Boris – Il film
di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, 2011
Il passaggio di un prodotto dal piccolo al grande schermo contiene di per sé un fattore di rischio enorme, qualunque sia il contesto commerciale o culturale in cui si inserisce, per molteplici ragioni. Tanto più se il contesto è quello italiano, in cui Boris è sempre stato un outsider, un “ribelle”, e un caso più unico che raro: quello di una serie tv capace di penetrare davvero il suo pubblico entrando nel cuore degli spettatori, seppure una nicchia, con dinamiche promozionali e affettive (per sintetizzare) che generalmente si applicano solo a prodotti in lingua inglese.
Se non è l’unica serie italiana a cui si può attribuire l’etichetta di “cult”, visti i recenti casi di Romanzo Criminale e, in modo differente, di Tutti Pazzi per Amore, Boris è senza dubbio la capofila di un modo di produrre (e promuovere) la televisione che vuole levarsi di dosso il più possibile la pesante eredità delle brutture portate da trent’anni di tv commerciale. E non a caso era proprio una serie tv sulla televisione stessa. Ma senza soffermarsi lungamente sui meriti della serie, isoliamo il problema principale del passaggio, il rischio numero uno: la televisione e il cinema parlano lingue diverse.
Qui sta il paradosso più stupefacente della riuscita eccellente, straordinaria, e a mio avviso quasi miracolosa del film di Boris: ovvero, che non c’è alcuna differenza sostanziale con la serie, non solo per la presenza di quasi tutti i personaggi principali e secondari, ma anche con il suo ritmo e i suoi toni (più che di un episodio lungo come cinque, come si legge spesso in giro, sarei più portato a parlare di una stagione lunga la metà) eppure non risulta mai forzato da un punto di vista cinematografico: anzi, funziona alla perfezione sia come ideale sequel della serie che come film a sé stante; è creato indubbiamente pensando ai fan della serie ma è capace di parlare a quelli che la serie non l’hanno mai vista. E non a caso è un film che parla del cinema, del cinema italiano.
I tre sceneggiatori, passati qui alla regia, hanno però senza dubbio preparato il campo con la terza stagione della serie, che era nerissima, quasi disperata pur nella sua irresistibile comicità; e travolgendo stavolta l’industria del cinema italiano, con le sue contraddizioni e una corruzione ormai endemica e strutturale, il film porta a compimento una vera riflessione a tutto tondo sull’industria dello spettacolo, e lo fa con un pessimismo e uno sguardo di impressionante lucidità (nonostante l’uso del grottesco, a volte della parodia sopra le righe) che è la vera, autentica eredità della migliore tradizione della commedia nostrana. Nel panorama dell’exploit del cinema medio, nel bene e nel male, Boris è ancora un outsider: un film che fa ridere, eccome, ma che graffia e fa sanguinare.
Una crudeltà e un’irriverenza che non fa troppi prigionieri, con una gamma che va dalla denuncia allo sfottò (irresistibile il nuovo personaggio della “miglior attrice italiana”: il gioco, facile, è indovinare l’originale) e che non ha semplicemente paragoni nel cinema recente: questo sarebbe già un motivo sufficiente per amare e promuovere questo piccolo film che ha la fortuna di uscire in un periodo particolarmente fortunato per la commedia italiana (il rischio era che passasse del tutto inosservato), ma la verità è che il cuore di Boris è prima di tutto la scrittura e, per estensione, la comicità. Quindi è una fortuna che Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, sceneggiatori dal talento esuberante e completamente anomalo, abbiano preso le redini del progetto: perché è la sceneggiatura l’asse portante del film, uno script illuminato, chirurgico e spietato, che non sbaglia un colpo.
L’altro elemento che fa di questo film una continuazione ideale della serie, se vogliamo, è l’evoluzione del personaggio di René Ferretti, modificato gradualmente nelle tre stagioni da elemento portante di un racconto corale a protagonista assoluto della saga: e il film gira tutto intorno a lui, alla sua frustrazione, al suo tentativo quasi tragico e palesemente vano, a tratti epico e poderoso e a tratti vigliacco e disilluso, di trasformare gli insuccessi in una riscossa personale; è la sua la più profonda, o meglio l’unica vera consapevolezza del virus epidemico della cultura in Italia, e Francesco Pannofino dipinge questo allegro avvilimento dando una vera lezione di recitazione – comica e non solo. Dovrebbe fare un film al mese, Pannofino. Altro che doppiaggio.