Le amiche della sposa (Bridesmaids)
di Paul Feig, 2011
“It’s called civil rights. This is the nineties.”
Per chi conosce il cinema di Judd Apatow, un film come Bridesmaids (da lui prodotto, ma diretto dall’ex sodale Feig, creatore della sublime serie tv Freaks & Geeks) non dovrebbe suonare particolarmente inaspettato: non si tratta ovviamente di una commedia demenziale, ma più propriamente di una commedia romantica che, nell’abbinare uno sviluppo romance tradizionale (da Wiig-Hamm a Wiig-O’Dowd) a quello del triangolo (asessuale) Wiig-Rudolph-Byrne, si prefigge lo scopo di declinare al femminile una serie di meccanismi che Apatow ha sviluppato e contribuito a diffondere nella commedia americana, con risultati a volte esaltanti, spesso deludenti.
Ma senza scavare tra le intenzioni, visibilmente ottime, del film e della sceneggiatura firmata dall’adorabile Kristen Wiig insieme ad Annie Mumolo, Bridesmaids dichiara già dalla superficie questa continuità – e non è certo una considerazione positiva: il film è lunghissimo e interminabile come già furono Knocked Up e Funny People, come questi nasconde (maluccio) la sua natura conservatrice tra le gag triviali e scatologiche, sbilanciato tra un’ambizione quasi da dramedy e la necessità (commerciale?) di costruirci attorno dei crescendo comici, ed è purtroppo caratterizzato da un’anemia registica e produttiva che abbandona quasi sempre le attrici a sé stesse, a briglia sciolta, e che non riesce quasi a sfruttare i suoi elementi migliori (insisto, il cast) affogandosi in un’assenza di mordente talmente estenuante da rendere quasi inspiegabile l’enorme successo che ha avuto presso il pubblico americano.
Peccato, perché il soggetto meritava più attenzione e cura: Annie è un personaggio autenticamente disturbato, inquieto e “sgradevole”, i dialoghi divertenti non mancano, e la Wiig possiede una ricchezza e una profondità espressiva innegabili, ma se sulla carta il film sembra giocare bene con il ribaltamento del “chick flick” e sulla rappresentazione dei personaggi femminili nella commedia, alla fine dei conti si riconduce quasi tutto a semplificazioni e cliché (per esempio la madre frustrata vs la neo-moglie entusiasta, due personaggi destinati peraltro a dire quattro battute e sparire quasi del tutto dal quadro per lasciare Melissa McCarthy a tutto campo: nel caso della meravigliosa Wendi McLendon-Covey si tratta di uno spreco bello e buono), non si riesce quasi mai a graffiare a causa della suddetta carenza di una guida forte, i personaggi minori (la madre di Annie, i fratelli britannici) sono dei meri riempitivi, ci si imbarazza molto e si ride poco, spesso colpendo basso, e in definitiva si torna sempre là, a una rigida ricetta per la felicità che non ha davvero nulla di originale, tantomeno di rivoluzionario.