquistare è soprattutto l’affetto e l’empatia davvero contagiosa nei confronti dei suoi personaggi, e non solo quando esprimono timori o paure. Chiude il cerchio la musica, sempre fondamentale per Boden e Fleck, che ritrovano ancora una volta i Broken Social Scene nel ruolo di curatori della colonna sonora – tra cui spicca la versione per solo piano di Where Is My Mind dei Pixies realizzata da Maxence Cyrin: assolutamente omicida.

Insomma, un film che mi piace e basta.

Il film è uscito negli USA lo scorso ottobre. Non ha ancora una data d’uscita italiana.

Nel frattempo è uscito in dvd Regione 1.

Parto col folle (Due Date), Todd Phillips 2010

Parto col folle (Due Date)
di Todd Phillips, 2010

Quando ho visto per la prima volta il trailer di Due Date ho pensato, ehi, questo film assomiglia parecchio a Un Biglietto in Due – uno dei film di John Hughes più belli ma anche meno tra i meno citati non avendo degli adolescenti in divisa come protagonisti. Poi ho visto Due Date e ho pensato, ehi, questo film è Un Biglietto in Due. Ma proprio paro paro. Questa in realtà è quasi solo una notazione di costume: non c’è niente di male a fare un omaggio tale da sfiorare il remake non dichiarato; il problema qui non è mica il plagio, il problema è la debolezza del film. Nonostante le buone premesse, Todd Phillips non riesce insomma a replicare l’alchimia che aveva trasformato The Hangover in un caso commerciale senza precedenti e in una delle commedie americane più spudoratamente divertenti dell’ultimo biennio: qui ci si limita a mettere in campo un carattere ben definito e precisamente inquadrato, interpretato da Robert Downey Jr., e lo si fa scontrare con la pulsione anarchica che Zach Galifianakis secerne da tutti i pori anche quando sta immobile, stando fermi a osservare quali colori e suoni vengono fuori dalla loro banale e scontata deflagrazione. Ci si diverte, a tratti, indubbiamente, ma l’indubbia presenza scenica dei due attori non sembra bastare, anche perché Downey sembra svogliato e a Galifianakis tocca trascinare tutto il film più o meno da solo: difficile farlo però senza il supporto di una sceneggiatura intelligente che mostri coerenza e rispetto nei confronti dei personaggi e del pubblico (la follia bonaria di Ethan si sposta più spesso sui binari dell’irragionevolezza che su quelli di una, che so, sana cattiveria) oppure, in caso contrario, che sappia far esplodere veramente il film. Che invece è costruito su un’alternanza tra scoppi e quiete, si buttano giù i palazzi ma si dà tutto il tempo alle squadre della protezione civile di ricostruirli invece di insistere, di minare alle fondamenta, di distruggere tutti i palazzi intorno: e così è troppo facile. Unico momento veramente irresistibile, la comparsata (purtroppo breve) del grande Danny McBride allo sportello della Western Union: per il resto, la gag del cane che si masturba è un’adeguata cartina al tornasole. Non rimane che l’aggiornamento tiepido e un po’ sterile di un canone risaputo, rassicurante e “simpatico”: ci si può accontentare, ma è davvero poca cosa.

Rabbit Hole, John Cameron Mitchell 2010

Rabbit Hole
di John Cameron Mitchell, 2010

“Does it ever go away?”
“No, I don’t think it does. Not for me, it has gone on for eleven years. But it changes though.”
“How?”
“I don’t know. The weight of it, I guess. At some point, it becomes bearable. It turns into something that you can crawl out from under and carry around like a brick in your pocket. And you even forget it, for a while. But then you reach in for whatever reason and there it is. Oh right, that. Which could be aweful. Not all the time. It’s kinda… not that you’d like it exactly, but it’s what you’ve got instead of your son. So, you carry it around. And uh, it doesn’t go away. Which is…
“Which is what?”
“Fine, actually.”

Per me Rabbit Hole ha significato in primo luogo un riavvicinamento a un’attrice che in passato, come spero molti di voi, ho amato tantissimo, ma che negli ultimi anni era diventata quasi irriconoscibile e, soprattutto, su cui nessun regista ha più osato buttare l’intero peso di un film – direi dai tempi del sottovalutato Birth di Jonathan Glazer. Intendiamoci: Nicole Kidman non ha mai smesso di essere brava, ma per un po’ ha smesso di essere grande. Questo è il film del suo ritorno, una sorta di consacrazione tardiva rallentata dal botox e dal miscasting: non è quasi mai stata splendida e perfetta come in questo film, e il lavoro di John Cameron Mitchell si muove di conseguenza, con una regia impensabilmente distante dai suoi film precedenti che costruisce un vero tempio intorno alla performance della sua diva, che come il film è sfaccettata, dolente, ma anche buffa e straordinariamente misurata, e inevitabilmente commovente. Guidato dalla Kidman, dalla fotografia quieta e rigorosa, e dal talento e dalla vivacità del cast di contorno, Rabbit Hole traccia una strada da percorrere che passa attraverso l’accettazione del dolore e la convivenza con l’assenza, parla dei nostri modesti e vani tentativi di liberarci dei mattoni che ci portiamo nelle tasche e della paura di non ritrovare l’indecifrabile consolazione di quel peso: è il racconto dell’elaborazione di un lutto più leggiadro che si possa immaginare, ma questo non lo rende meno struggente – semmai lo avvicina alla semplice e implacabile assurdità della vita.

Nei cinema dall’11 febbraio 2011

The Fighter, David O. Russell 2010

The Fighter
di David O. Russell, 2010

Si sente spesso dire che The Fighter è un film d’attori, supportato quasi unicamente dal suo incredibile cast: il dato indiscutibile è riflesso nelle tre nomination nelle categorie riservate ai “non protagonisti”. In realtà, come si sa, dal lavoro eccellente di un attore o di un gruppo di attori non consegue automaticamente la riuscita del film: ci vuole una mano sicura che guidi le loro interpretazioni all’interno della storia, ci vuole una sceneggiatura solida, insomma, ci vogliono un sacco di altre cose. Fortunatamente, David O. Russell non lascia per nulla in mano il film al quartetto di star: The Fighter è un film bello e robusto, diretto (e montato, anche) con talento e intelligenza, che sfrutta con freschezza ed elasticità sia i molti cliché da film sportivo che la trovata metacinematografica attraverso cui è raccontata la prima metà, per raccontare la voglia di riscatto di un’America ai margini della società così come delle grandi città – qui siamo Lowell, poche miglia fuori Boston – all’interno di una storia di conflitto famigliare risolta forse in modo risaputo ma davvero convincente e, perché no, anche catartico.

Tornando all’incredibile bravura dei suoi quattro attori, a cui si aggiunge senza dubbio la formidabile truppa di donne che circonda le vite dei due fratelli (la sequenza buffa e minacciosa al tempo stesso in cui saltano in macchina con la madre per andare ad affrontare Amy Adams è una delle migliori del film), The Fighter riesce in un’impresa ancora più difficile, ovvero quella di contenere le performance più strabordanti grazie a una perfetta tecnica di bilanciamento all’interno del cast: se da una parte c’è il solito metodico Christian Bale, dimagrito di metà del suo peso e con la scritta Oscar stampata su tutto il corpo, dall’altra (anche se l’Academy non se n’è accorta) c’è un Mark Wahlberg sorprendente e understated che grazie alla sua provenienza sociale non ha bisogno di fare tanto rumore per portare a casa una prova da applausi; stesso discorso per l’acclamatissima Melissa Leo, accanto alla quale spicca una Amy Adams inusuale, sporca, sensuale e bellissima: è lei la più bella sorpresa di questo film, la sua immagine più persistente.

Al cinema dal 4 marzo 2011

All Good Things, Andrew Jarecki 2010

All Good Things
di Andrew Jarecki, 2010

Non ho niente contro i film squinternati, di per sé: ma se questo squilibrio pregiudica il gusto della visione, è un altro discorso. All Good Things per esempio è un film talmente indeciso su quale direzione prendere che sembra fare una bandiera proprio di questi suoi continui cambi di rotta. Ma ci vuole ben altra mano per gestirli: Andrew Jarecki, già regista dello straordinario (e lontanissimo) Capturing the Friedmans, utilizza il suo talento da documentarista solo in fase di documentazione, e spalleggiato dal pretesto della “storia vera” dimentica a casa del tutto l’ironia e il senso della misura lasciando il suo primo film di finzione in balìa (oltre che di una delle più irragionevoli ellissi narrative che io abbia mai visto: un salto di 20 anni in uno schiaffo) di sviluppi narrativi che sembrano accadere al film, inerte, più che ai suoi personaggi, affrontando di petto il ridicolo involontario ma trovando, di fatto, solo una gran noia. Peccato, perché la prima metà del film non è niente male: Gosling, si sa, è favoloso, ed è nato per fare la parte dello psicopatico represso, Kirsten Dunst è una solo bella figurina ma di fatto le si chiede poco, l’atmosfera di irragionevole minaccia è ben disegnata intorno ai due personaggi e soprattutto intorno ai luoghi in cui vivono, la scena della festa di laurea in cui Gosling trascina fuori la moglie per i capelli dalla casa dei parenti mi ha fatto persino strabuzzare gli occhi; ma dopo il nocciolo centrale della trama il film va in tutt’altra direzione e perde brevemente ogni fascino e interesse. Dopotutto, la promozione del film è stata basata tutta sul fatto che la Dunst tira fuori i capezzoli: si poteva immaginare che sotto sotto non ci fosse granché da promuovere?

E poi c’è Ron Swanson senza baffi, è una distrazione.

Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (You will meet a tall dark stranger), Woody Allen 2010

Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (You will meet a tall dark stranger)
di Woody Allen, 2010

Questa volta non ci casco. Negli ultimi dieci anni Woody Allen, uno dei più grandi e importanti cineasti americani degli anni ’70 e ’80, ammettiamolo, non ha trovato sempre la strada giusta nel raccontare le sue storie, così come non ha trovato l’entusiasmo unanime della critica (se si esclude il caso clamoroso di Match Point), ma personalmente sono spesso stato disposto a passarci sopra, anche di fronte a film debolucci come Sogni e delitti e Vicky Cristina Barcelona. Questa volta no. Questa volta è davvero irrecuperabile. E la trovata di aprire e chiudere il film con risapute considerazioni scespiriane sull’insensatezza delle vicende umane non può essere una giustificazione per l’insensatezza del film che sta in mezzo a esse. Anzi, risulta ancora di più una presa in giro che suona come una frettolosa e imbarazzante scusante a posteriori: lo so, questo film è il vuoto pneumatico totale, ma ehi, non è così anche la vita?

Ma no, che non è così. Per fortuna.

Dispersival – Milano 9-13 febbraio 2011

Da queste parti non si parla quasi mai di eventi cinematografici o cinefili ma questa volta facciamo un’eccezione perché l’organizzazione è curata da persone in gamba, affiatate e appassionate, e perché l’argomento non potrebbe essere più caro al sottoscritto.

L’appuntamento è al cinema Gnomo di Milano da domani 9 febbraio fino al 13 febbraio per Dispersival – Il festival dei film che non ci fanno vedere. Il nome dell’evento parla più o meno da solo: si tratta di una bella rassegna di film inediti nelle sale italiane, scelti con gusto, cura e varietà dai ragazzi di Hideout e dell’associazione La Scheggia.

Tra i titoli presentati durante i cinque giorni del festival ci sono alcuni film di cui si è parlato (bene) su questo blog come Youth In Revolt di Miguel Arteta, Dead Man’s Shoes di Shane Meadows e My Name is Bruce di Bruce Campbell. Roba buona.

Per tutti i dettagli c’è il sito ufficiale del festival. Se siete a Milano, fateci un salto.

Qualunquemente, Giulio Manfredonia 2011

Qualunquemente
di Giulio Manfredonia, 2011

Ciò che mi fa più innervosire di Qualunquemente è che te la fa annusare, la vittoria. Ti crea l’illusione di essere riuscito davvero a prendere un personaggio televisivo e trasformarlo in una commedia acida che riflettesse l’immagine dell’Italia contemporanea tramite l’arma del grottesco e dell’eccesso, come da migliore tradizione se vogliamo. E per un po’ ci si crede: colpa o merito della regia assai impegnata e professionale di Manfredonia, e della prima mezzora in cui si consumano quasi tutte le idee (non troppe) della sceneggiatura. Ma dopo una partenza scoppiettante, il modo drastico e inevitabile con cui il film si ammoscia minuto dopo minuto rende ancora più indigeribile la sconfitta, raggiunta replicando allo sfinimento le trovate della prima parte senza mai riuscire a sfondare con una risata liberatoria il muro del sorriso a denti stretti, e con la netta sensazione che si siano divertiti più loro a realizzarlo che noi: mai compiacersi troppo delle proprie barzellette. Albanese è anche bravo, a modo suo, ma non ha il coraggio di liberare Cetto La Qualunque dai tic e dai tormentoni, né di trasformare la sua cattiveria buffa in cattiveria amara; Sergio Rubini invece è soltanto una macchietta, che non sarebbe nemmeno un male se solo fosse una macchietta divertente. Davvero un peccato: la prossima volta impariamo a diffidare di un film, per quanto possa starci simpatico il suo autore, che sia nato da uno sketch televisivo, per quanto si possa trovare spassoso e geniale lo sketch stesso. Che il cinema è un’altra roba.

Monsters, Gareth Edwards 2010

Monsters
di Gareth Edwards, 2010

Se non ne avesse parlato mezzo mondo prima di me, sarebbe facile etichettare questo film come una delle sorprese più curiose del cinema britannico dello scorso anno, forse la più curiosa in assoluto. In realtà la sorpresa è passata da un pezzo: ma vedere Monsters senza la possibilità di essere trascinati solo dalla sua originale peculiarità è un’esperienza positiva, perché si possono apprezzare anche le qualità specifiche del film in sé, la sua progressione rilassata e coinvolgente, la cura visiva, la sensibilità e la capacità di fare di necessità virtù con cui l’esordiente Edwards ha messo in scena ancora una volta l’umanità alle prese con l’ignoto, ma – come già aveva fatto l’eccezionale District 9 – spostando in avanti il baricentro temporale della narrazione: non più l’attacco, l’epifania, l’arrivo degli alieni sulla terra, ma “qualche tempo dopo”, quando gli alieni fanno ormai parte dello sfondo e agli esseri umani non rimane che continuare con la loro vita, costruendo sui confini della civiltà occidentale altri e nuovi muri invalicabili a separare le città da ciò che più le spaventa.

Ma forse c’è ancora qualcuno che non sa ancora di cosa si tratti: in tal caso, gli basti sapere che Gareth Edwards ha realizzato Monsters con un budget molto ridotto, girando nell’America centrale nel corso di tre settimane, a volte senza permessi, con una crew di sole sette persone e accumulando take differenti basati soprattutto sull’improvvisazione, chiudendosi poi nella cameretta per alcuni mesi a montare e ad aggiungere di persona gli effetti speciali – gli aerei, i carri armati e soprattutto i mostri. Che però nel film si fanno volutamente desiderare: Monsters è infatti “un film di mostri senza i mostri”, o quasi (in realtà ci sono), un aspetto che probabilmente ha fatto imbestialire alcuni ma che dà tutto il tono al film con il suo mescolare l’intimismo da cinema super-indipendente all’amore per il genere puro. Quello che Monsters rappresenta è anche in qualche modo anche una liberazione del genere dai limiti impressi dalle grandi produzioni, con la complicità di una democratizzazione tecnologica senza precedenti. Insomma, Monsters mostra senza dubbio, o consacra se vogliamo, un modo diverso di utilizzare al cinema i linguaggi e i canoni della sci-fi, ed è un passo importante che (ancora una volta: come già District 9) potrebbe causare sul lungo periodo dei piccoli sconvolgimenti – e non a caso Edwards sembra già aver dato il La ad altri progetti che condividono un’indole non dissimile.

Che questa sia la miccia di una rivoluzione culturale che aprirà le porte della fantascienza a nuovi modi di raccontarla, o che sia un esperimento destinato a finire nella massa dei cult movie, oggetti senza futuro che risuonano come specchio dei loro tempi (e Monsters lo è, fino nel midollo) una cosa è certa: che questo è un film imperfetto e semplice ma fatto con il cuore, nato senza dubbio da una piccola curiosità tecnologica ma in cui alla fine è la tecnologia a sparire dietro le naturali doti di narratore visivo di Edwards, che è un film che chiede pochissimo e restituisce molto, e che quell’incontro finale alla pompa di benzina, con la comprensione definitiva di una bellezza e di un amore che vanno al di là del bene e del male, non ce lo scorderemo così in fretta.

Il film è nel listino di One Movie e dovrebbe uscire nel mese di marzo 2011.

Il Cigno Nero (Black Swan), Darren Aronofsky 2010

Il Cigno Nero (Black Swan)
di Darren Aronofsky, 2010

Sembra che uno degli argomenti più dibattuti a proposito del nuovo, e davvero stupendo, film di Darren Aronofsky sia la sua relazione con le opere della sua filmografia, in particolare l’ultimo The Wrestler. Messa da parte l’ammissione del regista di una parentela superficiale tra i due titoli (per il loro trattare di due forme non così dissimili di “performance art”) e il suo modo mobilissimo e ormai inconfondibile di stare addosso ai personaggi riempiendo tutto lo schermo con i loro corpi (e con le loro cicatrici), l’impressione è che in Black Swan resti soprattutto l’ossessione per l’ossessione stessa, la ricerca sfibrante di una verità nascosta dietro la nuca di un protagonista, l’illusione vana di andare a scovarla – ma a differenza del precedente, questo è un film che non gioca soltanto con la “materia pesante” ma riporta la sua riflessione su un piano diverso, confondendo le carte in modo squilibrato ed efferato, sfruttando e buttando addosso ai nervi e al cuore dello spettatore l’incredibile colonna sonora (che alterna la “rilettura” di Tchaikovsky ai Chemical Brothers), e giocando dall’inizio alla fine al gatto e al topo con lo spettatore – proprio come con Nina. Quest’ultima, interpretata da Natalie Portman, mai così bella, fragile, forte e formidabile, si mangia tutto il film e noi con lei, in adorazione: alle colleghe quest’anno non resta che tacere, stare sedute e applaudire. Poi per alcuni Black Swan va letto come un’eccellente variazione autoriale su profondi temi psicanalitici e psichiatrici, per altri è soltanto un horror eccezionale ambientato in una New York cupa e spettrale che non si vedeva da anni: comunque la si veda, con il suo film Aronofsky si è fatto perdonare molte colpe e, ora possiamo dirlo senza paura che si trattasse di un’eccezione, il suo è davvero uno degli sguardi più lucidi e chirurghici sulla psiche umana che il cinema americano possa offrire – ed è anche un regista horror con i controcazzi.

Nelle sale dal 18 febbraio 2011

Un consiglio: la prima volta, andate a vederlo in sala.

127 Ore, Danny Boyle 2010

127 Ore (127 Hours)
di Danny Boyle, 2010

Danny Boyle non è un regista dalle mani di fata, lo sappiamo bene. Danny Boyle è il tipo di regista che se deve raccontare di un tizio che rimane incastrato da solo e lontano dalla civiltà per 127 ore in un canyon con il braccio destro schiacciato sotto un masso, apre il film con delle immagini di aggregazioni umane, spiagge gremite, manifestazioni. Ma a Danny Boyle piace mettere le cose in chiaro e mettersi a fare cinema il prima possibile, piantare la tenda accanto al suo protagonista e non muoversi di lì finché non ha tentato il tutto per tutto. 127 Hours è la rappresentazione ideale di questo sforzo artistico, e se il suo non si può definire propriamente cinema sperimentale, non c’è dubbio che a Boyle piaccia sperimentare: nonostante l’ambientazione, come dire, “ristretta”, la narrazione non conosce mai fasi di stanca, anzi mantiene una tensione impressionante per tutta la durata proprio grazie alla ricchezza a volte frastornante del linguaggio, tra split-screen e flashback sempre più allucinati che vanno anch’essi ad affiancarsi al protagonista, come una sorta di preghiera laica che sfocia anche in un inquietante e visionario sogno di liberazione. “Il mio corpo reagisce in modo strano” e il cinema lo fa di conseguenza. Prima che entri in gioco l’attesa e violenta risoluzione della storia di Aron, la cui notorietà non la rende assolutamente meno allucinata e spaventosa: una sequenza in cui Boyle toglie del tutto il piede dal freno giocando in modo perverso, sadico ma in qualche modo liberatorio, con le immagini e soprattutto con il sonoro e che palesa una volta per tutte la natura di survival horror che il film sembrava voler celare, sintesi perfetta delle capacità registiche (non sempre espresse al meglio altrove) di Boyle e del suo amore per il cinema di genere. Con questo film, uno dei suoi più riusciti accanto a titoli come Trainspotting e Sunshine, Boyle è riuscito nonostante il contesto ad allontanarsi radicalmente dall’esperimento fine a se stesso per raccontare, con l’aiuto di James Franco (davvero incredibile, e non lo diciamo solo per simpatia) una storia appassionante di sopravvivenza, un’estenuante e assurdo confessionale umano fuori dai margini della civiltà, in un buco nero (con un quarto d’ora di sole) dove è possibile confrontarsi con gli abissi del sé, e liberarsene. Tutto, o quasi tutto, in due o tre metri quadrati.

Nei cinema dal 25 febbraio 2011

I ragazzi stanno bene (The Kids Are All Right), Lisa Cholodenko 2010

I ragazzi stanno bene (The Kids Are All Right)
di Lisa Cholodenko, 2010

L’aspetto migliore di The Kids Are All Right è che non si tratta di un film a tema: pur essendo ambientato all’interno di una famiglia diversa dai canoni cosiddetti tradizionali (Jules e Nic sono due madri che hanno partorito un figlio ciascuna dal medesimo donatore) il film della Cholodenko non forza mai il discorso sulla diversità né sottolinea in modo particolare od ostentato l’alterità di questa famiglia californiana: è vero, il suo film racconta, in modo finalmente sereno e naturale, forse idilliaco per qualcuno, di un modo differente di intendere la famiglia, ma alla fine The Kids Are All Right si configura soprattutto come una storia di personaggi e di persone, diretta con grazia e scritta con un’onestà disarmante (la presenza di elementi autobiografici ha senza dubbio aiutato l’autrice) in cui la famiglia e il matrimonio sono sempre le stesse dolcissime e massacranti sfide, al di là dei confini del genere e della sessualità. E anche quella della Cholodenko è una sfida, di indipendenza (nonostante le star coinvolte il film è costato solo 4 milioni di dollari, è il frutto di una lunga gestazione e di un fund raising produttivo da parte della Cholodenko, ed è stato girato in tre settimane prima di incontrare al Sundance i favori unanimi della critica e la distribuzione di Focus Features) ma soprattutto di leggerezza e di talento – completamente vinta, anche grazie a uno dei cast più eccezionali della stagione, pure in un’annata in cui la gara tra gli ensemble è davvero tra le più ardue: Annette Bening in uno dei ruoli migliori della sua carriera, di sicuro il più acclamato, è affiancata da una Julianne Moore letteralmente impressionante che avrebbe meritato altrettanti premi, e un perfetto Mark Ruffalo chiude il triangolo al centro di una delle più piacevoli, fresche e commoventi commedie americane indipendenti degli ultimi tempi.

Il film esce nelle sale italiane il 4 marzo 2011 con Lucky Red.