Io sono l’amore
di Luca Guadagnino, 2010
Tra le opere italiane delle ultime stagioni che hanno goduto di un qualche tipo di visibilità sul mercato americano, il film di Luca Guadagnino è (insieme a Vincere di Marco Bellocchio e pochi altri) quello che ha suscitato pareri più entusiastici: merito della presenza di Tilda Swinton a fare da apripista, senza dubbio, ma anche di un modo di raccontare l’Italia, forse l’Europa per estensione, che come il citato Vincere si distacca fortemente da quello che normalmente propone il panorama del cinema italiano. Non per forza una questione di qualità, ma senza dubbio di differenza: Io sono l’amore ha dunque l’aspetto, e l’ambizione, di un film d’autore, “arty” se mi passate il termine, e distante da dinamiche prettamente locali (per il suo parlare di temi estesi: la famiglia, la coercizione sociale, il potere deflagrante delle passioni) che sono anche i soli modi, o tra i pochi, di farsi notare oltreoceano. Curioso però che un film tanto osannato dai media anglofoni, con tanto di nomination agli Oscar per i costumi (che suonava l’usuale briciola buttata lì per accontentare la critica, in una linea simile alla candidatura di Jackie Weaver), sia così mortalmente malriuscito: si intenda, Guadagnino ha tutta la nostra stima per aver cercato in tutti i modi di imporre un’impronta stilistica decisa al suo film, per aver raccontato la dissoluzione borghese senza ricorrere ai mezzucci di certo cinema medio, e per aver girato un’opera che sa essere così personale, ma tra le intenzioni e i risultati c’è di mezzo un mare. Di noia, di boria e qualche volta di imbarazzo. Il problema è che le difficoltà del regista, enormi, spiccano immediatamente in ogni momento in cui la macchina da presa smette di muoversi (la sequenza migliore, a parte i titoli di testa, è lo stalking tra le vie di Sanremo) con la sua precisa frenesia: prima di tutto la direzione degli attori, funesta e disperatamente fallace (soprattutto nel suo volersi in qualche modo nascondere implicitamente dietro a un “metodo” o all’idea che la pessima performance di gran parte del cast possa veicolare la glacialità del loro status sociale), la fotografia che si appoggia a comodità scenografiche proponendo una patina polverosa spacciata per europeismo di maniera, ma è soprattutto la foga di Guadagnino nel voler dimostrare la propria alterità a creare i mostri di questo film, tra cui l’incredibile sequenza del coito tra i fiori, una delle più sgraziate e ridicole degli ultimi anni, peraltro un vero e proprio spartiacque tra ciò che il film stava cercando di essere prima e ciò che finisce per essere dopo: un bel disastro in cui il contrasto tra natura e cultura diventa un conflitto aperto tra cliché sull’oppressione borghese da una parte, e dall’altra campi fioriti, gente che cucina in montagna e indossa canottiere alla guida di camioncini. L’esempio definitivo di come Guadagnino sia riuscito a celare le sue difficoltà, ai miei occhi, è però tutta la parte finale, in cui (a parte la presenza di momenti risibili come l’abbraccio alla cameriera, e passi) basta togliere dal campo la colonna sonora dagli ultimi minuti per rendersi conto che sotto la musica roboante ci sono solo brutte inquadrature statiche; e allo stesso tempo la catartica risoluzione emotiva finisce per essere tanto asfittica quanto i personaggi lasciati a soffocare nella loro asfissia.
sono d’accordo solo sulla sequenza del coito, per il resto lo trovo un film decisamente straordinario, nel senso pieno del termine…anche nella recitazione (a parte il figlio). li ho conosciuti gli aristocratici industriali veri, sono forse piu’ inamidati e imbarazzanti di cosi’.
io nel film ci sento un germe di “nuovo” vero, come non percepivo da l’imbalsamatore.
gia’ solo questo e’ un risultato notevole.
ho la sensazione che piu’ un autore cerca di volare alto, piu’ si diventa intransigenti nel giudizio.
Sono in linea con il tuo pensiero su questo film.
Personalmente ho apprezzato la prima parte, e ho trovato scadente la seconda.
Tutta la solfa della campagna, per non parlare delle agghiaccianti scene di sesso fra gli olivi e le grotte, sono venute terribilmente male.
Approvo tutto quello che hai scritto, tranne riguardo alla scena del coito tra i fiori – che mi ha subito richiamato alla mente certe pellicole degli anni ’70 – durante la quale ho esclamato: “olé, Guadagnino ci ha sfranicato per un’ora col manierismo ma tanto adesso esce Montagnani da dietro il cespuglio, prende a calci Ovosodo e tenta di spupazzarsi la Swinton.
Ritengo che questo film abbia l’indubbio merito di ricordarci che,nonostante tutto, il pubblico europeo è ancora avanti anni luce rispetto agli americani. La critica d’oltreoceano è sempre alla disperata ricerca di un film a cui appiccicare modelli vecchi di trent’anni, come se soltanto il loro cinema avesse il diritto di evolvere. “Oh my god, looks totally like Visconti! Must be awesome!” Nemmeno. un. po’.
Non possono bastare i font stile anni 30 e quattro sedie comprate da un antiquario di Via del Gesù per nascondere il fallimento totale di una storia.
Non è un film; è un romanzo dei primi del 900 frustrato che passa due ore a compatirsi per non essere stato pubblicato ottant’anni fa.
Il lavoro sui personaggi è ridicolmente abbozzato, emblematica una frase del protagonista a commento di un licenziamento in fabbrica “Avevamo delle responsabilità verso le famiglie di quegli operai”. Ma chi, in nome di Dio, parla così al giorno d’oggi? Credibile come la festa a bordo piscina in cui,anzichè tirare coca, i rampolli della Milano da bere assaggiano le delizie di un irsuto cuoco meridionale.
L’unico minuto decente di cinema è quando la Swinton (bel personaggio, btw, comunica una grande empatia) guarda alla tv Philadelphia. Ti viene voglia di urlarle di tenerla accesa e non cambiare canale.
L’unico punto su cui non concordo è la fotografia, che personalmente ho trovato positiva, soprattutto nei luminosi esterni (anche se forse in un caso sarebbe stato più pietoso un buio profondo alla Clint Eastwood.)
Meno male, mi rincuora leggere la tua critica. Pensavo di essere solo soletto al mondo. Puracacca.
sottoscrivo ogni parola
Devo dissentire. Il film è notevolissimo. Sopra le righe, sgraziato, spesso goffo, ma incredibilmente pieno di energia e di bellezza. Poi ha una direzione della fotografia superba, e se il lato “visivo” (per semplificare) ha la preponderanza (ma è un film e io – dicono – sarei un formalista, quindi il commento potrebbe quasi cadere qua), lo script animato da performance attoriali (apparentemente) naive innesca un contrasto fantastico tra stilosità (fotografica) / formalità (borghese) da un lato e naivete (attoriale) / naivete (passionale). C’è un’energia tangibile che vorrebbe venire fuori dalla cura delle immagini e dai movimenti di macchina – la stessa che vuole scardinare le etichette ingessate della famiglia. In entrambi i casi, il movimento centrifugo è alquanto goffo ma è parte del fascino.
E poi c’è una Milano filmata con una intelligenza assolutamente esaltante o quantomeno con una cacchio di idea. Soltano per questo, a Guadagnino bisognerebbe fargli arringare il Paese: usciamo dal pantano, anche con qualche movimento goffo, ma usciamo.
A me il film è piaciuto molto, e continua a piacere a rivederlo. Ha molti difetti, ma abbonda in entusiasmo e passione. Ho scritto di più sul mio blog, per chi volesse leggere.
Dici cose che condivido abbastanza (a parte sulla fotografia e la noia che sono due elementi chiave del film). È un film pieno di difetti, ma credo che sia un film splendido. La seconda parte è tutta da risistemare e Guadagnino ha dimostrato la più totale incapacità nel dirigere gli attori, ma nonostante tutto il film funziona. Gli arredi, i luoghi, i vestiti in questo film sono i veri protagonisti e poi ovviamente la Tilda che è splendida. L’ho trovato un film elegante, come non se ne vedevano da tempo: mi sembra una dote importante e mi fa chiudere un occhio sui difetti enormi che alla fine per un film del genere mi sembrano diventare marginali.
pienamente d’accordo sulla chiusura del tuo pezzo. anch’io vedendo il finale ho detto la stessa cosa: “togli la colonna sonora ed è occhi del cuore”.
Molto leccato, e anche laccato. Potrebbe benissimo giocarsela con “A Single Man” di Tom Ford
Ancora una volta d’accordo con te.
Ma credo, da regista, che il problema non vada ricercato nella direzione o nelle scelte stilistiche, ma più propriamente nella sceneggiatura o, ancor meglio, nel soggetto.
L’Italia cade in questo inspiegabile narcisismo retrò, credendo che lunghe sequenze silenziose, noiosissimi passaggi di scena e situazioni stereotipate (per il nostro cinema), comunichino un brand tricolore.
Per me ci identifica nella piattezza e in un cinema tedioso che, ma è un parere personale, odio totalmente
Cinema da esportazione.
Il film è quasi un capolavoro. E chi dice il contrario non ha capito niente. Film di una icasticità narrativa notevole. La Swinton giganteggia, ma anche gli altri non sono da meno. Da troppo tempo aspettavamo un film così ele-gante, senza le solite “scene madri”, il montaggio frenetico (l’azione a tutti i costi), gli effetti affatto speciali eccetera.
Qui basta uno squardo, un funzionale movimento di macchina, parole le po-che che servono, la funzionalità al racconto e ai personaggi degli ambienti e degli oggetti di scena, una fotografia splendida mai calligrafica, la bravura nella direzione degli attori, una scena d’amore “en plein air” che è un poe-tico poema visivo. E mi fermo lì. Chi non è riuscito a vedere la grandezza di questo film ha forse disimparato a guardare, dopo troppi film inutili. Grazie Guadagnino, grazie Tilda Swinton.