maggio 2011

You are browsing the site archives by month.

Con gli occhi dell’assassino (Los Ojos de Julia), Guillem Morales 2010

Con gli occhi dell’assassino (Los Ojos de Julia)
di Guillem Morales, 2010

Molte delle recensioni che leggerete o che avete letto del film di Guillem Morales prodotto da Guillermo Del Toro, che siano positive o negative, puntano il dito su un particolare: che è lungo, troppo lungo. Non del tutto a torto: giunto al punto in cui il cruciale svelamento di turno sembra aprire le porte alla sequenza finale, Los Ojos de Julia finisce per durare quasi mezz’ora in più. La conseguenza di questa insistenza si sente senz’altro, va a minare il ritmo e la struttura del film, ma fortunatamente non riesce a rovinare del tutto il buon lavoro compiuto dal regista, alla sua seconda prova, su spunti e temi che sembrano provenire più dal giallo all’italiana che dall’horror iberico, filtrato semmai attraverso una certa consapevolezza autoriflessiva ma senza troppe esplicite velleità cinefile. La maggiore originalità del film sta nella sua compatta ripartizione: diviso in parti che appaiono narrativamente ben distinte, il thriller di Morales prende direzioni che vengono di volta in volta mozzate dagli avvenimenti per poi ricominciare da capo – in tal senso la parte più efficace e inusuale è quella in cui Julia, bendata, viene a conoscenza con l’infermiere Ivan senza poterne vedere il volto, e noi spettatori con lei. Se gli sviluppi veri e propri della trama non sono certamente i più imprevedibili (anzi), Morales punta soprattutto a costruire un film teso e di grande atmosfera, girato con precisione e cura, fotografato splendidamente, con alcune sequenze favolosamente perfette (la sequenza dello spogliatoio è da antologia) e abbastanza intelligente nel giocare con la più classica delle riflessioni sullo sguardo – e anche sull’immedesimazione dello spettatore con quello dei personaggi: più che “con gli occhi dell’assassino”, come recita lo sciocco titolo italiano, qui si lavora al contrario sugli occhi della vittima, sulla loro assenza, sull’estensione di un “blind spot” che è alla base di molti meccanismi del thriller. In quasi tutte le altre recensioni che leggerete, vi diranno che Belén Rueda è rifatta dalla testa ai piedi. Non del tutto a torto, anche qui. Ma la sua è una prova davvero, davvero convincente.

The man from nowhere, Lee Jeong-beom 2010

The Man from Nowhere (Ajeossi)
di Lee Jeong-beom, 2010

Cha Tae-Sik è un taciturno e pacifico impiegato di un piccolo e buio banco dei pegni; la sua unica amica è una bambina, figlia di un’eroinomane che vive nell’appartamento accanto e che usa la sua bottega per spacciare per conto di un’organizzazione criminale. Ma quando madre e figlia vengono rapite, e la prima viene ritrovata svuotata degli organi interni, Tae-Sik sarà costretto a mostrare la sua vera identità e il segreto drammatico nascosto nel suo passato. Nella (relativa) scarsezza di titoli di genere davvero esaltanti provenienti dalla Corea del Sud negli ultimi anni, l’opera seconda di Lee Jeong-beom è davvero una perla. Ma anche in senso assoluto: un thriller lungo e denso, girato in modo magistrale, cupo e violento come non se ne vedevano da tempo, con un’ambientazione urbana perfetta, e un protagonista di inenarrabile figaggine. E se l’azione non manca, tra duelli e inseguimenti, spatatorie e coltellate, il film di Lee è qualcosa di più di un semplice action: costruito su moventi profondamente tragici che spingono ancora di più l’intensità della escalation vendicativa di Tae-Sik, The Man From Nowhere è uno stupefacente noir sanguinario sulla riscoperta dell’innocenza in un mondo definitivamente impazzito. Colpo di genio comunque quello di avere un protagonista addestrato per uccidere, abilissimo e quasi imbattibile in combattimento, e non fargli fare niente di niente per quasi un’ora.

Il film è stato presentato qualche giorno fa al Far East Film di Udine.

È già disponibile a pochi euro nell’edizione dvd britannica.

Non è al momento prevista un’uscita italiana.

Drive Angry, Patrick Lussier 2011

Drive Angry
di Patrick Lussier, 2011

“Why don’t you fuck naked?”
“I never disrobe before a gunfight”.

Tra le conseguenze della recente diffusione del 3D c’è la nascita di opere che sembrano perdere ogni senso se private della tecnologia stessa. Fa parte del gioco: se il 3D significa per molti spettatori disincantati il ritorno all’esperienza fisica della sala, è quasi naturale che la tecnologia porti a sviluppare anche un cinema che si avvolge intorno a essa e non solo viceversa. Il succo della questione è: quando l’oggetto di turno viene lanciato verso lo spettatore e questi non si scansa più, cosa resta di quell’idea di cinema? Interessante allora vedere a due dimensioni, pur se in alta definizione, un film come Drive Angry: cosa rimane attaccato allo scheletro spolpato dagli effettacci da luna park? Francamente poco: anche perché il film di Lussier è davvero una stupidaggine scritta (da Lussier insieme a Todd Farmer, che recita nel ruolo inglorioso del fidanzato manesco) sul retro del biglietto da visita di una pessima birreria di provincia, ma non del tutto sciocco nel puntare tutto su un Nicolas Cage divenuto la caricatura di se stesso; un film che tra l’altro si sposta quasi subito nei territori della parodia e del cartoon – la consistenza dei due personaggi maschili viene dritta dai Looney Tunes - e ci rimane fino alla fine. Insomma, Drive Angry non si prende mai sul serio, nemmeno per un momento, è sempre alla ricerca del rilancio esagerato e alla fine la strategia si rivela vincente: impossibile annoiarsi, se si accetta questa premessa. In ogni caso, l’elemento migliore è la bellissima Amber Heard, e la sua Piper, cameriera spavalda e parolacciara, è davvero memorabile: il resto del film è una baraccata fracassona e naif, senza un’idea originale o un effetto che non sembri vecchio di quindici anni, anche se, ammettiamolo, onesta e abbastanza spassosa.

The Tree of Life, Terrence Malick 2011

The Tree of Life
di Terrence Malick, 2011

Terrence Malick schiaccia il pulsante del fast forward sulla storia dell’universo e sceglie di mettere play sulla storia di una famiglia nell’America degli anni ’50; per raccontare, attraverso lo sguardo di un uomo che ricorda la fine implacabile della sua infanzia tra le strade semivuote e le case piene di urla e i giardini tra di esse, un contrasto tra natura e grazia impersonato da un padre duro, inflessibile, cinico e disilluso, e una madre dolce, rassegnata e remissiva; e se la parte centrale del film è questa storia anche piuttosto canonica sulla perdita dell’innocenza, è costruita come una sineddoche del mondo o forse una sua metafora in cui la forma della preghiera, la sua forma assoluta e laica se vogliamo, buttata al cielo e alle nuvole da sotto i rami di un albero, ne diventa il collante facendo assumere al film i connotati di una riflessione cosmica sulla grandezza e insieme sulla dolente fragilità della vita; scegliendo, come già i Coen avevano fatto in tempi recenti, la storia di Giobbe per tematizzare i personaggi messi alla prova di fronte all’assurdità stupefacente della vita e della morte e chiudendo il film con una sequenza misteriosa e affascinante, tra Lost e Fellini, al di là del mondo – o forse al di là del film, dei personaggi, e dei ruoli. E il modus operandi del regista texano non ha nulla a che fare con il cinema contemporaneo: non solo per la struttura narrativa, che con un trucco che ha illustri precedenti fa precedere l’assenza al presagio, facendo camminare i fantasmi sulla Terra; e non solo per la scelta suddetta di alternare la vicenda umana dei suoi personaggi a una stupefacente e frastornante storia dell’universo, dal Big Bang all’esplosione del sole, ma perché segue soprattutto intuizioni del ricordo selettivo che hanno più a che fare con la costruzione musicale e sinfonica che con la narrazione tradizionale. E il film si dipana proprio così, trascinando il pubblico in movimenti musicali e inconsci – in cui il montaggio è tutto, per il modo magistrale in cui sequenze e inquadrature vengono riarrangiate in favore della colonna sonora e non viceversa, e in cui il materiale viene rimodellato, troncato, rimescolato, in modo totalmente estremo dalle mani esperte del regista. Che trova soprattutto nella prima metà del film un culmine del sistema sperimentato nei due film precedenti, ma che non può che scontrare, e forse lo fa volentieri, le sue enormi ambizioni contro le limitazioni del mezzo: tutto sommato  The Tree of Life è un film sostanzialmente irrisolto, ma mai e poi mai irresoluto, perché Malick fa dei propri limiti un vanto, e ha il coraggio di alzare la testa, di porre delle domande, di fornire persino delle risposte, e sa mettere un quadro e una prospettiva vera intorno ai personaggi e all’umanità, e di fare cinema in modo furiosamente personale, come pochi altri. Questo è il (piccolo) prezzo che il film deve pagare: la spettacolare trivialità di una vita qualunque, banalità resa epica, minuscola traccia di sé resa Universo, non avranno mai la potenza espressiva e l’impatto emotivo di un mondo che nasce e muore.

Amici, amanti e… (No strings attached), Ivan Reitman 2011

Amici, amanti e… (No strings attached)
di Ivan Reitman, 2011

La premessa essenziale è che Natalie Portman è in grado di farci digerire qualunque cosa. Sembra una sciocchezza dovuta all’affetto nei confronti dell’attrice o all’avvenenza impressionante della stessa, ma in realtà la Portman è proprio brava: è capace di infondere in un personaggio banale e superficiale come quello della dottoressa anaffettiva quel briciolo di anima in grado di renderla credibile e umana. E non è una cosa da poco. Perché la stessa Portman si sia impegnata personalmente nella produzione del film è invece un mistero: No Strings Attached è una commedia bruttarella ed estenuante che sembra dapprima proporre un ribaltamento dei cliché di genere per poi mettere in campo la risoluzione più risaputa e conservatrice. Un meccanismo scaltro che ha fatto la fortuna di commedie ben più riuscite, ma con l’aiuto di registi più capaci – perché Reitman avrà pure fatto Ghostbusters e Dave, ma sono parecchi anni che non tira fuori un film decente e, ricordiamolo, la sua ultima fatica era stata La mia super ex-ragazza. Grosso errore di valutazione, ancora una volta, su Ashton Kutcher, protagonista assoluto quasi sempre in scena nonostante sia quasi del tutto privo di talento, se siamo ancora in un mondo in cui possiamo discernere il talento dal fatto che uno è molto alto. Secondo errore di valutazione, quello sul cast di non protagonisti – mentre la commedia americana ha insegnato spesso nell’ultimo decennio a fare tesoro dei volti secondari, qui sono meno che sottoutilizzati: meno minuti (ce n’erano in abbondanza) dedicati alla noiosa storia d’amore tra i due ricchi e viziati protagonisti e alle loro fisime borghesi e più Greta Gerwig e Ludacris avrebbero giovato assai alla sopportabilità del film.

Sul titolo italiano del film non ho più parole.

Fast & Furious 5 (Fast Five), Justin Lin 2011

Fast & Furious 5 (Fast Five)
di Justin Lin, 2011

Vogliamo bene a Justin Lin per alcune ragioni: perché ha diretto un film buffo, divertente e cinefilo come Finishing the Game; perché ha diretto uno dei migliori episodi di Community, ovvero Modern Warfare, che era proprio un omaggio al cinema action statunitense; e da oggi, perché no, gli vogliamo bene anche perché ha diretto Fast Five. Intendiamoci, la riuscita di questa operazione sintetica forse non fa di questo quinto capitolo un caposaldo del genere, ma a patto di stare al gioco il film di Lin è innegabilmente uno dei più scatenati, insaziabili e spassosi pezzi di cinema in circolazione. Forse il segreto stava proprio nell’accettare i propri limiti fin da principio, accantonando ciò che è accessorio sollevandolo più che altro dal peso di definire il film stesso: la sceneggiatura di Fast Five, per esempio, è una sciocchezza completamente inesistente, e quando fa capolino – e ahinoi succede spesso – non fa che causare danni (vuoi per la tentazione ovvia di ammiccare troppo agli aficionados, vuoi per uno spiccato e divertito disinteresse nei confronti della consequenzialità), così come la necessità di rifarsi a linguaggi standard crea qualche intoppo (un esempio a caso, la ripetizione continua della panoramica su Rio vista da dietro il Cristo Re), ma il film in sé ha una sua inaspettata consistenza, molto concreta e “pesante” eppure a suo modo leggiadra, che trae beneficio proprio dall’assenza deliberata di consequenzialità, a volte di ragionevolezza, in un certo senso anche di leggi fisiche, oltre che dalla semplicità epica dei sentimenti dei protagonisti (famiglia, amicizia, giustizia, anelito di libertà) e dalla loro presenza scenica: messi da parte Walker e la Brewster, è lo scontro tra Vin Diesel e The Rock quello a fare più scintille – come due macigni che fanno a gara per riempire lo schermo con il proprio corpo cacciando l’altro fuoricampo. Il divertimento di Fast Five è poi legato strettamente al rapporto con i cliché del cinema d’azione e dei suoi sottogeneri: heist film più che racing film (per fortuna: il fatto che abbiano appiccicato una corsa in mezzo al film, come tra parentesi, la dice lunga sull’abbandono del filone), il film di Lin non a caso nella prima mezzora ha una “grande rapina al treno” – tra le sequenze migliori del film, insieme all’inseguimento a piedi e all’incredibile incipit – e si chiude con una sequenza lunghissima, catastrofica e inarrestabile tra le strade di Rio che non ha tanto l’ambizione di alzare il tiro o ridefinire il topos dell’inseguimento distruttivo in sé, quanto di portarlo allo stato dell’arte. E ci riesce bene.

Thor, Kenneth Branagh 2011

Thor
di Kenneth Branagh, 2011

Il dubbio legittimo che un regista come Kenneth Branagh non fosse la scelta migliore per portare sullo schermo le avventure del super-eroe della Marvel svanisce più o meno subito, durante le prime scene ambientate ad Asgard: anzi, se si destreggia bene tra le implicazioni shakespeariane delle trama, Branagh mostra anche una certa dimestichezza con il linguaggio del fumetto e soprattutto con le esigenze dell’intrattenimento hollywoodiano. Ma la sfida più imponente era quella di spostare il progetto The Avengers dal piano più “tecnologico” di Iron Man e Hulk a quello della trascendenza, della magia se vogliamo, o del puro mito, sulla carta più difficile da digerire per un pubblico sempre più restio a sospendere la propria incredulità. Una sfida vinta grazie alla fisicità terrena delle divinità, in primis l’azzeccato protagonista Chris Hemsworth, e grazie a un’ironia serrata e intelligente nel tracciare il contrasto tra i due mondi. Un’ironia che – seguendo l’esempio del primo Iron Man – serve da valvola di sfogo più che da catalizzatore, e se anche non proprio tutto funziona (per esempio l’adorabile Kat Dennings è poco più che un “indie relief” tirato via) il film è davvero una pacchia per qualunque amante dei comics americani – o anche solo dei film da essi tratti, dei quali è uno dei migliori esemplari degli ultimi anni. La sorpresa è che, nonostante la scontata cura delle scene d’azione, il meglio stia quasi altrove: impreziosito infatti in modo definitivo dalla scelta non solo di mettere in campo degli attori veri (Stellan Skarsgård, un ritrovato Anthony Hopkins, ma soprattutto la meravigliosa Natalie Portman) ma anche di dirigerli sul serioThor è un ottimo film spettacolare ma che non dimentica i suoi personaggi, un film di eroi immortali che riesce a emozionare per un bacio d’addio in mezzo al deserto. E in definitiva una notevole spinta in avanti di qualità per quello che è ormai diventato uno dei progetti più grossi e ambiziosi della storia di Hollywood. Ci sarà da divertirsi.

Source Code, Duncan Jones 2011

Source Code
di Duncan Jones, 2011

Dopo aver sorpreso tutti con Moon, il piccolo e bellissimo gioiello da 5 milioni di budget che si è meritato tra gli altri un Hugo Award e la stima dei fan della hard sci-fi, con il suo secondo film Duncan Jones rimane in territori non dissimili ha sfornato un altro film ben più che soddisfacente: l’aumento del budget e il passaggio negli states non ha portato via al regista britannico il talento nel raccontare storie umane che utilizzano al pieno delle loro potenzialità le armi della narrativa fantascientifica, con una compattezza assoluta e circolare che sembra ancora rifarsi alla struttura del racconto breve. E se la sceneggiatura di Ben Ripley riserva poche sorprese perché gioca su snodi narrativi di per sé facilmente intuibili quasi da principio (l’identità dell’attentatore, l’ontologia del “source code”, persino la conclusione necessaria della vicenda), per fortuna non è sull’effetto-sorpresa che Jones vuole giocare la sua partita ma piuttosto sull’abilità di costruire una storia che parte dalle sue idee tecnologiche per finire dritta nel cuore dei personaggi, e non viceversa, rendendo chiaro sempre e comunque che quella è la destinazione definitiva: una rivincita della passione sulla ragione, dell’anima sulla tecnologia se vogliamo. Facendo leva su ossessioni contemporanee (claustrofobie diegetiche, paradossi spazio-temporali cerebrali) e su brillanti citazioni hitchcockiane, Jones è riuscito ad azzeccare un altro gran bel film, forse meno inappuntabile del precedente, ma che è ancora una volta fantascienza intelligente, pulsante e vitale.

Habemus Papam, Nanni Moretti 2011

Habemus Papam
di Nanni Moretti, 2011

Nelle ultime settimane si è parlato così tanto, ma così tanto, di Habemus Papam, che si è parlato troppo persino del fatto che se n’è parlato troppo. Dal canto mio, ho avuto molto da fare: un’ottima giustificazione per assolvermi assistendo accigliato alla sfilata di commenti spesso discordanti non tanto con la mia opinione personale sul film quanto sul metodo o sulle premesse di partenza. La tentazione di fare un post in cui prendersi gioco di queste posizioni e delle molte sciocchezze che ho letto in giro era forte, ma poi mi sono reso conto (in realtà lo so da tempo) che spesso mi danno ancora più noia i giudizi che fungono da mero pretesto per attaccare gli altri giudizi o gli spettatori, i cui estremi in questo caso sarebbero: quelli che odiano Moretti a prescindere; (ancora di più) quelli che lo amano troppo; per tacere dei preti, o degli anticlericali più accesi. Preferisco parlare anche un po’ del film, per quel che vale, soprattutto perché Habemus Papam merita questo rispetto: Moretti è riuscito nel benevolo inganno di prenderci alla sprovvista con lo specchietto per allodole del Vaticano per raccontare una storia assai universale sul peso delle responsabilità e sui limiti dell’essere umano filtrata attraverso uno scontro gentile ma sbalorditivo tra l’ossessione psicanalitica del regista e un inatteso (ma non incoerente) fascino nei confronti del sacro – o meglio, il rapporto dell’uomo con il sacro, e la malinconia disperata di un uomo investito da Dio nei confronti della sua stessa ormai perduta umanità. Il film viaggia ovviamente su due binari paralleli, con il Papa che va a zonzo per Roma in preda ai postumi di un rivelatorio attacco di panico mentre lo psicanalista rimane imprigionato in Vaticano alle prese con una sconcertante, buffa e poetica umanizzazione (e smitizzazione) del Conclave; e mescolando in modo sapiente ed equilibrato lo spirito pungente tipicamente morettiano del secondo binario (lunghissima e irresistibile la lista delle citazioni che ci esimeremo dal citare) con la più quieta e interiore ricerca del Papa tra le vie e i mezzi pubblici della Capitale, procede verso un finale secco e quasi improvviso ma assolutamente necessario in cui Moretti tira davvero le fila, senza lasciare scampoli, della sua riflessione sull’essere umano. Una chiusa spietata, a suo modo, ma giustissima e perfetta che conferma, al di là del divertimento innegabile e della candida leggerezza che accompagna gran parte del film, la cupezza sottesa del suo cinema, o quantomeno la sua ineluttabilità. E più di tutto, la lucidità sempre più matura e profonda del suo sguardo sul mondo e sull’uomo.