luglio 2011

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Captain America – Il primo Vendicatore, Joe Johnston 2011

Captain America – Il primo Vendicatore (Captain America: The First Avenger)
di Joe Johnston, 2011

Curiosamente, quando si parla di Captain America si parla soprattutto di The Avengers. La scelta di aprire e di chiudere il film in questo modo, se non altro, rende inequivocabile come in nessun altro dei film precedenti la sua natura episodica all’interno di un progetto seriale, ed è piuttosto inutile a posteriori mettersi a fare ulteriori riflessioni su quanto sia maggiore l’appeal di un film sui Vendicatori di Joss Whedon rispetto a un film su Capitan America diretto da Joe Johnston – che, dal canto suo, fa un lavoro onesto anche se pressoché invisibile. Tutto il film che sta in mezzo tra il suggestivo incipit e quel finale tronco ed emozionante, con una frase lanciata su stacco al nero che è anche l’unico vero guizzo della sceneggiatura di Markus e McFeely (gli stessi della saga di Narnia), è approssimativamente quel che ci si poteva attendere ma allo stesso tempo è una virata necessaria dallo stile dei predecessori. Captain America dialoga soprattutto con il linguaggio del cinema di guerra più che con quello del film di super-eroi, scansa le tentazioni goliardiche e ammicca il meno possibile (anche se lo Stark senior di Dominic Cooper è divertente), si mantiene su un registro semiserio che rispecchia la gravitas del suo protagonista, e sembra volersi rifare a un intrattenimento più “classico”, tra virgolette, pre-Iron Man per intenderci, con la presenza di un respiro patriottico meno calmierato dal sarcasmo (ma anche meno insistito di quanto si dica in giro), oppure la costruzione di gran parte dei personaggi, la “hawksiana” Peggy Carter di Hayley Atwell o Tommy Lee Jones, un soldato duro-dal-cuore-morbido fatto a occhi chiusi. L’elemento di disturbo è ovviamente il Teschio Rosso di Hugo Weaving, stilizzato e quasi surreale, una macchia saturata sbattuta sullo sfondo di un film fantabellico che senza di lui avrebbe sofferto di allergia alla polvere. In definitiva, il film di Johnston regala un intrattenimento validissimo, meno sbruffone e compiaciuto della media e del tutto accettabile – se non ci fossero stati, a così breve distanza, Kenneth Branagh e il suo Thor a mostrarci che, anche all’interno di un progetto industriale colossale come il Marvel Cinematic Universe, un regista vero fa ancora la differenza.

Harry Potter e i doni della morte – Parte 2, David Yates 2011

Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 (Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 2)
di David Yates, 2011

Il capitolo finale della saga cinematografica tratta dai libri di J.K. Rowling, una delle più lunghe e produttivamente impegnative di sempre, oltre che tra le più radicali nel contesto del cinema cosiddetto mainstream, è a tutti gli effetti una “seconda parte” – ma è talmente riuscito da far brillare di riflesso anche l’altra metà: così come il film precedente si soffermava per l’ultima volta sulle relazioni tra i personaggi, prendendo tempo e dilatandolo in un’attesa snervante e ricca di dettagli indirizzati soprattutto agli iniziati, in questo film – come ci si poteva aspettare – viene rilasciata l’anima più spettacolare della serie. Deathly Hallows si rivela così, nella sua interezza, la chiusa ideale di un ciclo segnato prima di tutto da un percorso di avvicinamento alla morte che non ha molto a che fare con le impressioni date dai primi due episodi, circa un decennio fa, né con l’iconografia generale del racconto per ragazzi, in cui la simbologia del legame tra Harry e Voldemort, dello scontro inesorabile e infinitamente rimandato tra i due, trova ineccepibili giustificazioni narrative e una sua – altrettanto inevitabile – conclusione. Un finale che, tra i suoi meriti, ha quello di rimettere il personaggio di Potter al centro dell’azione, in una rivisitazione matura e dark del romanzo di formazione in cui il rito di iniziazione definitivo non è più la scoperta della mortalità ma l’accettazione della morte stessa, del proprio ruolo sacrificale tatuato sulla fronte fin dalla prima pagina o dalla prima inquadratura; ma anche quello di dare finalmente il lustro che merita a un personaggio ambiguo e affascinante come quello di Severus Piton/Snape, protagonista di un flashback/backstory autenticamente commovente. Harry Potter è stato in tutti questi anni un esempio di cinema per ragazzi avvincente e intelligente, capace di reinventare se stesso sulle sue pur solidissime basi, di crescere di film in film insieme ai suoi spettatori come un solo, amatissimo quanto ingombrante, progetto: e le quasi cinque ore che compongono la doppietta finale sono probabilmente il punto più alto di questo difficile equilibrio. Forse questo ottavo film è il più diretto, addirittura il meno complicato dal punto di vista dell’adattamento, ma è anche il più appassionante, il più spaventoso, il più intenso, il più trasparente e cristallino, oltre che quello produttivamente più compiuto e meglio realizzato. Abbiamo aspettato, spesso e volentieri ce la siamo goduta, a volte ci siamo lamentati, ma ne è valsa la pena: non a caso questo è uno dei pochi film a potersi permettere il lusso di includere la nostalgia di se stesso.

The Ward, John Carpenter 2010

The Ward – Il reparto (The Ward)
di John Carpenter, 2010

Sono pochi i registi che si sono fatti attendere come si è fatto attendere John Carpenter, inattivo da quasi un decennio nei lungometraggi (nel frattempo ha infatti girato due ottimi episodi di Masters of Horror, tra cui il capolavoro Cigarette Burns), dai tempi del sottovalutatissimo Fantasmi da Marte. Ma era difficile immaginare che il ritorno di un maestro indiscusso e così importante per il cinema di genere potesse essere un film così poco radicale, così sommariamente medio. Non mediocre, si intenda: The Ward è un buon esercizio horror, robusto e “vecchio stampo”, come avete letto da ogni parte – un aspetto dal quale deriva però anche una certa prevedibilità, non solo narrativa: ma dopotutto il film è volutamente costruito su canoni ben definiti, dal setting nel manicomio al meccanismo stesso di svelamento dell’identità (e altro che non possiamo citare senza sfociare nello spoiler). La forza di The Ward quindi, più che nella struttura del racconto o nell’efficacia (irregolare) dei continui “spaventi”, risiede nella forza espressiva che Carpenter riesce a mostrare a tratti, quando viene pizzicato: in particolare l’incipit del film, dalla fuga di Kristen al suo arresto e internamento nell’ospedale psichiatrico, è un piccolo saggio di cinema, davvero magistrale nella scelta delle inquadrature e del montaggio. Ogni tanto il regista sfodera anche qualche marchio di fabbrica, come l’uso della dissolvenza incrociata, ma nella maggior parte dei casi si mantiene su un registro meno personale, non sempre appassionante e apparentemente disinteressato: in verità è un mezzo miracolo che un film di questo tipo funzioni ancora così bene, ed è un risultato di cui ci possiamo accontentare volentieri. Il punto di forza più indiscutibile del film è invece Amber Heard, che conferma il suo fascino selvaggio e violento e la sua impressionante presenza scenica: Carpenter, va da sé, sa perfettamente come usarla.

Take me home tonight, Michael Dowse 2011

Take me home tonight
di Michael Dowse, 2011

All’interno di un’ampia e diffusa fascinazione nei confronti degli anni ’80, non necessariamente quelli “veri” ma anche la loro revisione rimasticata dal processo culturale, il film di Michael Dowse tenta sia la strada del period movie, con un’ambientazione precisa all’interno delle dinamiche sociali del tempo, sia quella dell’omaggio retrò a un determinato modo di fare commedia tipico di quegli anni, sia nei toni e nei temi – riti di passaggio compresi – che (a tratti) nello stile. Purtroppo l’apparato di malinconia nostalgica mista a una critica non proprio irresistibile del cinismo yuppie, non riesce a celare una sostanziale carenza di idee: di fatto, Take me home tonight non è un film particolarmente sbagliato o noioso, scorre senza troppi incidenti o imbarazzi – ma è una riproposizione meccanica, senza vita, e che al massimo strappa qualche sorriso. Ma l’errore più madornale, dietro al quale si svelano più facilmente le falle che lo circondano, è il cast: non solo quasi tutti gli attori protagonisti hanno infatti circa dieci anni più dei loro personaggi – e si vede – ma anche le loro stesse performance sono assai deludenti. Topher Grace per proporre un personaggio “à la John Hughes” fa uno sforzo sovrumano ma spesso vano, Dan Fogler è sempre sopra le righe ma è una spalla sguaiata e volgare, e persino la deliziosa Anna Faris risulta sospettosamente mutata,  ”gonfia” e inespressiva. Il meglio lo dà qualche personaggio di secondo piano, come Chris Pratt, Demetri Martin, persino Teresa Palmer (che sembra un clone di Kristen Stewart, ma senza le insopportabili faccette) mentre Lucy Punch, nonostante sia una delle attrici più divertenti in circolazione, è praticamente invisibile: non si fa, non si fa.

Nelle sale (forse) dal novembre 2011

(foto via)