giugno 2011

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Cars 2, John Lasseter e Brad Lewis 2011

Cars 2
di John Lasseter e Brad Lewis, 2011

Ci vuole una sola parola per spiegare come mai, tra tutti i progetti possibili, Lasseter e soci abbiano deciso di produrre un sequel del loro film meno amato: merchandising. Forse, da un’altra ipotetica prospettiva, questo è il primo momento della loro storia in cui dietro alle decisioni degli straordinari Pixar Animation Studios appare l’ombra del compromesso: se volete fare un film come Brave, in arrivo tra un anno, vi conviene fare cassa. E fare cassa nelle sale non basta.

Ma il problema di Cars 2 non è questo: Toy Story 3 (e l’eventuale venturo quarto capitolo) sembrava nato sotto le medesime direttive, eppure si è rivelato persino il migliore dei tre, un capolavoro. Il problema di Cars 2 è che per la prima volta la Pixar si è “accontentata”, rinunciando a sperimentare, limitandosi a proporre meccanismi oliati che dovrebbero funzionare da soli: in un certo senso è così, perché il film scorre bene e con grande facilità – ma il carisma, il cinema, il cuore, stanno da tutt’altra parte. Vero è che la distanza dal primo film, opera senza dubbio minore ma spesso ingiustamente sottovalutata, proviene da un’intrinseca voragine tematica: il contrasto forte tra città e campagna del predecessore diventa qui un banale messaggio di comprensione e accettazione della propria natura inserito in una trama che si rifà al cinema spionistico – come se un personaggio di Peter Sellers fosse finito per sbaglio in un film di James Bond – e mescolato a una riflessione ambientalista spiccia e infantile. Ma se anche Cars era molto semplice, Cars 2 è più che altro semplicistico.

In ogni caso non si tratta certo di un film “brutto”, parola assente dal dizionario della Pixar: tecnicamente ineccepibile, con diverse ottime trovate e un’anima “action” che è indubbiamente la più riuscita (anche se dispiace che ci siano così poche corse e così tanti inseguimenti), il film annoia però ogni volta che sceglie di rallentare e soprattutto – ahinoi – arranca pietosamente quando si sforza in tutti i modi di rendere simpatici i suoi personaggi. Umanizzare macchinine di metallo, nella linea della tipica malinconia pixariana, è un piccolo miracolo che era riuscito a Cars; qui invece ci si concentra solo sul carro attrezzi Mater/Cricchetto, facendo fuoriuscire l’inutilità (quando non l’antipatia) del resto del cast: un’ammaccatura che rovina tutta la carrozzeria.

Dylan Dog – Il film, Kevin Munroe 2011

Dylan Dog – Il film (Dylan Dog: Dead of Night)
di Kevin Munroe, 2011

“Does the word ‘Sclavi’ mean anything to you?”

Ci vuole poco a capire perché confrontare il Dylan Dog di Kevin Munroe e quello di Tiziano Sclavi non possa giovare al film; pare inoltre un esercizio fine a se stesso: i cambiamenti sono stati così numerosi e radicali, alcuni giustificati dalle contingenze produttive e altri francamente inspiegabili – non tanto la terribile voce fuori campo o lo spostamento da Londra a New Orleans, quanto la modifica sostanziale dell’intera backstory di Dylan, divenuto un ex “mediatore” tra umani e mostri – da creare con questo film una nuova mitologia, che riporta alla mente Blade e Underworld, magari Buffy o addirittura Streghe, più che il Romero citato frequentemente nei primi storici albi del fumetto italiano. Una comodità per chi fosse così volenteroso da affrontare Dead of Night come un film a sé stante – nonostante la costruzione narrativa si rifaccia abbastanza fedelmente alla “tipica” storia di Dylan – e non come il fallito adattamento di un grande prodotto editoriale. E così com’è, il film di Munroe è meno orrido di come lo si dipinge: una volta superato il trauma (la prima mezz’ora di film è un facepalm dietro l’altro) questo Dylan Dog appare come un discreto horror di serie B straboccante di cliché che tra il dark e la commedia sceglie più volentieri quest’ultima. Infatti proprio nell’inseguire i toni leggeri Munroe trova i suoi momenti peggiori (ad esempio la sequenza demenziale e sbracata dell’obitorio) ma anche i suoi migliori (il mercatino dei pezzi di ricambio) accomodandosi più spesso su un placido e per nulla sgradevole equilibrio tra le esigenze del genere e l’ammiccamento ironico, anche grazie al comic relief di Sam Huntington – che aveva l’arduo incarico di far dimenticare l’assenza di Groucho e fa un buon lavoro, anche se la sceneggiatura e i dialoghi raffazzonati non sono all’altezza (ma “I look like a dead hooker!” mi ha fatto sorridere). Brandon Routh invece è noto per essere un attore rigido e legnoso, e qui si riconferma tale: molto meglio l’islandese Anita Briem.

X-Men: L’inizio (X-Men: First Class), Matthew Vaughn 2011

X-Men: L’inizio (X-Men: First Class)
di Matthew Vaughn, 2011

Il compito di Matthew Vaughn non era semplice: recuperare una saga partita benissimo e poi persasi per strada per colpa di un pessimo terzo capitolo e di uno spin-off sulle origini di Wolverine sgradito ai più, soprattutto viste le sue potenzialità; il tutto inserito peraltro in un contesto del tutto diverso dal passato: se nel 2000-2003 i film di Bryan Singer erano considerabili al di sopra della media dei prodotti simili, la qualità dei “film con i super-eroi” si è alzata notevolmente negli anni successivi; e il tutto, infine, in tempi davvero ristretti.

In questa prospettiva, Vaughn ha fatto un gran bel lavoro: abbassando la levetta dell’epos e alzando quella del pop, ha confezionato prima di tutto un film divertente, davvero ben congegnato anche se non particolarmente originale, e costruito in gran parte sull’ammiccamento nei confronti degli appassionati – sia tramite l’allusione continua al destino arcinoto dei suoi personaggi sia, più sottilmente e probabilmente con una punta di scaltrezza, indirizzandosi direttamente al fandom vero e proprio e allo sterminato mondo della rielaborazione culturale in rete. Questo è il motivo palese per cui l’incontro tra i futuri Professor X e Magneto, al centro del film (con i personaggi secondari, spesso volutamente tralasciati, a raccogliere poco più che briciole), è diventato un vero e proprio bromance, già pronto e impacchettato per diventare il fulcro di innumerevoli fan fiction.

Quindi, nonostante gran parte del cast sia all’altezza della situazione (soprattutto Kevin Bacon, Jennifer Lawrence e Nicholas Hoult: January Jones è invece con tutta probabilità la peggior attrice in circolazione, e non serve la lingua originale per accorgersene) in questo senso è la scelta di McAvoy e Fassbender la più vincente in assoluto: la tensione emotiva tra i due è palpabile, anche se è soltanto il secondo in tutto il gruppo a mostrare uno sforzo attoriale che supera i meriti del film stesso – rischiando spesso di divorarlo, fortunatamente non riuscendoci mai. Che Magneto avrebbe dato più soddisfazioni di Xavier lo si capisce fin da principio, nel montaggio parallelo che apre il film: intenso e drammatico la parte dedicata al giovane Erik (una delle migliori sequenze), svagata e un po’ stucchevole quella di Charles Xavier e del suo incontro con la mini-Raven.

Il compito, dunque, è ben svolto: Vaughn ha dimostrato, come già in Stardust, di saper mettere la sua professionalità al servizio della produzione (non è un caso che Singer sia tornato, e la sua impronta è in qualche modo evidente) e di un progetto ben più arduo di quanto sembri sulla carta. Peccato che il suo potenziale non si sia espresso al meglio come in Kick-Ass, ma in definitiva ci possiamo accontentare. Basta, e avanza: soltanto con lo shipping Erik/Charles ne avremo per mesi e mesi.

Peter Falk R.I.P.

Peter Falk è morto ieri a Beverly Hills. Aveva 83 anni.

13 Assassini, Takashi Miike 2010

13 Assassins (Jûsan-nin no shikaku)
di Takashi Miike, 2010

Nella luce fioca di una stanza spoglia, una donna senza nome, senza braccia e senza lingua scrive a chiare lettere su un papiro la missione di Shinzaemon, chiamato dai consiglieri dello Shogun a porre fine alle angherie di Naritsugu, pazzo fratello dello Shogun. Le parole sono “massacro totale”, e non lasciano alcuna possibilità di tregua: Shinzaemon dovrà mettere insieme una piccola squadra di samurai allo scopo di uccidere il dispotico Naritsugu – e la battaglia sarà lunghissima e sanguinaria.

Ambientato agli ultimi sgoccioli dello shogunato, a pochi anni dall’avvento del Periodo Meiji che avrebbe in breve tempo trascinato il Giappone fuori dall’era feudale e dentro la modernità, 13 Assassins è il film della definitiva maturità di uno dei registi più prolifici, idolatrati e importanti del cinema nipponico nello scorso decennio: un’opera possente e furibonda sulla linea della gloriosa tradizione del jidaigeki che al tempo stesso ne segna un superamento radicale, segnato dalla decadenza e dall’ineluttabilità. I samurai perseguono la loro missione con stoicismo suicida e con una sorta di dolente e implicita consapevolezza, quella della fine di un’era, inseguendo l’ultimo baluardo di un eroismo pronto a essere dimenticato dal tempo – perdendo di colpo in colpo il controllo del proprio corpo, ma sempre e comunque lottando, fino all’ultimo respiro, all’ultima goccia di sangue, all’ultima convulsione.

Un’immersione appassionante, violenta ed estenuante in una concezione fuori dal tempo dell’onore e della giustizia che, nel percorso che porta allo scontro, predilige lunghe sequenze preparatorie (interrotte qua e là da autentiche fiammate) e che all’incontrollabilità del regista sembra sostituire un più adulto e controllato rigore – dietro al quale però si intravede con chiarezza l’anima visionaria e folle di Miike, il suo senso dell’umorismo improvviso e stordente e un’irresistibile fascinazione per la coesistenza tra realtà e mistero, tra umanità e leggenda.

Nei cinema italiani dal 24 giugno 2011.

Natale a Odessa

La mia proposta per il cinepanettone 2012.

Bronson, Nicolas Winding Refn 2008

Bronson
di Nicolas Winding Refn, 2008

Mentre la stampa di tutto il mondo esalta le doti di Drive, suo ultimo film presentato a Cannes, Nicolas Winding Refn arriva nelle sale italiane in grande ritardo con il film che ha sancito da tempo il suo ruolo di beniamino dei cinefili europei: un biopic tratto da una storia vera, ma tra più inusuali mai visti sullo schermo, che nel raccontare la storia del “prigioniero più famoso del Regno Unito” sceglie strade antinaturalistiche, spesso anche antinarrative e sperimentali, passando con dimestichezza e un tocco di furbizia dall’avanguardia al pulp. Non a caso Bronson è stato paragonato da più parti ad Arancia Meccanica, con cui condivide in modo deciso alcune suggestioni e idee nell’uso dello spazio, nel contrasto tra le immagini e la colonna sonora, e più sottilmente un senso di inquietudine capace di parlare di coercizione sociale, con necessaria e dolorosa violenza stemperata da un umorismo feroce. Quello che colpisce di più in Bronson, oltre ovviamente alla performance sinceramente impressionante, sotto ogni aspetto, di Tom Hardy, è lo stile fiammeggiante e insieme rigorosissimo del regista: non sempre all’altezza del suo stesso talento, perché il racconto subisce dopo la metà una sonora ma riscattabile frenata (per quanto abilissimo a sfruttare il canovaccio del “mostro innamorato” ), Winding Refn non si limita a grandi intuizioni plastiche e ad acute provocazioni narrative, ma mantiene all’interno dell’estenuante ricercatezza delle inquadrature, persino degli stacchi di montaggio, quello che appare come un autentico studio morale. Ma affrontato, e qui viene il bello, con lo stesso pugno duro del suo protagonista: Bronson dopotutto è una forza che sembra provenire dalle viscere della Terra, e di fronte alla cui furia il sistema, paralizzato e inerte, non ha soluzioni, né mezzi, né risposta alcuna. Un super-uomo rinchiuso nella buia cella che chiama casa.

Il film è uscito in Italia lo scorso 10 giugno. Se non lo trovate più nelle sale o preferite vederlo in lingua originale, il dvd inglese è facilmente reperibile e molto economico.

I guardiani del destino (The Adjustment Bureau), George Nolfi 2011

I guardiani del destino (The Adjustment Bureau)
di George Nolfi, 2011

Attenzione a non scambiare The Adjustment Bureau per un thriller: l’opera prima dello sceneggiatore George Nolfi, che lo stesso regista ha tratto da un racconto di Philip Dick con grande libertà ma senza tradirne lo spirito, è un’autentica commedia romantica in cui le suggestioni e le paranoie sci-fi e il contesto tipicamente dickiano della scoperta di una realtà nascosta dietro il velo di Maya servono più che altro da pretesto per una convincente e persino commovente love story con contorno di eminenze grigie. Non a caso i punti di forza del film, più che nell’assetto di genere (costruito comunque con classe e con una spiccata predilezione per l’understatement) sono proprio nei molti dialoghi, brillanti ed efficaci, nella recitazione dei due protagonisti (soprattutto un’illuminante Emily Blunt e l’azzeccatissimo John Stallery) e nella leggerezza del tocco di Nolfi nel raccontare un amore talmente potente e necessario da arrivare a sfidare sé stessi, il Fato, e Dio in persona. Quindi, se pure ci sono qua e là alcuni stalli nello script, per il desiderio di spiegare nei dettagli la sua mitologia e di intrecciarla con un discorso più ampio sulla trascendenza, sul caso e sul libero arbitrio, The Adjustment Bureau è un’opera così favolosamente romantica da far perdonare qualche passeggera ingenuità. Un film che si presenta tra l’altro con un ottimo biglietto da visita, ovvero il magistrale incipit che presenta in breve tempo il personaggio di David grazie al montaggio serrato e intelligente di Jay Rabinowitz, e che continua riuscendo a trovare un equilibrio delicato tra quest’anima sentimentale, le necessità della narrazione fantascientifica e la pura piacevolezza del racconto. Bellissima sorpresa.

Nelle sale dal 17 giugno 2011.

Paul, Greg Mottola 2011

Paul
di Greg Mottola, 2011

“Hey fucknuts! Probing time.”

Degli ultimi tre film di Greg Mottola, Paul è forse il meno personale, sicuramente quello meno legato alle ossessioni malinconico-adolescenziali del regista: in verità è più propriamente un film di Simon Pegg e Nick Frost, che firmano infatti la densissima sceneggiatura di un film che vuole essere un omaggio a tutto tondo a una multi-generazione geek cresciuta tra la fantascienza di Spielberg e le avventure di Fox Mulder, tra il culto del Klingon e i Men in Black. Un film, insomma, che comunica a filo diretto con il citazionismo di Spaced più che con la commedia di Seth Rogen (anche se quest’ultimo, con la sua partecipazione vocale, dà una decisa impronta “rogeniana” all’eponimo alieno parolacciaro) con una storia che si appropria di molti cliché della commedia on the road, ma con un umorismo che seppur guardando l’America redneck e integralista dall’alto in basso riesce a mescolare abbastanza sapientemente le sue due anime, cinismo britannico e consapevolezza yankee.

Rimane il dubbio su cosa sarebbe stato di Paul nelle mani più coraggiose e davvero sperimentali di Edgar Wright, antico (e futuro) sodale dei due, ma possiamo accontentarci: se il film di Mottola non è fulminante è comunque vorticoso, spesso delizioso e quasi sempre divertentissimo, un gioco di rimandi che a volte pare sfociare nel nerd trivia (piuttosto facile a dire il vero) ma che riesce nonostante il giochetto cinefilo a non dimenticare mai per strada l’anima e il senso dei suoi personaggi – Pegg e Frost sanno decisamente di cosa parlano, quando parlano di geek – e ammiccante senza ritegno nel sottolineare, sulla falsariga di Hot Fuzz, le pieghe più romantiche del loro bromance. Come spesso accade, la ricchezza del film si trova anche nel cast secondario, tra cui spiccano un formidabile Bill Hader e l’adorabile Kristen Wiig nel ruolo di una cristiana del Wyoming che l’alieno Paul provvede a convertire alla scienza e alle gioie dell’imprecazione.


Nota: ho visto l’edizione estesa, l’ho vista in lingua originale, e di quella ho scritto: non garantisco che l’umorismo prettamente verbale del film sia stato ben adattato nell’edizione italiana, dove Elio ha dato la voce a Paul.

In ogni caso, se volete il DVD inglese è già in vendita.

Ci sono, ci sono

Arrivo, eh. Un attimo di pazienza e arrivo.