agosto 2011

You are browsing the site archives by month.

Bad Teacher, Jake Kasdan 2011

Bad Teacher
di Jake Kasdan, 2011

“I’ll tell you what I know. A kid who wears the same gymnastic sweatshirt 3 days a week, isn’t getting laid until he’s 29. That’s what I know.”
“Sweatshirt was my dad’s. It’s all he left me, when he left me.”
“There’s a reason he didn’t pack it. Just saying.”

Ci sono molte eccezioni, ma molte delle commedie americane il cui protagonista è sgradevole o “cattivo” contemplano una sorta di percorso redentivo che porta il personaggio a una rivalutazione dei propri ideali o del proprio stile di vita. Uno dei punti di forza di Bad Teacher è proprio l’inflessibilità della scorrettezza di Elizabeth: professoressa per caso, spavalda e parolacciara, è costretta a insegnare nonostante il disprezzo per la scuola dopo che il suo piano di farsi mantenere da un uomo ricco è andato a farsi benedire. Semmai è il pubblico che è portato ad avvicinarsi sempre più al suo punto di vista cinico sul mondo, rigettando le ipocrisie borghesi dietro alle quali si celano contraddizioni, nevrosi e follie di fronte alle quali l’atteggiamento spudorato e diretto di Elizabeth è un’autentica boccata d’aria. Allo stesso modo il film di Kasdan, che torna alla regia dopo l’eccezionale Walk Hard dimostrando ancora una volta di saper maneggiare la trivialità con classe, è una commedia volgare e liberatoria, che azzecca gag e dialoghi con irresistibile dimestichezza, ma che riesce a trovare persino una sua morale peculiare e del tutto coerente. Il tutto, va detto, funziona anche e soprattutto grazie al formidabile cast: prima di tutto Cameron Diaz che torna in gran forma (in tutti i sensi) come non era da anni, Jason Segel azzecca una performance quasi casuale ma stranamente autentica, Phyllis Smith (che viene da The Office come i due sceneggiatori) è una macchietta ma è innegabilmente uno spasso, Timberlake è impagabile; ma la migliore del gruppo è Lucy Punch nel ruolo della professoressa perfettina che dichiara guerra a Elizabeth: come al solito, bravissima.

Nei cinema dal 31 agosto 2011

(image via)

Tucker & Dale vs Evil, Eli Craig 2010

Tucker & Dale vs Evil
di Eli Craig, 2010

Si parte come un tipico film horror adolescenziale: un gruppo di studenti del college abbandona la città per campeggiare e in una stazione di servizio incontra due “hillbilly” che in un altro film sarebbero probabilmente due pericolosi assassini. A quel punto c’è la svolta che definisce l’intero film: i due protagonisti sono proprio loro, e i “campagnoli” sono ingenui ma buoni come il pane e sono intenti a passare un periodo di tranquilla villeggiatura nella loro cascina – ma i ragazzi equivocheranno ogni loro mossa (in buona o cattiva fede) finendo per trasformare la vacanza in una carneficina. La cosa più interessante di Tucker & Dale vs Evil è che sembra ambientato in un mondo in cui esiste una sorta di consapevolezza interna dei cliché del cinema horror ma che questa coscienza non sembra aver alcun risultato positivo: nonostante alcuni (pochi) personaggi cerchino in tutti i modi di comportarsi in modo ragionevole (come si comporterebbe “uno spettatore”, per intenderci), la severa violenza del caso ha quasi sempre la maggiore. Ma se gli stessi cliché vengono puntualmente ribaltati, non vengono mai derisi: Craig ne conosce il potenziale e lo sfrutta a dovere, pur mantenendo un distacco ironico che passa con agilità dall’arguzia alla farsa. Il risultato è un horcom davvero divertentissimo: forse perde un po’ di mordente quando, verso la fine, si prende un po’ troppo sul serio, ma per gran parte del tempo non sbaglia un colpo. Tyler Labine e Alan Tudyk (entrambi volti ben noti agli appassionati di serie tv) sono gustosi, anche se le attenzioni vanno più spesso in direzione di Katrina Bowden (Cerie di 30 Rock) che va in giro per metà film conciata così.

Il film, presentato al Sundance 2010 e vincitore dell’Audience Award al SXSW 2010, non è mai uscito in Italia. L’edizione britannica in dvd e blu-ray esce il 26 settembre.

Memorie di un giovane cliffhanger

Questo blog va un po’ in vacanza, si torna tra circa due settimane. Fate i bravi.

(image via)

Cedar Rapids, Miguel Arteta 2011

Benvenuti a Cedar Rapids (Cedar Rapids)
di Miguel Arteta, 2011

L’aspetto più interessante di Cedar Rapids è che non cerca in tutti i modi di sfuggire dai cliché ma cerca di trarre proprio da essi il massimo beneficio, dal Candide di Ed Helms fino alla prostituta dal cuore d’oro di Alia Shawkat. Ma pur accogliendo dentro il racconto modelli psicologici e narrativi ben definiti e riconoscibili, Arteta riesce a restituire un piccolo affresco di irresistibile umanità davvero riuscito, lavorando proprio sul contrasto tra lo squallore della convention annuale degli assicuratori e l’ingenua meraviglia con cui il protagonista osserva l’evento e diventa adulto, giocando sui pedali dei toni tra tenerezza e volgarità e azzeccando tutti i tempi – compreso il ridotto minutaggio. Una sorta di buffo e divertente romanzo di iniziazione tardiva che si fa notare, come si poteva prevedere, soprattutto per le prestazioni del cast: ovviamente Ed Helms e John C. Reilly (perfetto il primo, forse un po’ troppo sopra le righe il secondo, ma non stona) ma anche Isiah Whitlock Jr. nei panni di un quieto ed educato assicuratore con una viscerale passione per The Wire e soprattutto una formidabile Anne Heche per la quale è consentito perdere la testa. La già citata Shawkat, già vista in Whip it, è una di quelle attrici a cui bastano un sorriso e quattro parole per riempire lo schermo e buttare fuori tutti gli altri: un vero talento (pressoché inutilizzato) della commedia americana, con un grosso futuro davanti a sé.

Meek’s cutoff, Kelly Reichardt 2010

Meek’s cutoff
di Kelly Reichardt, 2010

Presentato in Concorso a Venezia lo scorso anno, il film di Kelly Reichardt, ambientato a metà del diciannovesimo secolo, è davvero uno dei western più inusuali che si possano immaginare all’interno del cinema americano che negli ultimi anni (o decenni) ha saputo affrontare i canoni del genere quasi soltanto nella forma della rivisitazione o della contaminazione. La presa di posizione della Reichardt è evidente fin dalla scelta del quadro: la aspect ratio (4:3) è un elemento solo apparentemente casuale, che le permette in realtà di reinventare la composizione dei corpi nello spazio, di fare in qualche modo riferimento a un cinema originario e spoglio proprio come il luogo in cui è ambientato, ma anche di rinchiudere i personaggi all’interno di confini serrati e angoscianti, stringendo il deserto in una scatola e togliendo all’orizzonte dei panorami americani la loro infinita profondità. Allo stesso modo, Meek’s cutoff procede su un crescendo anticlimatico in cui al fascino del viaggio si sostituisce l’immutabilità spietata dell’ambiente: anche in questo caso una lunghissima dissolvenza incrociata all’inizio del film è una dichiarazione d’intenti sul resto della pellicola, facendo incontrare da una parte all’altra dell’ellissi due panorami pressoché identici. Il viaggio verso il West e il mito della frontiere vengono così privati della loro stabilità iconografica, spalancando il cuore dei protagonisti su una voragine di paure ataviche, di fronte alle quali si proporrà inevitabilmente un duello morale, tutto racchiuso negli sguardi tra Emily Tetherow e l’indiano. L’assenza di un vero contesto narrativo in capo al film e quella (necessaria) di una vera e propria conclusione danno l’impressione di un esperimento che si avvicina al teatro dell’assurdo, ma pur portando a termine una visita del tutto personale all’altare del western, la Reichardt si riallaccia comunque alla tradizione raccontando non soltanto la paura dell’elemento alieno ma anche quella della propria alienazione rispetto alla natura; i coloni guidati da Meek, poi, mostrano un misto di timore, arroganza, fiducia, violenza e coraggio che appare come una sorta di DNA di una nazione ancora tutta da inventare. Popolato di volti perfetti come quelli di Michelle Williams e Paul Dano (una nota anche per la promettente Zoe Kazan), Meek’s Cutoff è un bellissimo film, tanto impegnativo e ambizioso (quasi impossibile da vendere al pubblico odierno?) quanto visivamente ipnotico ed estremamente suggestivo.

Il film dovrebbe essere nel listino della Archibald Enterprise Film, ma non mi risulta ci sia una data italiana. Intanto, il film è già disponibile in edizione UK, solo in dvd. L’edizione americana, anche in Blu-Ray, uscirà a metà settembre, e a quanto pare è “all regions”.

Hanna, Joe Wright 2011

Hanna
di Joe Wright, 2011

Dopo Espiazione, Joe Wright si è fatto la fama di uno a cui piace sfoggiare la sua tecnica (nessuno scorda l’interminabile carrello sulla spiaggia di Dunkirk) e anche in Hanna non se lo fa certo dire due volte. Non c’è nulla di così sfacciato, ma il piano-sequenza alla stazione (che si conclude con un combattimento) e tutte le fughe della protagonista (come la prima nei sotterranei e, soprattutto, quella tra i container) sono senza dubbio dei gran pezzi di bravura che contribuiscono a impreziosire il film e a controbilanciare in qualche modo le sue debolezze. Hanna non è infatti tutto appassionante come i suoi momenti migliori (oltre ai già citati inseguimenti, c’è un incipit davvero fulminante), è più interessante nei suoi singoli elementi che nello sviluppo narrativo, conosce qualche momento di stanca e qualche personaggio fuori tiro (l’adolescente logorroica di Jessica Barden, il personaggio di Martin Wuttke) e verso la fine Wright, cede alla tentazione di parlare e di spiegare un po’ troppo. Ma al di là della confezione eccellente (ottima la fotografia di Alwin Kuchler) le sue virtù superano di gran lunga i suoi problemi – e in cima tra tutte ci sono la strabiliante Marissa Weigler di Cate Blanchett (Tom Hollander, che si sforza un po’ troppo per tirare fuori un tipico villain da cult movie, rimane nella sua ombra) e la colonna sonora dei Chemical Brothers, uno score capace di diventare, soprattutto nelle sequenze più concitate, molto più di un mero accompagnamento alle immagini. Infine, tra le altre cose, la conferma della bravura e del talento di Saoirse Ronan: sembra sempre nata per quel ruolo, qualunque ruolo interpreti.

Super, James Gunn 2010

Super
di James Gunn, 2010

Abbiamo visto Defendor, c’è stato il Kick-Ass di Matthew Vaughn e Mark Millar, senza dimenticare Special con Michael Rapaport: quanti film con premesse così simili possono uscire nel giro di pochi anni prima che l’argomento sia da considerarsi esaminato sotto ogni prospettiva? L’ultimo film di James Gunn, simpatico e un po’ folle regista di uno cult movie come Slither, dimostra che dove c’è talento e visione non c’è saturazione che tenga.

La trama di Super è apparentemente risaputa: Frank, interpretato da un allucinato e perfetto Rainn Wilson, ha subito angherie e derisioni per tutta la vita, ultima delle quali l’abbandono da parte della moglie tossicodipendente Liv Tyler a favore del violento spacciatore Kevin Bacon. Da lì alla decisione di indossare un costume da super-eroe passa poco: giusto il tempo dell’ennesima visione mistica della sua vita. La differenza con gli altri film di questa sorta di sotto-genere sta tutta lì: cosa succede quando a vestire la calzamaglia di turno non è un tenero emarginato e/o un individuo dalle ridotte capacità intellettive ma un personaggio che al di là delle buone intenzioni è autenticamente squilibrato?

Nonostante il film giochi dai primi minuti con i meccanismi del cinema indie, titoli di testa animati inclusi, è presto evidente che Gunn vuole fare un passo più in là, o meglio di lato, abbandonando il rassicurante realismo dei dramedy sundanciani per un tono acceso, feroce, quasi surrealista: le danze si aprono con un’allucinazione che mescola hentai e deliri di possessione divina, e continuano con Frank che, non avendo un progetto morale ben chiaro nella sua lotta al crimine, nel dubbio comincia a spaccare crani a colpi di chiave serratubi, quale che sia la colpa. E se il film da principio è così bizzarro da rendersi quasi indigesto, è decisivo l’incontro con Libby (una graziosa e fenomenale Ellen Page), fumettara ventenne squilibrata quanto e più di Frank che trova molto eccitante l’idea che qualcuno abbia indossato sul serio un costume da giustiziere.

A dispetto dei pregiudizi, il film di James Gunn (che si ritaglia il ruolo del diavolo in un’improbabile trasmissione del network cristiano All-Jesus) è quindi tutt’altro che prevedibile: è un film genuinamente disturbato ma spassoso (a patto di avere lo stomaco adatto), estremamente violento eppure dolcissimo, un film radicale e pop al tempo stesso.

Presentato nel 2010 a Toronto e poi al Festival di Torino, il film è nel listino della M2 Pictures e dovrebbe uscire in Italia il prossimo autunno.

Per il momento, si trova già in vendita l’edizione britannica in DVD e Blu-Ray.

Your Highness, David Gordon Green 2011

Your Highness
di David Gordon Green, 2011

Se il film precedente dell’ex prodigio del Sundance convertitosi alla commedia, ovvero Pineapple Express (uscito da noi con lo sfortunatissimo titolo Strafumati), ha rappresentato una sorta di punto di arrivo della tradizione popolare della “stoner comedy”, una sintesi ideale e non priva di una sua autonoma dignità, è difficile considerare Your Highness come un superamento, bensì come una deviazione dimenticabile.

Danny McBride e Ben Best, autori del sorprendente piccolo film The Fist Foot Way e della stupefacente serie tv della HBO Eastbound and Down, prendono un canovaccio fantasy e vi applicano ancora il loro umorismo ormai inconfondibile (nonostante sia vicino a quello di Will Ferrell e soci) costruito interamente intorno all’attore-personaggio McBride e allo stampino ormai cristallizzato dell’antieroe egoista, sessista e vanaglorioso. E l’idea, come già in passato, non è quella di fare una parodia o uno spoof del fantasy, bensì un vero fantasy che faccia ridere: la differenza è enorme.

Ma nonostante le (buone) intenzioni, è paradossalmente proprio il lato comico del film quello a lasciare più interdetti. Il film di David Gordon Green è infatti girato e realizzato con grande cura (non si diventa un pessimo regista dal giorno alla notte), può contare sulla presenza ipnotica di Natalie Portman e sull’immediata simpatia di James Franco (che come ai vecchi tempi recita completamente a casaccio, visibilmente divertito), e soprattutto su production values di tutto rispetto: sarebbe quasi un bel fantasy, insomma, se gli sforzi dello script non fossero tutti indirizzati a una serie interminabile di sciocchezze triviali.

Ma ciò che caratterizza di più il film, e che segna la sua sconfitta, è la sovrapposizione assai maldestra dei toni: alcuni personaggi si comportano sempre e comunque in modo serissimo (la stessa Portman, per esempio), altri in modo totalmente ridicolo o parodistico, e anche nel racconto l’ambizione è quella di far convivere inventive scenografie e belle scene d’azione con idiozie come il vecchio saggio (una specie di Muppet fattone e pedofilo) o come il cazzo del minotauro portato al collo come un trofeo, senza che le due anime si divorino a vicenda: va da sé, è un proposito malfondato.

E poi c’è Danny McBride che con il suo cinismo sgradevole e volgare funge da catalizzatore e da osservatore esterno di questo caos, apparendo però, in definitiva, del tutto posticcio: se il protagonista assoluto del tuo film risulta non solo volutamente fastidioso ma accessorio e fuori posto non è una buona notizia per nessuno. Non è tanto il personaggio-McBride a non aver più molto da dire, si potrebbe dire, ma è il contesto fantastico a essere inadatto allo scopo: il meccanismo iconoclasta non funziona più se non c’è una realtà da sovvertire.

Non mi risulta sia ancora prevista un’uscita italiana, per il momento. In ogni caso, non voglio nemmeno pensare a cosa diventerebbe questo film doppiato e a quale titolo imbecille riuscirebbero a inventarsi stavolta.