aprile 2011

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La donna che canta (Incendies), Denis Villeneuve 2010

La donna che canta (Incendies)
di Denis Villeneuve, 2010

Comincia con il botto, il film del regista québécois Denis Villeneuve, vincitore di otto Genie Awards e nominato all’Oscar per il miglior film in lingua straniera: una sequenza suggestiva e inquietante, accompagnata in modo ben più che azzeccato da You and Whose Army? dei Radiohead, in cui alcuni bambini vengono “preparati alla guerra”, rasati come all’inizio di Full Metal Jacket ma senza più il permesso del distaccato disincanto. In questi due minuti folgoranti e incredibili è contenuta la chiave di volta di tutto il film, e non solo narrativamente: nello sguardo di un ragazzino incastonato in un lento carrello in avanti si ritrova già tutto il misto di disperazione e umanità che pervade la pellicola di Villeneuve.

Che è davvero un film di rara intensità, vorticoso e inesorabile, sbalorditivo e dolente, che ha il coraggio prima di tutto di sbattere in faccia alla Storia le armi del cinema puro, di essere virtuosistico e doverosamente spavaldo, trovando proprio nella forma, spesso eccellente, il modo ideale per raccontare una storia che intreccia i destini di personaggi costretti a fare luce sui segreti nascosti tra le parole non dette per poter dare pace al proprio passato. E così come il montaggio parallelo, che affianca la detection al film storico e il period movie alla tragedia greca, è preciso e implacabile, così lo sguardo di Villeneuve non lascia via di scampo né conosce tonalità di grigio, nel suo viaggio alla scoperta di un’eredità di violenza e morte che non potrà mai cicatrizzare. Ma che nasconde nel pianto e nella consapevolezza, della propria origine e della propria sorte, la possibilità estrema e definitiva di una scintilla di umanità.

Scream 4, Wes Craven 2011

Scream 4
di Wes Craven, 2011

Ciò che non possiamo rimproverare a Wes Craven e al suo Scream 4 è la coerenza di fondo che lo lega ai capitoli precedenti e, ancora di più, a tutto ciò che è successo nel cinema horror, thriller, slasher e via dicendo negli ultimi 10 anni: il regista di Nightmare (e di New Nightmare) continua a raccontare con la medesima ironia di un tempo il cinema di genere filtrandolo attraverso la lente distorta della proliferazione commerciale e del culto cinefilo, e mentre la pratica dei sequel passa il testimone a quella dei remake Craven si ostina a fare un cinema che include la sua critica all’interno della rappresentazione. L’effetto del gioco di specchi può essere tanto esilarante quanto deprimente, a seconda di ciò che vogliamo mettere in cima alle priorità di un film simile: ciò che possiamo biasimare a Craven, semmai, è di avere fatto un film che, come già in Scream 3 (ma almeno senza quell’abbandono totale alla farsa) insiste con malcelata soddisfazione su questi elementi autoriflessivi dimenticando per strada il puro senso del racconto; ed è chiaro fin dal principio, da come apre le danze con un gioco di matrioske indubbiamente stimolante (anche se ingenuo e vecchiotto) che sarà questo il suo interesse, finendo infatti per ficcare molto presto la narrazione in un cul de sac, o meglio in un  loop in cui il martellante turbinio di “spaventi” da manuale smette assai presto di essere efficace, e dietro a cui si intravede un vuoto coperto solo dalle amenità metatestuali, dalla variegata ricchezza del cast – tra cui spicca, come sempre, l’ormai lanciatissima Emma Roberts – e dagli ammiccamenti. Che poi sono l’anima del film, quella che permette sghignazzando senza troppe raffinatezze di passare sopra al senso di noia e di ripetitività di gran parte del film – almeno fino all’ultima mezzora, quella della “rivelazione”, che di per sé è assolutamente improbabile (e difficile da “indovinare”: chissà se di conseguenza o viceversa) ma che funziona alla perfezione per due motivi: perché Craven e Williamson mettono finalmente in campo un tema, un tema forte e preciso, che nell’ora e mezza precedente avevano purtroppo (ma volutamente) tralasciato; e perché è solo in questo punto, con un monologo tanto interminabile quanto necessario agli scopi del film, che si porta a compimento il rapporto strutturale tra il primo e quest’ultimo capitolo, fino ad allora lasciato solo nelle mani di di Kevin Williamson, e della sua logorrea superata e un po’ infantile.

Confessions, Tetsuya Nakashima 2010

Confessions (Kokuhaku)
di Tetsuya Nakashima, 2010

Dopo aver diretto due film come il sottovalutato Kamikaze Girls e, soprattutto, come lo stupefacente e acclamatissimo Memories of Matsuko, Nakashima arriva al culmine della sua carriera con quello che è non soltanto il suo miglior film ma una delle opere più straordinarie, uniche e impressionanti prodotte in questi ultimi anni dal cinema nipponico: una struggente, sardonica, crudele e dolorosa parabola senza vincitori né vinti, che attraverso un’inesorabile slittamento dei punti di vista narrativi racconta una storia impossibile di vendetta e di follia, inserita nel contesto di un sistema scolastico che diventa sineddoche di un intero sistema, di un mondo che ha perso il suo baricentro morale, di esseri umani a cui di fronte all’ineffabilità del dolore non resta che pianificare il reciproco annichilimento. Con il coraggio di porsi delle domande vere sul sulla colpa con lo sfrontato e ammaliante cinismo di chi non lascia la storia in mano ai consueti meccanismi del peccato e della redenzione. Ma Confessions è anche un film che non ha alcuna intenzione di lasciar parlare solo i suoi personaggi e le loro storie: se da un punto di vista visivo Nakashima è sempre stato un regista spudorato e sopra le righe, questo suo ultimo film rappresenta insieme l’ennesima potenza del suo stile barocco e la dimostrazione dell’avvenuto controllo delle sue istante – in cui nulla è lasciato al caso, in cui ogni singola inquadratura diventa il quadro perfetto di un dilemma morale, con un rilancio continuo di pezzi di bravura che, anche grazie all’ausilio di una colonna sonora geniale che fa incontrare Bach con i Boris e i Radiohead di Last Flowers, risulta allo stesso tempo struggente e frastornante, lasciando alla fine dei giochi una sensazione di ubriacatura che è insieme inebriante e inquietante – un sorriso crudele, beffardo e disperatissimo.

L’edizione inglese del film esce il 25 aprile in Blu-ray e DVD.

Io sono l’amore, Luca Guadagnino 2010

Io sono l’amore
di Luca Guadagnino, 2010

Tra le opere italiane delle ultime stagioni che hanno goduto di un qualche tipo di visibilità sul mercato americano, il film di Luca Guadagnino è (insieme a Vincere di Marco Bellocchio e pochi altri) quello che ha suscitato pareri più entusiastici: merito della presenza di Tilda Swinton a fare da apripista, senza dubbio, ma anche di un modo di raccontare l’Italia, forse l’Europa per estensione, che come il citato Vincere si distacca fortemente da quello che normalmente propone il panorama del cinema italiano. Non per forza una questione di qualità, ma senza dubbio di differenza: Io sono l’amore ha dunque l’aspetto, e l’ambizione, di un film d’autore, “arty” se mi passate il termine, e distante da dinamiche prettamente locali (per il suo parlare di temi estesi: la famiglia, la coercizione sociale, il potere deflagrante delle passioni) che sono anche i soli modi, o tra i pochi, di farsi notare oltreoceano. Curioso però che un film tanto osannato dai media anglofoni, con tanto di nomination agli Oscar per i costumi (che suonava l’usuale briciola buttata lì per accontentare la critica, in una linea simile alla candidatura di Jackie Weaver), sia così mortalmente malriuscito: si intenda, Guadagnino ha tutta la nostra stima per aver cercato in tutti i modi di imporre un’impronta stilistica decisa al suo film, per aver raccontato la dissoluzione borghese senza ricorrere ai mezzucci di certo cinema medio, e per aver girato un’opera che sa essere così personale, ma tra le intenzioni e i risultati c’è di mezzo un mare. Di noia, di boria e qualche volta di imbarazzo. Il problema è che le difficoltà del regista, enormi, spiccano immediatamente in ogni momento in cui la macchina da presa smette di muoversi (la sequenza migliore, a parte i titoli di testa, è lo stalking tra le vie di Sanremo) con la sua precisa frenesia: prima di tutto la direzione degli attori, funesta e disperatamente fallace (soprattutto nel suo volersi in qualche modo nascondere implicitamente dietro a un “metodo” o all’idea che la pessima performance di gran parte del cast possa veicolare la glacialità del loro status sociale), la fotografia che si appoggia a comodità scenografiche proponendo una patina polverosa spacciata per europeismo di maniera, ma è soprattutto la foga di Guadagnino nel voler dimostrare la propria alterità a creare i mostri di questo film, tra cui l’incredibile sequenza del coito tra i fiori, una delle più sgraziate e ridicole degli ultimi anni, peraltro un vero e proprio spartiacque tra ciò che il film stava cercando di essere prima e ciò che finisce per essere dopo: un bel disastro in cui il contrasto tra natura e cultura diventa un conflitto aperto tra cliché sull’oppressione borghese da una parte, e dall’altra campi fioriti, gente che cucina in montagna e indossa canottiere alla guida di camioncini. L’esempio definitivo di come Guadagnino sia riuscito a celare le sue difficoltà, ai miei occhi, è però tutta la parte finale, in cui (a parte la presenza di momenti risibili come l’abbraccio alla cameriera, e passi) basta togliere dal campo la colonna sonora dagli ultimi minuti per rendersi conto che sotto la musica roboante ci sono solo brutte inquadrature statiche; e allo stesso tempo la catartica risoluzione emotiva finisce per essere tanto asfittica quanto i personaggi lasciati a soffocare nella loro asfissia.

R.I.P. Sidney Lumet (1924-2011)

È morto Sidney Lumet. Aveva 86 anni.