All Good Things
di Andrew Jarecki, 2010
Non ho niente contro i film squinternati, di per sé: ma se questo squilibrio pregiudica il gusto della visione, è un altro discorso. All Good Things per esempio è un film talmente indeciso su quale direzione prendere che sembra fare una bandiera proprio di questi suoi continui cambi di rotta. Ma ci vuole ben altra mano per gestirli: Andrew Jarecki, già regista dello straordinario (e lontanissimo) Capturing the Friedmans, utilizza il suo talento da documentarista solo in fase di documentazione, e spalleggiato dal pretesto della “storia vera” dimentica a casa del tutto l’ironia e il senso della misura lasciando il suo primo film di finzione in balìa (oltre che di una delle più irragionevoli ellissi narrative che io abbia mai visto: un salto di 20 anni in uno schiaffo) di sviluppi narrativi che sembrano accadere al film, inerte, più che ai suoi personaggi, affrontando di petto il ridicolo involontario ma trovando, di fatto, solo una gran noia. Peccato, perché la prima metà del film non è niente male: Gosling, si sa, è favoloso, ed è nato per fare la parte dello psicopatico represso, Kirsten Dunst è una solo bella figurina ma di fatto le si chiede poco, l’atmosfera di irragionevole minaccia è ben disegnata intorno ai due personaggi e soprattutto intorno ai luoghi in cui vivono, la scena della festa di laurea in cui Gosling trascina fuori la moglie per i capelli dalla casa dei parenti mi ha fatto persino strabuzzare gli occhi; ma dopo il nocciolo centrale della trama il film va in tutt’altra direzione e perde brevemente ogni fascino e interesse. Dopotutto, la promozione del film è stata basata tutta sul fatto che la Dunst tira fuori i capezzoli: si poteva immaginare che sotto sotto non ci fosse granché da promuovere?
E poi c’è Ron Swanson senza baffi, è una distrazione.
Da molto tempo non guardavo un film con tanta attenzione. Molto coinvolgente. Non le si deve chiedere molto, è brava in modo del tutto naturale.