127 Ore, Danny Boyle 2010

127 Ore (127 Hours)
di Danny Boyle, 2010

Danny Boyle non è un regista dalle mani di fata, lo sappiamo bene. Danny Boyle è il tipo di regista che se deve raccontare di un tizio che rimane incastrato da solo e lontano dalla civiltà per 127 ore in un canyon con il braccio destro schiacciato sotto un masso, apre il film con delle immagini di aggregazioni umane, spiagge gremite, manifestazioni. Ma a Danny Boyle piace mettere le cose in chiaro e mettersi a fare cinema il prima possibile, piantare la tenda accanto al suo protagonista e non muoversi di lì finché non ha tentato il tutto per tutto. 127 Hours è la rappresentazione ideale di questo sforzo artistico, e se il suo non si può definire propriamente cinema sperimentale, non c’è dubbio che a Boyle piaccia sperimentare: nonostante l’ambientazione, come dire, “ristretta”, la narrazione non conosce mai fasi di stanca, anzi mantiene una tensione impressionante per tutta la durata proprio grazie alla ricchezza a volte frastornante del linguaggio, tra split-screen e flashback sempre più allucinati che vanno anch’essi ad affiancarsi al protagonista, come una sorta di preghiera laica che sfocia anche in un inquietante e visionario sogno di liberazione. “Il mio corpo reagisce in modo strano” e il cinema lo fa di conseguenza. Prima che entri in gioco l’attesa e violenta risoluzione della storia di Aron, la cui notorietà non la rende assolutamente meno allucinata e spaventosa: una sequenza in cui Boyle toglie del tutto il piede dal freno giocando in modo perverso, sadico ma in qualche modo liberatorio, con le immagini e soprattutto con il sonoro e che palesa una volta per tutte la natura di survival horror che il film sembrava voler celare, sintesi perfetta delle capacità registiche (non sempre espresse al meglio altrove) di Boyle e del suo amore per il cinema di genere. Con questo film, uno dei suoi più riusciti accanto a titoli come Trainspotting e Sunshine, Boyle è riuscito nonostante il contesto ad allontanarsi radicalmente dall’esperimento fine a se stesso per raccontare, con l’aiuto di James Franco (davvero incredibile, e non lo diciamo solo per simpatia) una storia appassionante di sopravvivenza, un’estenuante e assurdo confessionale umano fuori dai margini della civiltà, in un buco nero (con un quarto d’ora di sole) dove è possibile confrontarsi con gli abissi del sé, e liberarsene. Tutto, o quasi tutto, in due o tre metri quadrati.

Nei cinema dal 25 febbraio 2011

9 Thoughts on “127 Ore, Danny Boyle 2010

  1. Michele on 1 febbraio 2011 at 13:26 said:

    Vogliamo parlare della splendida sequenza, con un Franco monumentale e un montaggio perfetto, della finta intervista radiofonica?
    Davvero bel film.

  2. Pingback: Tweets that mention 127 Ore, Danny Boyle 2010 » Memorie di un giovane cinefilo -- Topsy.com

  3. Simo on 1 febbraio 2011 at 16:11 said:

    Se qualche mese fa mi avessero raccontato che mi sarei ritrovato praticamente in lacrime alla fine di un film di Boyle dove James “Grosso Cane” Franco tira fuori un’interpretazione così, li avrei presi a badilate sull nuca. Così giusto per esorcizzarli.
    Ed invece…

  4. Best movie I have seen in a very very long time

    Iper Boyleriano sul piano della forma (a me tanti passaggi hanno ricordato addirittura The Beach, pensa te) e infinitamente coinvolgente su quello emotivo

  5. A mio modesto parere (devo ammettere subito che Trainspotting è il mio film preferito) questo non è il miglior Boyle, l’abbiamo visto fare di meglio, eppure è un film teso, sorprendente e fantasioso, nonostante l’asfissia del soggetto. Certo, non ci aiuta a stupirci e ad apprezzare quanto vorremmo il vecchio Danny il fatto che proprio pochi mesi fa sia uscito l’osannato (giustamente) Buried.

  6. Simo on 9 febbraio 2011 at 18:42 said:

    @Silvia: per me questo a Buried gli dà 3 giri mentre beve una coca con un cucchiaino parlando al cellulare.

    Buried è un riuscito esercizio di stile, molto ben costruito ma fine a sé stesso.

    127 ore invece riesce ad arrivare più a fondo, sia per la bravura insospettabile di Franco (vedi dialoghi con la camera), sia per i picchi emotivi a cui ci costringe nel bene (finale) e nel male (prefinale).

  7. Mhm… non sono d’accordo, credo che a livello emotivo Buried non avesse nulla da invidiare a 127 ore e persino Reynolds regge bene il confronto con Franco.

    • Secondo me le differenze partono già dal presupposto:

      Buried – dai facciamo un film tutto in una bara.
      127 ore – dai facciamo un film di un tizio che vede l’inferno e poi torna a vivere.

      A livello poi di interpretazioni, notevole pure quella di Reynolds, più incazzata, ma il perché preferisco di gran lunga un 127 ore sta nel fatto che il buon Franco regge “da solo” tutto il film. Stai un’ora e passa incollato alla sua faccia senza dover seguire dialoghi o evoluzioni della vicenda, senza telefonate, senza buoni o cattivi. C’è lui e basta.

      Giochino: prendi buried, trasformalo in Reynolds legato ad una sedia con fuori dalla porta uomini incappucciati che ogni tanto entrano e lo minacciano. La vicenda non cambia. Il film completamente.
      Ora prendi 127 ore. Metti Franco (boh, sparo) in mezzo all’oceano, da solo, e per salvarsi chessò, si deve togliere un occhio o robe simili. Cambia il film? No. Perché? Perché non si basa sul fatto che sta chiuso in uno spazio stretto. Lo sfrutta, ma poteva sfruttare un’altra cosa.
      Buried semplicemente senza quell’invenzione non ha motivo di esistere.
      Poi esiste e l’hanno fatto pure bene, ma le differenze fra i due ci sono eccome.

      Per me non sono poi così paragonablil.

  8. Crautilus on 4 marzo 2011 at 01:20 said:

    Buried non è paragonabile con 127 ore. Nettamente superiore il secondo. Silvia, su.

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