marzo 2011

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Boris – Il film, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo 2011

Boris – Il film
di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, 2011

Il passaggio di un prodotto dal piccolo al grande schermo contiene di per sé un fattore di rischio enorme, qualunque sia il contesto commerciale o culturale in cui si inserisce, per molteplici ragioni. Tanto più se il contesto è quello italiano, in cui Boris è sempre stato un outsider, un “ribelle”, e un caso più unico che raro: quello di una serie tv capace di penetrare davvero il suo pubblico entrando nel cuore degli spettatori, seppure una nicchia, con dinamiche promozionali e affettive (per sintetizzare) che generalmente si applicano solo a prodotti in lingua inglese.

Se non è l’unica serie italiana a cui si può attribuire l’etichetta di “cult”, visti i recenti casi di Romanzo Criminale e, in modo differente, di Tutti Pazzi per Amore, Boris è senza dubbio la capofila di un modo di produrre (e promuovere) la televisione che vuole levarsi di dosso il più possibile la pesante eredità delle brutture portate da trent’anni di tv commerciale. E non a caso era proprio una serie tv sulla televisione stessa. Ma senza soffermarsi lungamente sui meriti della serie, isoliamo il problema principale del passaggio, il rischio numero uno: la televisione e il cinema parlano lingue diverse.

Qui sta il paradosso più stupefacente della riuscita eccellente, straordinaria, e a mio avviso quasi miracolosa del film di Boris: ovvero, che non c’è alcuna differenza sostanziale con la serie, non solo per la presenza di quasi tutti i personaggi principali e secondari, ma anche con il suo ritmo e i suoi toni (più che di un episodio lungo come cinque, come si legge spesso in giro, sarei più portato a parlare di una stagione lunga la metà) eppure non risulta mai forzato da un punto di vista cinematografico: anzi, funziona alla perfezione sia come ideale sequel della serie che come film a sé stante; è creato indubbiamente pensando ai fan della serie ma è capace di parlare a quelli che la serie non l’hanno mai vista. E non a caso è un film che parla del cinema, del cinema italiano.

I tre sceneggiatori, passati qui alla regia, hanno però senza dubbio preparato il campo con la terza stagione della serie, che era nerissima, quasi disperata pur nella sua irresistibile comicità; e travolgendo stavolta l’industria del cinema italiano, con le sue contraddizioni e una corruzione ormai endemica e strutturale, il film porta a compimento una vera riflessione a tutto tondo sull’industria dello spettacolo, e lo fa con un pessimismo e uno sguardo di impressionante lucidità (nonostante l’uso del grottesco, a volte della parodia sopra le righe) che è la vera, autentica eredità della migliore tradizione della commedia nostrana. Nel panorama dell’exploit del cinema medio, nel bene e nel male, Boris è ancora un outsider: un film che fa ridere, eccome, ma che graffia e fa sanguinare.

Una crudeltà e un’irriverenza che non fa troppi prigionieri, con una gamma che va dalla denuncia allo sfottò (irresistibile il nuovo personaggio della “miglior attrice italiana”: il gioco, facile, è indovinare l’originale) e che non ha semplicemente paragoni nel cinema recente: questo sarebbe già un motivo sufficiente per amare e promuovere questo piccolo film che ha la fortuna di uscire in un periodo particolarmente fortunato per la commedia italiana (il rischio era che passasse del tutto inosservato), ma la verità è che il cuore di Boris è prima di tutto la scrittura e, per estensione, la comicità. Quindi è una fortuna che Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, sceneggiatori dal talento esuberante e completamente anomalo, abbiano preso le redini del progetto: perché è la sceneggiatura l’asse portante del film, uno script illuminato, chirurgico e spietato, che non sbaglia un colpo.

L’altro elemento che fa di questo film una continuazione ideale della serie, se vogliamo, è l’evoluzione del personaggio di René Ferretti, modificato gradualmente nelle tre stagioni da elemento portante di un racconto corale a protagonista assoluto della saga: e il film gira tutto intorno a lui, alla sua frustrazione, al suo tentativo quasi tragico e palesemente vano, a tratti epico e poderoso e a tratti vigliacco e disilluso, di trasformare gli insuccessi in una riscossa personale; è la sua la più profonda, o meglio l’unica vera consapevolezza del virus epidemico della cultura in Italia, e Francesco Pannofino dipinge questo allegro avvilimento dando una vera lezione di recitazione – comica e non solo. Dovrebbe fare un film al mese, Pannofino. Altro che doppiaggio.

R.I.P. Farley Granger (1925-2011)

È morto a New York all’età di 85 anni Farley Granger. Tra le sue interpretazioni, Nodo alla Gola e L’altro Uomo di Alfred Hitchcock, Senso di Luchino Visconti e Lo chiamavano Trinità.

Sucker Punch, Zack Snyder 2011

Sucker Punch
di Zack Snyder, 2011

Sucker Punch ha sollevato ben più che una generale curiosità, nei mesi passati: questo film era l’occasione per Snyder di mostrare finalmente di che pasta era fatto. Il grande risultato di Watchmen, film “impossibile” alla vigilia eppure riuscitissimo, era ancora vivo nella memoria; e le immagini del trailer lasciavano ben sperare, trascinate dall’immediato fascino di una partita senza precedenti di splendide fanciulle ventenni conciate come a una fiera del cosplay e pronte a menare le mani e sparare all’impazzata. Poteva essere un sublime punto d’arrivo dell’action ontologico dell’ultimo decennio, chiudendo finalmente la porta aperta da Matrix, ma purtroppo non è andata a buon fine: Sucker Punch è un film brutto e sgangherato, se non fastidioso e inutile, che spreca l’enorme potenziale visionario di Snyder in favore di una narrazione involuta e di un’estetica plastificata.

Ci sono tanti livelli su cui questo film è malriuscito, fastidioso e sgraziato, e sono curioso di leggere nel prossimo periodo letture diverse dalla mia e che magari non mi appartengono, ma per il momento mi limiterei a sottolineare una considerazione piuttosto basilare: ovvero, che un action adrenalinico dalle venature fantasy possa permettersi di essere un sacco di cose, di essere cretino, ingenuo, prevedibile, risaputo, ma non possa permettersi di essere così mortalmente noioso. Il problema è che, una volta introdotta senza troppi indugi la struttura che lo anima (una matrioska di realtà oniriche che per alcuni tratti ricorda quella di Inception), Sucker Punch “si siede” su un procedimento narrativo ripetitivo allo scopo di introdurre di volta in volta le sequenze puramente action, che riprendono il linguaggio del videogame di oggi utilizzando quello stesso interesse verso il frullato pop-culturale (zombie nazisti, castelli con draghi e orchi, samurai giganti, guardie robot, e via dicendo) ma prendendo dal videogame purtroppo anche l’idea – esplicitata nella trama – di spezzare il racconto in brevi missioni autoconclusive, ognuna con il suo scopo ben definito, affettando così il film in veri e propri “livelli” con una meccanicità tremenda che svilisce i tentativi di Snyder di costruire attorno a queste sequenze una qualsivoglia trama – che, in definitiva, si configura come un mero pretesto all’interno del quale ci si diverte forse un po’ troppo a vestire le proprie eroine come bambole per poi farle prendere a ceffoni (o peggio) dal (moscio) villain di turno.

Per capire quanto sia frustrante tutto ciò per chi fino a oggi ha difeso l’altalenante ma stimolante lavoro di Snyder a Hollywood, basti pensare a quanto è bella e incredibile la sequenza iniziale, con la cover di Sweet Dreams che Snyder fa cantare proprio alla protagonista, la pazzesca Emily Browning. Come sempre accade, l’incipit è il posto dove Snyder mette tutto se stesso, è sempre stato così, e anche stavolta l’apertura è straordinaria quanto riconoscibile: in una manciata di immagini forti e di grande impatto, segnate dai ralenti che sono tra i suoi marchi di fabbrica, Snyder riesce a introdurre uno stile, un personaggio e un mondo senza bisogno di dire una parola. Soltanto che stavolta dopo quei 10 formidabili minuti, quando i personaggi cominciano a parlare, non gli rimane nulla da dire. La colonna sonora infatti rimane un punto fermo del film e di Snyder: ben venga la sempre sublime Army Of Me di Bjork usata in questo modo così aggressivo e liberatorio, e persino la cover di Where is My Mind firmata da Yoav (sia mai che un film ambientato in un ospedale psichiatrico non ci sia quella canzone!). Invece la smania distruttiva e roboante delle sequenze d’azione, tecnicamente impressionanti ma altrettanto monotone e stordenti, finisce per nascondere la bravura più autentica di Snyder, che infatti rimane celata: non per niente il miglior virtuosismo tecnico del film (l’attraversamento dello specchio nel camerino durante un dialogo) rimane nascosto nonostante sia più interessante dei soliti proiettili che cadono dal caricatore o delle solite asce rotanti lanciate nel cranio dei nemici.

Insomma, Sucker Punch è una davvero un film di poco conto, ma quel che è peggio è che dà l’impressione di prendersi un po’ troppo sul serio, soprattutto verso la fine, con un misto abbastanza ridicolo di presunzione semiotica e fondali photoshoppati ipersaturi. A quel punto, tanto vale mettersi all’altezza del film e farsi una top 5 delle cinque battagliere protagoniste – anche perché devo ammettere che la loro presenza scenica e la loro fotogenia indecente spesso aiutano a far passare i minuti tra una mazzata assordante e l’altra.

La casa muda, Gustavo Hernández 2010

La casa muda (The silent house)
di Gustavo Hernández, 2010

“Wilson!”

Presentato nella Quinzaine di Cannes lo scorso anno, La Casa Muda si distingue immediatamente soprattutto per un espediente che è il vero cuore dell’operazione: il film è infatti girato in un unico piano-sequenza che dura quanto il film e che si interrompe solo per i titoli di coda. Messo da parte il dubbio che non ci sia qualche stacco nascosto nelle scene più buie (perché dalla nostra prospettiva non dovrebbe più contare: se il film ha scelto di sollevare l’istanza del “tempo reale” i trucchi sono concessi, almeno quanto lo erano a Hitchcock), è inutile che mi metta a elencare i precedenti, illustri o meno illustri: senza dubbio non è la prima volta che questo esperimento viene tentato. L’urugayano Hernández sfrutta però l’idea in modo intelligente e piuttosto compiuto, agganciandola in qualche modo allo sviluppo del personaggio, e utilizzandola, perché no, per sopperire alla ristrettezza del budget – tanto più che il film è stato girato con una Canon Mark II 5D. Ma posto il fatto che una scelta così forte finisce per forza per cannibalizzare il film stesso, il problema di La Casa Muda è che, al di là dell’impegno tecnico, non c’è davvero molto; soprattutto, si predilige una dilatazione temporale su dettagli insignificanti tagliando invece corto sulle effettive motivazioni del personaggio di Laura, rendendo il film freddo e piuttosto confusionario. Hernández è però indiscutibilmente bravo nel distogliere l’attenzione dall’espediente del piano-sequenza con precisione e fluidità: La Casa Muda è un film costruito e immaginato alla perfezione, che regala qualche brivido (e un finale tanto prevedibile quanto azzeccato), ma per il momento non è che una promessa tutta da mantenere.

Non è al momento prevista un’uscita italiana.

Lo scorso gennaio al Sundance 2011 è stato presentato il remake americano del film, diretto da Chris Kentis e Laura Lau, con Elizabeth Olsen nel ruolo della protagonista.

Nessuno mi può giudicare, Massimiliano Bruno 2011

Nessuno mi può giudicare
di Massimiliano Bruno, 2011

Non mi capita spesso di divertirmi davvero con una commedia italiana odierna: a dire il vero, non mi capita quasi mai. Parte dei film che ci provano li evito per questo o quel pregiudizio, i rimanenti mi lasciano quasi sempre insoddisfatto. Il primo film da regista di Massimiliano Bruno, collaboratore fisso di Fausto Brizzi – che qui è soggettista e co-sceneggiatore – e caratterista di Boris (da cui ha trasportato in massa mezzo cast facendo di questa sua opera prima, anche per certi toni e per alcune suggestioni umoristiche, una sorta di “cugina” della serie tv e del film da essa tratto), riesce nell’impresa di perfezionare il metodo-Brizzi (che include, va da sé, anche una buona dose di cerchiobottismo e di paraculaggine) con una bella commedia di personaggi che fa ridere di gusto. Punto. E come già Pellegrini l’anno scorso con il suo valido Figli delle stelle costruisce questo suo successo intorno a un’idea di ispirazione contemporanea ma senza avere la minima intenzione di spingersi a una riflessione sociale o politica, né tantomeno di fare satira. Soltanto una storia, insomma: ma raccontata come si deve. Certo, anche qui non tutto va per il verso giusto, ci sono alcune scelte sparse abbastanza inspiegabili (per esempio la tirade antimorettiana di Papaleo, del tutto fuori luogo: facciamo finta di niente) e alcune parti drammatiche sono spesso tirate via e/o incollate con lo sputo, ma Bruno ha la capacità di spezzare sempre il patetismo (brizziano anch’esso, pensiamo a Ex) al punto giusto con un uso più sapiente dell’ironia, mantenendo il film sempre su un registro leggero ma con un ritmo invidiabile – e in definitiva il film trae vantaggio proprio dalla riduzione delle sue ambizioni. Insomma, come “prodotto medio” Nessuno mi può giudicare è davvero ineccepibile: ci si può chiedere, al massimo, se abbiamo bisogno o meno di film così, ma penso che un’opera così ben confezionata e interpretata (bravissima la Cortellesi, finalmente protagonista e peraltro di un film che sfrutta doverosamente la sua sensibilità e il suo talento, ottima buona parte del cast secondario), che fa ridere senza quel tipico senso di imbarazzo televisivo e d’altro canto lasciando le questioni politiche e sociali a chi se ne può occupare con più cura e attenzione, non solo non faccia male a nessuno ma sia un buon punto di partenza per lavorare sul futuro della commedia italiana. Alla fine, una risata ben piazzata non è una rivoluzione né una panacea: ma visto l’andazzo è un risultato di cui andare fieri. Ed è una strada giusta.

Due opinioni vicine alla mia: quella di Tito Faraci e quella di Manu su SecondaVisione. Radicalmente opposta l’opinione di Wick.

Rubber, Quentin Dupieux 2010

Rubber
di Quentin Dupieux, 2010

Un film su un copertone assassino dai poteri telecinetici che prende vita nel deserto australiano mentre un gruppo di “spettatori” assiste munito di binocoli alla carneficina sembra essere un soggetto difficile da prendere totalmente sul serio. Ma Dupieux ha le idee piuttosto chiare, e lo mostra fin dalle prime battute, aprendo il film con un perentorio scavalcamento della quarta parete: questo film, dice il personaggio, è un omaggio al nonsense, all’elemento insondabile che è presente anche in piccola parte in qualunque opera cinematografica. Ma quel buco nero che fa da collante tra la ragione e la passione qui divora completamente il film espandendosi fino a diventare una riflessione sul cinema spudoratamente teorica (il film smette di esistere in assenza di spettatori) ma insieme divertita e liberatoria, violenta e raffinata al tempo stesso. Uno scherzo surrealista buttato sullo stomaco che potrebbe sembrare una mera parodia del b-movie se non ne abbracciasse effettivamente il metodo visivo e narrativo, trasformandosi invece in un thriller sopraffino e ridotto all’osso, anche se effettivamente tirato per le lunghe, che se da un lato rappresenta l’autentico grado zero dell’intervento del mistero e dell’oscuro nel tessuto della realtà quotidiana (sulla falsariga, che so, di David Lynch o di Stephen King, anche se è impossibile non pensare immediatamente al Duel di Spielberg) dall’altro osserva il suo stesso intervento sulla materia cinematografica con un piglio scherzoso e sarcastico da teatro dell’assurdo: l’unione di queste pulsioni razionali e irrazionali è l’anima di questo piccolo, sinceramente bizzarro ma divertentissimo film, difficile da amare ma assolutamente da non perdere.

Il film non ha una data d’uscita italiana. Nel frattempo è già disponibile in DVD e Blu-Ray l’edizione francese. Il prossimo 11 aprile uscirà anche l’edizione inglese in dvd e Blu-Ray.

R.I.P. Elizabeth Taylor (1932-2011)

Rango, Gore Verbinski 2011

Rango
di Gore Verbinski, 2011

“Is this Heaven?”
“If it were, wouldn’t we be eating strawberry Pop-Tarts with Kim Novak?”

Dopo una carriera di una dozzina d’anni passati a prendersi carico con variabile professionalità di progetti radicalmente differenti, alla filmografia di Gore Verbisnki mancava un film che sfruttasse finalmente le sue innegabili doti di mestierante all’interno di un progetto più personale e sentito. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato un film animato? Prodotto e co-ideato infatti dallo stesso regista, e realizzato (per la prima volta) dalla Industrial Light & Magic, Rango è un “piccolo” gioiello da 135 milioni di dollari, un inaspettato inno cinefilo che mostra la grande dimestichezza di Verbisnki con i generi e l’amore profondo nei confronti del cinema, non solo western. Un concentrato irresistibile di citazioni, ammiccamenti e omaggi, realizzato con una cura del dettaglio impressionante, con un’inventiva decisamente sopra la media nel disegno dei personaggi e delle scene, con una sceneggiatura vera (di John Logan, lo stesso di The Aviator di Scorsese) e soprattutto con una qualità visiva spettacolare, spesso vertiginosa, a tratti persino visionaria: al di là della citazione esplicita di Paura e delirio a Las Vegas, è facile vedere aleggiare nel film lo spirito di un autore come Terry Gilliam, e non solo quello di Corbucci e di Leone, o del Mel Brooks di Blazing Saddles. In ogni caso, Verbisnki non si limita ad accatastare cliché del cinema western, né si spinge fino a una rilettura critica e completamente intellettuale del genere: affronta invece la materia con una schiettezza fanciullesca, con una passione liberatoria che conosciamo bene, quella di un ragazzo che ha appena scoperto il cinema e se n’è innamorato perdutamente. Ma il vero valore aggiunto è il coraggio di Verbisnki nello sviluppare la storia senza badare in alcun modo alle abitudini spesso ritrite o canoniche del cinema d’animazione contemporaneo; perdendo probabilmente per strada l’attenzione di un pubblico come quello più giovane (probabilmente confuso di fronte alle divagazioni più surreali o esistenzialiste) ma facendo di Rango un oggetto del tutto alieno, un film divertentissimo e un po’ folle, un film di cui, non sapendolo, sentivamo il bisogno.

Il buongiorno del mattino (Morning Glory), Roger Michell 2010

Il buongiorno del mattino (Morning Glory)
di Roger Michell, 2010

Non c’è molto da dire su Morning Glory, anche se non è detto che vada del tutto a suo svantaggio: prima commedia della Bad Robot di J.J.Abrams, il film del capace britannico Roger Michell è costruito in modo banalmente ineccepibile intorno alla scaltrissima sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, che riporta in scena meccanismi già visti nel suo Il diavolo veste Prada ammiccando a quello stesso pubblico (e facendo un uso simile del contesto del mondo del lavoro) e li affida soprattutto alla prova d’attrice di Rachel McAdams che, come già nel film precedente, è forse troppo spaventosamente bella per farci credere davvero fino in fondo che possa essere così imbranata e virginale, ma il cui stile leggero e stralunato, caricaturale ma dolcissimo, è davvero la sorpresa più bella del film. Il resto è mera professionalità produttiva: vedete voi se e quanto possa bastare, ma è abbastanza difficile spiegare il suo tremendo insuccesso commerciale. Bravi la Keaton e (soprattutto) Harrison Ford a fare i comprimari e a comportarsi di conseguenza, anche se il personaggio di secondo piano più sorprendente è Jeff Goldblum: è riuscito, chissà se suo malgrado, a estirpare completamente ogni traccia di ironia dal topos del boss cinico, e ha perlopiù l’espressione di uno che si trovava lì per caso o per sbaglio. Infine, controproducente a mio avviso andare a cercare nel film una vera riflessione sull’evoluzione del giornalismo e sul ruolo dell’infotainment: se c’è, è comunque vecchiotta e risaputa oltre che ambigua, meglio considerare Morning Glory una commediola tiepidamente riuscita, gradevole e con alcuni momenti davvero brillanti, anche se il romantic interest del caso (Patrick Wilson) è uno dei più rigidi e noiosi che si possano immaginare.

Rapunzel – L’intreccio della torre (Tangled), Nathan Greno e Byron Howard 2010

Rapunzel – L’intreccio della torre (Tangled)
di Nathan Greno e Byron Howard, 2010

Lo strapotere culturale e commerciale della Pixar negli ultimi 15 anni ci ha fatto gradualmente allontanare dalla Disney: ma Rapunzel è senza dubbio uno dei risultati migliori, forse il migliore, della casa negli ultimi (molti) anni. Caso vuole che sia esattamente il 50° film del “canone” Disney,  e che sia, almeno per il momento, l’abbandono del mondo delle fiabe da parte degli Studios dopo che molti prodotti provenienti dalla concorrenza si sono letteralmente impossessati della tradizione. Ed è proprio nel rapporto con la tradizione che sta la bellezza di Rapunzel: un film che riesce a essere allo stesso tempo al passo con i tempi, con i ritmi e con le esigenze delle nuove generazioni, ma a essere anche ben radicato nel mondo che la Disney ha contribuito a creare in più di 70 anni di storia, abbandonando l’eccessiva consapevolezza sarcastica per un approccio alla fiaba più sentimentale, sentito e sincero. Pochi possono permetterselo ancora, e tra questi c’è la Disney, ma Rapunzel è tutt’altro che un’opera fuori dal tempo: frutto di un lungo lavoro di concept e costato peraltro una cifra impressionante (260 milioni di dollari contro i 180 di Up), il film di Greno e Howard, grazie a uno script semplice ma intelligente ma già a partire dai disegni che sintetizzano in modo tecnicamente ambizioso l’estetica 2D con i vantaggi del 3D, riesce a coniugare in modo perfetto l’ingenuità della fiaba con personaggi realmente tridimensionali: se Flynn è un principe imbroglione senz’arte né parte e piuttosto risaputo, la villain Gothel e il camaleonte Pascal sono davvero riuscitissimi – ma è Rapunzel a essere davvero adorabile, così come è una sintesi ideale del metodo di lavoro del film: una principessa moderna e antica, imbranata ma risoluta, modellata sul cliché dell’adolescente contemporanea. E su un’indole di indipendenza dalla costrizioni degli “adulti” che suona forse anche come un segnale di voglia di rinnovamento all’interno della Disney: potrebbe essere davvero, finalmente, l’inizio di una seconda giovinezza.

Tron: Legacy, Joseph Kosinski 2010

Tron: Legacy
di Joseph Kosinski, 2010

Tra tutti i film più o meno mainstream degli anni ’80 diventati poi con il tempo degli oggetti di culto globale per un motivo o per l’altro, Tron è quello che probabilmente mi appartiene di meno. A dir la verità, non sono nemmeno sicuro di averlo visto: se è successo ero davvero molto giovane, perché non ne conservo alcun ricordo. Detto questo, il sequel era un progetto interessante: come aggiornare per i nostri tempi un film di quasi trent’anni fa che pur avendo colto profeticamente alcuni aspetti centrali del cinema sci-fi degli anni a venire viene ora visto soprattutto come un’opera buffamente naif e superata dalla realtà? Il tentativo della Disney, in mano all’esordiente Kosinski, trova alcune intuizioni interessanti proprio nella rivisitazione contemporanea dell’estetica virtuale di quegli anni così lontani abbinata all’interessante soundtrack dei Daft Punk (debitori di Hans Zimmer più che di loro stessi), ma per il resto affoga completamente nella sua seriosità e nell’incapacità di trovare un equilibrio, di qualunque tipo, tra le esigenze spettacolari odierne e l’impianto disneyano, ma anche e soprattutto tra l’asciuttezza delle scenografie virtuali e la pesantezza micidiale della narrazione, costretta a fermarsi a più riprese a spiegare e rispiegare un intreccio inutilmente complesso, senza il coraggio di abbandonarsi davvero fino in fondo al puro divertimento – quello delle scene action, anch’esse peraltro non sempre irresistibili anche se innegabilmente “belle a vedersi”. Insomma, lo stato dell’arte tecnologico (170 milioni di budget) è una noia mortale: era così anche l’originale?

Let me in, Matt Reeves 2010

Let me in
di Matt Reeves, 2010

Uno degli argomenti su cui insisto in modo più ripetitivo e noioso nell’ultimo periodo è l’assenza di intoccabilità delle opere cinematografiche – argomento che si potrebbe estendere ad altre arti, ma lascio che siano altri a discuterne in altre sedi. Ribadisco stancamente: non esistono film che non vanno assolutamente rifatti o ripensati, sia perché la rielaborazione stessa fa parte dell’evoluzione dell’arte nel tempo (ne è anzi uno dei perni più stabili) sia perché tale rielaborazione non intacca in alcun modo le opere precedenti – un remake non si gira certo cancellando le immagini dell’originale – sia, infine, perché nulla esclude che l’allievo possa superare il maestro. Inevitabile parlarne per Let me in: perché il film di Matt Reeves è arrivato a una tale breve distanza dallo stupendo film di Tomas Alfredson e lo richiama spesso in maniera così diretta da risultare una sorta di punto di non ritorno nella pratica del remake americano di un cult movie proveniente dai vecchi continenti – insomma, il materiale perfetto per diventare capro espiatorio nelle mani seguaci di una sacralità ormai superata: non a caso i media anglosassoni non ci sono cascati e hanno gradito moltissimo, mentre da noi (se mai uscirà) verrà probabilmente e ingiustamente disprezzato. Sarebbe bello però parlare di Let Me In come di un’opera a sé, si potrebbe sottolineare con più onestà – e meno banalità tipo “è più/meno bello di” – come Let Me In sia effettivamente uno degli horror americani più inusuali e interessanti degli ultimi tempi: al di là della riproposizione innegabile e spesso pedissequa delle immagini di Alfredson, Reeves fa soprattutto tesoro della sua piccola lezione di cinema, prendendo spunto da quello importandone le suggestioni, lo spirito silenzioso e doloroso, reinventando la location spazio-temporale in modo intelligente e non fine a se stesso (l’inospitale, freddo e inedito New Mexico del 1983), lavorando con una cura inaudita sul sonoro (incluse le musiche del bravissimo Michael Giacchino), per realizzare infine un film autenticamente originale, un horror laterale, straniante, violento e curiosamente romantico. E con uno dei cast più azzeccati che si possano immaginare, data la nota difficoltà di mettere in scena due ragazzini: Kodi Smit-McPhee è un meraviglioso Cillian Murphy in miniatura e con una faccia così non poteva che fare cinema, mentre Chloe Moretz, da tempo una delle favorite di questo blog grazie alla sua prova miracolosa in Kick-Ass, mostra non solo di essere ancora una volta una delle attrici più brave e promettenti in circolazione ma anche una professionista in grado di mettersi alla prova in così breve tempo in due performance così radicalmente, drasticamente differenti senza alcuno sforzo apparente. Niente male, per una che ha compiuto 14 anni da pochi giorni.

Il film è stato comprato per la distribuzione italiana da Filmauro; lo scorso dicembre Aurelio De Laurentiis ha “minacciato” di volerlo distribuire nei primi mesi del 2011 con il titolo incredibilmente stupido di Amami, sono un vampiro. Ma per il momento non è ben chiaro quando e se arriverà nelle nostre sale. Nel frattempo su Play è disponibile in dvd e in blu-ray a pochi euro.

The Green Hornet, Michel Gondry 2011

The Green Hornet
di Michel Gondry, 2011

Quanta gente potrà far incazzare un film come The Green Hornet? Ci sono i fan duri e puri di Bruce Lee e/o della serie originale, che non vogliono saperne che a prendere le redini del film sia un regista “fighetto” come Michel Gondry. Ci sono i fan duri e puri del personaggio, che non vogliono saperne che a raccontare le avventure del Calabrone Verde e di Kato siano quei “fattoni” apatowiani di Seth Rogen e Evan Goldberg. Ci sono i fan duri e puri di Michel Gondry, che non vogliono che il regista di Eternal Sunshine abbandoni l’eterea oniricità e la delicata genialità dei suoi primi film (e dei suoi videoclip) per un film – orrore! – “così hollywoodiano”. A cose fatte, l’informazione è passata di mano in mano, incrociandosi a metà strada: The Green Hornet fa schifo. Se tutti si fossero rilassati un po’ di più, magari avrebbero scoperto che in verità The Green Hornet è un film davvero spassoso e soprattutto ben realizzato, per niente squilibrato tra la sua anima action e quella più “demenziale”; un film enormemente ingenuo se volete (basti pensare a come inizia, sbattendo daddy issues in prima pagina) ma che non gioca sporco e intrattiene da dio – al di sopra delle premesse, considerando che si tratta di un barile scaricato per vent’anni e realizzato quasi per sfinimento. Certo, non è rispettoso degli originali, non è delicato né struggente, non è un film scritto in punta di penna: è un film di puro intrattenimento, con gli inseguimenti e le arti marziali e la gente che spara e i cattivissimi cattivi, in cui il sempre bravissimo ed elasticissimo Gondry si diverte a infilare (e molto più di quanto mi aspettassi) le sue giocose invenzioni visive in una trama normalizzata – ma in cui la vera anima è la terza sceneggiatura di Rogen e Goldberg che, dopo quelle riuscitissime di Superbad e Pineapple express, puntano ancora una volta su un personaggio immediatamente sgradevole e ignorante, intuendo bene il potenziale corrosivo della “antipaticità” del protagonista. Il che significa anche che se Rogen e Goldberg vi danno il nervoso potete starne alla larga: sono loro a dare il tempo al film, anche se la costruzione perfetta – a volte “gondryana”, a volte meno – delle sequenze d’azione vale, come si diceva una volta, il prezzo del biglietto. Se n’è parlato tanto male, invece è un film da recuperare. I fan duri e puri di questo o quest’altro “mito intoccabile e tradito”, va da sé, ne usciranno comunque insoddisfatti.

Ladri di cadaveri – Burke & Hare, John Landis 2010

Ladri di cadaveri – Burke & Hare
di John Landis, 2010

Tra il 1977 e il 1985 John Landis, ai tempi all’incirca trentenne o poco più, ha realizzato un pugno di film amatissimi e che hanno condizionato il cinema americano in modi che intere filmografie di colleghi più fortunati di lui non hanno saputo fare; e a parte opere seminali e imprescindibili come The Blues Brothers e Animal House, o la commedia perfetta e chirurgica di Una Poltrona Per Due, alcuni di quei film erano di fatto autenticamente sperimentali: basti pensare al modo in cui commedia e horror si incontravano in Un lupo mannaro americano a Londra e senza cui forse non avremmo la horcom contemporanea; oppure ai cambi di registro di Tutto in una notte, quasi coeniani ante litteram; al sodalizio epocale con gli ZAZ in Ridere per Ridere che è stata la radice di tutto il cinema demenziale successivo; a quella vetta della storia del videoclip che fu Thriller nel 1983. Il lascito di quegli anni così lontani, a un quarto di secolo da Spie come noi, è ancora enorme e pesantissimo, e nonostante la decadenza implacabile degli anni ’90 e la dozzina d’anni di pausa dall’ultimo lungometraggio, Landis è davvero uno dei cineasti della nostra vita. Si attendeva da tempo un ritorno del regista di Chicago, come già quello di altri suoi colleghi, ma Landis è tornato dietro la macchina da presa in vesti inaspettate e inusuali – una produzione britannica, con cast britannico, per una vicenda profondamente britannica: Burke & Hare è infatti la storia di due assassini irlandesi che negli anni ’20 dell’ottocento uccisero 17 persone in Scozia per poter poi rivendere i corpi a illustri anatomisti. Tra le mani di Landis e degli sceneggiatori, le vicende di Burke e Hare diventano un film allegro e allegramente violento, nerissimo anche se leggero come l’aria, che utilizza al meglio le doti dei due interpreti (Simon Pegg e Andy Serkis) per recuperare il gusto puro della black comedy: tant’è, che il film è realizzato con uno stile e uno spirito narrativo e produttivo drasticamente fuori dal tempo. Ma non sempre dire di un film che è “vecchio” significa un insulto, non fino in fondo- soprattutto quando sotto alla polvere che si alza soffiando sulle pagine appare ben in rilievo la mano sicura di un grande professionista. Il cui talento, scopriamo con malcelata gioia, non è stato del tutto smorzato dall’inattività. Certo, ogni risveglio dal coma necessita una proporzionale convalescenza: insomma, c’è ancora tanto da lavorare. Ma come primo passo, beh, non c’è male. Bentornato, allora? Bentornato, allora.

Il Grinta, Joel & Ethan Coen 2010

Il Grinta (True Grit)
di Joel & Ethan Coen 2010

Tra i molti elementi che compongono l’ineffabile filmografia dei fratelli Coen e che hanno contribuito a renderla tale, il rapporto con il passato e con la Storia del Cinema (soprattutto americano) è senz’altro uno dei più discussi, ma anche uno dei più complessi: la verità è che i fratelli Coen sono tra i pochi cineasti a proporre un cinema cinefilo ma che non si nasconde tra le pieghe del citazionismo blando, dell’ammiccamento ironico e irrisorio. Per loro il cinema è una cosa seria, e allo stesso modo il loro continuo rimaneggiare la tradizione dei generi e dei classici vuole essere non il malinconico ricordo di un mondo decaduto ma il segnale della sopravvivenza della tradizione stessa: il loro Grinta (pur essendo ufficialmente tratto dal libro originale) è un film che dialoga senza dubbio con il film di cui è il rifacimento, e con il western in generale, se vogliamo con quello già più crepuscolare di quegli anni, ma che non vuole e non può vivere alla sua ombra, che deve anzi sostenersi con la dignità dei classici. In tal senso se Il Grinta è forse uno dei film meno sorprendenti e frastornanti tra gli ultimi titoli della loro filmografia, è anche uno dei più trascinanti e persino commoventi, che concede meno spazio allo scherzo (Cogburn che prende a calci gli indiani) o alla trovata surreale (il dentista con la pelle d’orso) per concentrarsi sulla compattezza del racconto e sul disegno preciso e immediato di tutti i personaggi. Scritto con una sicurezza e un grande talento nel giocare con i ricorsi e i rimandi, affiancando quindi all’orizzontalità del western un gioco d’autore che si incarna nella struttura a flashback e nel rimbalzo iconografico tra l’incipit e la chiusa, il loro film è tra le altre cose (ma in cima a esse) di una bellezza visiva tanto semplice quanto accecante: l’immagine iniziale del portico notturno quella finale nel cimitero, entrambe non a caso caratterizzate dalla presenza ineliminabile dell’implacabilità della morte (tempus fugit, a proposito di topoi coeniani) fanno da cornice all’incredibile lavoro del direttore della fotografia Roger Deakins, che sia in piena luce o in una notturna cavalcata iperrealista – suo ennesimo capolavoro ed ennesima volta che l’Academy non sembra accorgersene. L’interpretazione di Bridges e, soprattutto, della giovanissima stupefacente Hailee Steinfeld, che si prende sulle spalle non solo tutto il minutaggio del film ma l’intero suo punto di vista, l’obiettivo insieme spietato e impaurito attraverso cui i Coen ci portano a vedere il mondo di Cogburn e Chaney, non sono che il fiocco superbo su un altro regalo che i due registi hanno fatto al Cinema e, per estensione, anche a noi spettatori.

Ieri ho chiesto su Twitter di scrivermi con una reply un singolo tweet su questo film. Ognuno ha risposto a modo suo: è stato molto divertente leggerli tutti. Ne ho scelti dieci.

“Un prologo di meno e un epilogo in più per un west e una religione di violenza e morte. I Coen sparano tenendo le briglie in bocca” (gniola)

“Tanto bello quanto snobbato agli oscar. Almeno Deakins meritava la statuetta per la splendida fotografia.” (zonix88)

“Un film impetuoso ed emozionante. Non manca nulla: storia, attori, dialoghi… cavalcate nella notte. Hailee sorprendente, Jeff immenso.” (neodie)

“Lo sguardo di Jeff Bridges quando arriva l’indiano a cavallo vale da solo il prezzo del biglietto e la Steinfeld è la nuova Portman.” (lennyfuckinnero)

“il grinta è splendido. Fotografia e narrazione al top. Attori da cult movie.Però lascia un senso di vuoto,di non aver niente da dire” (EgonSadaiel)

“Mi viene solo da dire che ironia, rabbia, violenza e poesia coesistono alla perfezione! Ma d’altronde sono i Coen… Nulla di nuovo!” (paolinob)

“Matt Damon non faceva sangue da 15 anni. Grazie fratelli Coen.” (atta)

“Un film di Grazia spietata.” (mmcasetti)

“Un gangster movie con le frange.” (TobWaylan)

“Western. Jeff Bridges. Fratelli Coen. Serve altro?” (momodarabia)

Megamind, Tom McGrath 2010

Megamind
di Tom McGrath, 2010

La fama di mezze seghe che quelli della DreamWorks Animation si sono fatti nel corso degli anni sembra andare sempre più inesorabilmente a loro vantaggio. Prendiamo ad esempio Megamind, un film che dalle prime battute era stato già bollato come uno dei prodotti dal peggior potenziale della casa, vuoi perché diretto dallo stesso regista dei mefitici Madagascar, vuoi perché in ritardo di una manciata di anni sugli Incredibili, vuoi perché puntare tutto sulle “voci famose” è un procedimento che ha fatto il suo tempo – tanto che persino alla DW se ne sono accorti, confezionando così il loro primo vero Bellissimo Film, How To Train Your Dragon. Ecco, in definitiva, tutto sommato, Megamind non è poi così male: se pure non ha il vantaggio competitivo dei minions, i cazzilli gialli che rubano la scena a tutti nel cugino minore Cattivissimo Me, quello di McGrath è un film d’animazione sufficientemente riusciuto – nonostante sia famigliare, sciocco, risaputo, estremamente derivativo (le ottime idee non sono poche ma spesso non sono che ottime rielaborazioni di idee già viste altrove) e pieno di faccette ammiccanti come al solito. Ma è anche innegabilmente divertente, pur essendo probabilmente il film d’animazione meno necessario di sempre. Sempre meglio questo che un altro Shrek.

Vallanzasca – Gli angeli del male, Michele Placido 2010

Vallanzasca – Gli angeli del male
di Michele Placido, 2010

Se avessi visto tutti i film di Michele Placido, e son lungi dall’averlo fatto, mi spingerei a dire che Vallanzasca è il suo film più bello: anche soltanto perché porta a compimento un procedimento produttivo già presente in film com Romanzo Criminale e Il Grande Sogno: in due parole, nel nostro paese è difficile, quasi impossibile fare della fiction basata su fatti reali o storici, a causa della tendenza spiccata dei media di politicizzare e polarizzare tutto, cinema incluso, procedimento che causa una sorta di autocensura inconscia delle istanze creative che non fa certo bene al cinema. Placido, si sa, con i media non ha mai avuto un buon rapporto: e se si può discutere sul suo “carattere”, sia come uomo che soprattutto come regista, è indubbio che la sua sfrontatezza abbia giovato al suo cinema. Ed ecco che Vallanzasca è la rappresentazione ideale e definitiva del suo gioioso e spudorato disinteresse in tal senso: si può parlare eccome del fascino del male, senza sentirsi in colpa, né tantomeno senza avere paura di fare l’apologia del male. A Placido interessa lo charme del bandito in sé più che le distinzioni metaforiche, il corpo e la voce di Vallanzasca più che l’inserimento all’interno della Storia di un Paese: il suo film è semplicemente un ottimo gangster movie, poderoso e a tratti sorprendente, che se da una parte abbassa appunto in modo sano e doveroso le ambizioni autoriali, dall’altra si allontana dalla televisione avvicinandosi sempre di più alla storia gloriosa (e ormai ultra-celebrata) del cinema di genere italiano. Il segreto di Vallanzasca, che lo rende persino più riuscito di Romanzo Criminale, è l’eliminazione dell’anello debole, ovvero la lotta tra il bene e il male, impersonata in quel film da Stefano Accorsi: non ci sono poliziotti in Vallanzasca, non ci sono “buoni” tradizionali, ci sono solo banditi, Vallanzasca è semmai un film sulla lotta tra il male e se stesso. Tratto distintivo dell’operazione, e suo punto di forza, è la direzione degli attori, sopra le righe, teatrale, quasi caricaturale, con un Kim Rossi Stuart spettacolare e affascinante, bellissimo e “sporco”, che mette in ombra Filippo Timi e spesso anche Placido stesso; un ruolo deliberatamente spinto all’eccesso nei movimenti del corpo, nei toni della voce, nell’accento milanese, l’ennesima conferma del talento versatile dell’attore romano.

Il truffacuori, Pascal Chaumeil 2010

Il truffacuori (L’arnacoeur)
di Pascal Chaumeil, 2010

L’esordio dietro la macchina da presa di Pascal Chaumeil, ex assistente alla regia del Luc Besson dei tempi d’oro, è passato nelle nostre sale pressoché inosservato: si tratta in realtà di un film gradevole e divertente, che riprende con mano sicura e ritmo implacabile un canovaccio piuttosto risaputo (quello della scoperta dell’Amore Vero da parte di un personaggio cinico e disilluso) e che utilizza come cardine della sua sceneggiatura scaltra e leggerissima proprio la consapevolezza degli stilemi del film amoroso a suo stesso vantaggio: invece di ribaltare i luoghi comuni dei rapporti psicologici tra giovani uomini e giovani donne li abbraccia in toto, sfruttandoli però puntualmente, con affetto derisorio e una fermissima padronanza del racconto. Dove fallisce semmai è nel contorno, con la sotto-trama riempitiva di Marc e Mélanie (la bravissima Julie Ferrier); la Paradis dal canto suo a volte sembra un po’ sperduta e fuori ruolo, mentre è invece perfetto il fascinoso bastardo Romain Duris, la cui bellezza francamente disturbante sospettiamo abbia considerevolmente sviato la nostra capacità di giudizio. Nell’impallidito noioso macrogenere della commedia romantica, un film sufficientemente intelligente e ben realizzato è un esemplare in via d’estinzione.

R.I.P. Jane Russell (1921-2011)

Ieri in California è morta Jane Russell. Aveva 89 anni.