settembre 2011

You are browsing the site archives by month.

el pube è un pilota / guida non esaustiva alle nuove serie tv (settembre 2011)

Vi ricordate quando facevo quei post lunghissimi e faticosi sulle serie tv? Ecco, questo è uno di quei post. Si era capito. Ero quasi convinto a non farlo più, perché tanto ci sono gli amici di Serialmente che fanno tutto il lavoro sporco, ma le vostre continue insistenze (è tutto vero) mi hanno fatto cambiare idea. Siete così carini! Inutile che vi dica come funziona, queste sono opinioni campate per aria sulla sola base del primo episodio di queste nuove serie, quindi non hanno nulla di serio o ponderato. Andiamo a cominciare.

Nel panorama delle comedy, dove sopravvivono alcuni pilastri tra cui quel capolavoro di Community (arrivato per miracolo alla terza stagione, nonostante l’enorme fanbase), la sempre più meravigliosa Parks and Recreation e una serie evergreen ma sempre adorabile come How I Met Your Mother, ci sono alcune novità da tenere d’occhio. La premessa essenziale è che io con questo tipo di serie sono permissivo: in fondo occupano “solo” 20 minuti del mio tempo, quindi permetto loro di essere “solo” divertenti. E questo è il motivo per cui le seguo quasi tutte, se non fanno vomitare.

Read More →

Attack the Block, Joe Cornish 2011

Attack the Block
di Joe Cornish, 2011

E’ curioso che due film, in realtà non così simili, come Super 8 e Attack the Block abbiano visto la luce nello stesso periodo, entrambi figli di una passione per il cinema fantascientifico coltivata nel medesimo terreno. Ma l’opera prima di Joe Cornish, che fa sfoggio dell’altisonante beneplacito produttivo di Edgar Wright, non è una riproposizione filologica come quella di Abrams, bensì una deviazione dal tema, che fa tesoro soprattutto della lezione della tv inglese degli ultimi anni, di serie come Skins o Misfits, ma più in generale della qualità dei prodotti seriali britannici. E i ragazzini del “block” non sono timidi e introversi, sono sbandati e sfacciati furfantelli di South London che giocano a fare i gangster e che, come da copione, si scontrano con un’invasione aliena. Ma al di là dell’apparente prevedibilità, il film di Joe Cornish – che non a caso è finito a scrivere Tin Tin per Spielberg e Ant-Man per lo stesso Wright – è davvero una delle più belle sorprese dell’anno. Persino più divertente di come ve lo aspettate, oltre che più horror e crudo di come si presenta: il regista ha un talento visivo notevole, il giovane cast accompagnato dal veterano Nick Frost è maledettamente incredibile (i migliori: John Boyega e Alex Esmail), il ritmo è implacabile con effetti spesso esilaranti, la sceneggiatura è un frullato irresistibile di citazioni pop e cultura urbana ma ha la capacità, ereditata proprio da autori come Wright, di diventare all’occorrenza “una cosa seria”, di modulare alla perfezione l’ironia sagace e l’intensità melodrammatica, e di trattare i suoi personaggi come meritano, con rispetto e passione. E per una volta, last but not least,  anche i mostri sono davvero stupendi.

Red State, Kevin Smith 2011

Red State
di Kevin Smith, 2011

Red State non sembra aver molto in comune con la precedente filmografia di Kevin Smith: messa ancora una volta da parte la sboccacciata commedia generazionale dopo Cop Out, in cui aveva cercato di rinverdire i fasti del buddy cop film con armi da cinema mainstream fallendo miseramente, Smith prende una direzione radicalmente opposta – si autoproduce e “autodistribuisce” (sulla polemica di Smith contro il sistema delle major bisognerebbe scrivere un post a parte) per girare un violento e agguerrito piccolo film dalle venature horror che si configura più che altro come un attacco esplicito, prima all’integralismo religioso di matrice cristiana (e repubblicana), poi in modo più diretto e spietato agli Stati Uniti del Patriot Act. In verità la satira di Smith, più grottesca che raffinata, non è particolarmente ficcante (anche perché non ha il coraggio di spingersi fino all’empatia con i suoi personaggi più sgradevoli, limitandosi a osservarli dall’esterno)  ma la sua sfrontatezza non può lasciare indifferenti. In ogni caso il lato migliore di Red State non è tanto quello politico quanto quello di genere: Smith si diverte come un matto, spiazza e tira schiaffi in faccia allo spettatore e, libero da molte delle convenzioni che lo avevano allontanato da molti suoi fan della prima ora, torna a fare quantomeno un cinema “tutto suo”. Tirando fuori di fatto, al di là della riuscita del film in sé, una delle sue migliori prove come regista: basta guardare le concitate e tesissime scene d’azione per rendersene conto. Peccato che il film duri così poco (circa un’ora e venti) e che Smith non abbia quindi il tempo di esprimere al 100% queste potenzialità; ma forse è meglio così: ci sarebbe stato anche il tempo per mandare tutto a monte.

Non è ancora prevista un’uscita italiana.

Win Win, Thomas McCarthy 2011

Win Win
di Thomas McCarthy, 2011

Un avvocato del New Jersey, che nel tempo libero allena la squadra di wrestling della scuola, crede di trovare una possibilità di respiro dalla crisi (economica, e non solo) che lo attanaglia in un anziano abbandonato dalla famiglia, la cui custodia è nelle mani del tribunale; ma la comparsa del giovane nipote di questi, silenzioso, spiantato e con uno spiccato talento per il ring, lo costringerà a rivedere il suo piano, e forse tutta la sua scala di valori. Il terzo film di McCarthy, non a caso presentato al Sundance, sembra inserirsi in un filone ben preciso della “dramedy” indipendente americana – storie di provincia, personaggi marginali e antieroici, pezzo indie rock favoloso sui titoli di coda (The National, in questo caso) – ma quantomeno evita gran parte dei cliché del film “sportivo” concentrandosi perlopiù sul rapporto tra i due protagonisti: e Giamatti, come al solito eccellente, riesce a infondere nel suo personaggio la fragilità e la paura di una bugia scappata dalle mani, e la scoperta della voglia di fare qualcosa per tornare a essere umani. Il risultato è un film gradevolissimo che schiva il patetismo con grande abilità e che grazie a un ottimo cast (giusto Bobby Cannavale è un po’ fuori posto) riesce a imporre con leggerezza e stile una storia quotidiana ma irresistibile di riscatto da sé stessi. Edificante? Perché no.

Il film uscirà in italia a dicembre con il titolo Mosse Vincenti.

[post in attesa]

Sooner or later.

Super 8, J.J. Abrams 2011

Super 8
di J.J. Abrams, 2011

“Bad things happen, but you can still live”

Una volta assicurato lo spettacolo, perché J.J. Abrams ha già dimostrato con i suoi film precedenti di saper essere un regista ben più che capace e non solo un abile e scaltro produttore, un film come Super 8 poteva al massimo correre il rischio di risultare una fredda operazione commerciale a mero appannaggio di un target di riferimento. Dopotutto, si tratta di una dichiarata operazione-nostalgia, in cui si mette in scena una riproposizione di un modo di fare cinema hollywoodiano per ragazzi-senza-età reso immortale soprattutto (ma non solo) dalle produzioni di Spielberg e della Amblin (il logo in apertura regala il primo di una lunga serie di brividi) in modo quasi filologico, a partire dagli snodi narrativi fino ai singoli movimenti di macchina – facendo inoltre rientrare questa passione vorticosa e quasi ossessiva per il cinema nel racconto stesso, con i ragazzini del film alle prese con un film di zombi girato, appunto, in super 8, e con le camerette (siamo nel 1979) piene di poster di Romero, Carpenter e Star Wars.

Ma per nostra grande fortuna Super 8 è un film che non si limita a ripetere meccanicamente la lezione dei grossi nomi del passato a cui fa abilmente riferimento né a giocare con la vacua consapevolezza che spesso caratterizza il meta-cinema, e se il suo tributo a film come I Goonies, E.T., Explorers, eccetera è anche la dimostrazione della loro inflessibile attualità, il valore aggiunto di Super 8 è il suo essere un film che butta il cuore al di là della palizzata, proprio come facevano i suoi predecessori, un film che sfida il cinismo degli spettatori contemporanei con la fluidità del racconto e con l’ingenuità della meraviglia: ed ecco la dote inedita di Abrams, questo senso dell’incanto che lascia stupefatti, eccitati – e se si trattava di un passaggio di testimone tra Spielberg e il regista di Star Trek, possiamo dire che è andato a buon fine. Per chi è cresciuto guardando storie di ragazzini che diventavano grandi sfidando il proprio coraggio, Super 8 è un film che fa quasi scoppiare il cuore; per tutti gli altri è “semplicemente” un bellissimo film da non perdere.

Impossibile non citare, all’interno di un cast perfetto (inclusi tutti i ragazzini), l’intensa performance della spaventosa tredicenne Elle Fanning: la scena in cui guarda insieme a Joe i filmati della madre è davvero commovente, ma quella in cui prova la sua parte di fronte agli sguardi attoniti dei suoi coetanei è da applausi a scena aperta.

L’ultimo terrestre, Gian Alfonso Pacinotti 2011

L’ultimo terrestre
di Gian Alfonso Pacinotti, 2011

Come spesso accade con le opere prime, anche l’esordio di Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, celebre autore di fumetti, è vittima di qualche ingenuità, della metafora troppo esplicita, della tentazione di spingere sul pedale del grottesco tralasciando magari elementi essenziali quali il rigore della sceneggiatura; ma ben più preziose, in fin dei conti, sono la sua audacia, la sua libertà visiva, evidente fin dalla prima sequenza, per non dimenticare la professionalità produttiva che si stacca con forza dalla media del cinema italiano. E, perché no, il suo talento: il film è pieno di momenti di grande forza espressiva (il culmine è forse la lunga e violenta scena ripresa dall’interno della macchina) che pongono pochi dubbi sulle sue capacità di metteur en scène.

Ispirandosi a un graphic novel di Giacomo Monti, Gipi racconta una storia bizzarra, tenera e feroce, che getta uno sguardo per nulla rassicurante su un’umanità sbandata, svuotata di morale e di senso, alla ricerca disperata di una salvezza o di una condanna, condividendo con il pubblico il punto di vista di un cameriere del Bingo, solitario, schivo, pavido e misogino, che sembra però in qualche modo possedere gli ultimi barlumi di umanità sul pianeta, a pochi giorni da un’apocalisse aliena che ne deciderà le sorti. Cedendo semmai nella seconda parte alla tentazione di rimettersi su binari meno inauditi e originali (e a un certo punto, colpevolmente, all’overacting di Roberto Herlitzka) ma mantenendo sempre un registro ironico e lo stesso gusto compositivo di impressionante precisione.

Gabriele Spinelli e Anna Bellato sono terribilmente convincenti, e sono loro la più bella sorpresa del film: quella di Gipi è forse ancora una promessa da mantenere, ci sono molte cose da sistemare e aggiustare, ma il suo primo film è senza dubbio un buon segnale per il futuro e, a modo suo, un esempio per gli esordi italiani a venire.

Le amiche della sposa (Bridesmaids), Paul Feig 2011

Le amiche della sposa (Bridesmaids)
di Paul Feig, 2011

“It’s called civil rights. This is the nineties.”

Per chi conosce il cinema di Judd Apatow, un film come Bridesmaids (da lui prodotto, ma diretto dall’ex sodale Feig, creatore della sublime serie tv Freaks & Geeks) non dovrebbe suonare particolarmente inaspettato: non si tratta ovviamente di una commedia demenziale, ma più propriamente di una commedia romantica che, nell’abbinare uno sviluppo romance tradizionale (da Wiig-Hamm a Wiig-O’Dowd) a quello del triangolo (asessuale) Wiig-Rudolph-Byrne, si prefigge lo scopo di declinare al femminile una serie di meccanismi che Apatow ha sviluppato e contribuito a diffondere nella commedia americana, con risultati a volte esaltanti, spesso deludenti.

Ma senza scavare tra le intenzioni, visibilmente ottime, del film e della sceneggiatura firmata dall’adorabile Kristen Wiig insieme ad Annie Mumolo, Bridesmaids dichiara già dalla superficie questa continuità – e non è certo una considerazione positiva: il film è lunghissimo e interminabile come già furono Knocked Up e Funny People, come questi nasconde (maluccio) la sua natura conservatrice tra le gag triviali e scatologiche, sbilanciato tra un’ambizione quasi da dramedy e la necessità (commerciale?) di costruirci attorno dei crescendo comici, ed è purtroppo caratterizzato da un’anemia registica e produttiva che abbandona quasi sempre le attrici a sé stesse, a briglia sciolta, e che non riesce quasi a sfruttare i suoi elementi migliori (insisto, il cast) affogandosi in un’assenza di mordente talmente estenuante da rendere quasi inspiegabile l’enorme successo che ha avuto presso il pubblico americano.

Peccato, perché il soggetto meritava più attenzione e cura: Annie è un personaggio autenticamente disturbato, inquieto e “sgradevole”, i dialoghi divertenti non mancano, e la Wiig possiede una ricchezza e una profondità espressiva innegabili, ma se sulla carta il film sembra giocare bene con il ribaltamento del “chick flick” e sulla rappresentazione dei personaggi femminili nella commedia, alla fine dei conti si riconduce quasi tutto a semplificazioni e cliché (per esempio la madre frustrata vs la neo-moglie entusiasta, due personaggi destinati peraltro a dire quattro battute e sparire quasi del tutto dal quadro per lasciare Melissa McCarthy a tutto campo: nel caso della meravigliosa Wendi McLendon-Covey si tratta di uno spreco bello e buono), non si riesce quasi mai a graffiare a causa della suddetta carenza di una guida forte, i personaggi minori (la madre di Annie, i fratelli britannici) sono dei meri riempitivi, ci si imbarazza molto e si ride poco, spesso colpendo basso, e in definitiva si torna sempre là, a una rigida ricetta per la felicità che non ha davvero nulla di originale, tantomeno di rivoluzionario.

Ruggine, Daniele Gaglianone 2011

Ruggine
di Daniele Gaglianone, 2011

Alla periferia di una grande città, un gruppo di bambini di regioni e accenti diversi, asserragliato dentro un castello di lamiere e ruggine, deve affrontare la scoperta del male; molti anni dopo, tre di quei bambini sono diventati grandi, ma portano nello spirito il peso e sul corpo i segni di quell’estate.

Daniele Gaglianone, attraverso un montaggio parallelo scritto senza alcuna delle insopportabili enfasi della sceneggiatura all’italiana, racconta una fiaba nera e cupissima sulla perdita dell’innocenza e sui corrosivi sedimenti della paura: Ruggine non è un film impeccabile, non sempre riesce a trovare un equilibrio tra le sue parti che ne giustifichi del tutto la struttura (prima di tutto perché quella ambientata nel passato è inevitabilmente più forte e più radicale), eppure è un film prezioso e imperdibile, ai di là della confezione in cui spiccano la fotografia e le musiche: prima di tutto perché Gaglianone (come già aveva dimostrato in Nemmeno il destino) è un grande direttore di giovani attori e qui i bambini, piccolo esercito di facce sporche di polvere e sudore e lividi di cinture, sono assolutamente perfetti, tanto da metter in ombra i colleghi più adulti e scafati; e poi ha il talento di saper saltare dal punto di vista dell’ingenuità infantile che svanisce di fronte alla morte a quello del male puro, spesso mostrando la distorsione del reale da entrambe le prospettive, e di spingersi al di là dell’orrore, dentro la tana del lupo – con un coraggio raro nel cinema italiano, ma anche con un rigore morale, che si dissolve semmai gradualmente nella consapevolezza che l’orrore reale è più terrificante di qualunque storia di paura.

Dall’altra parte del tempo gli adulti interpretano in tre unità di tempo e spazio un lampo del loro destino:  Accorsi è quello più in difficoltà, un po’ per la natura stessa della sua parte e un po’ perché è l’elemento più debole del cast; la Solarino interpreta con grazia e sensibilità il segmento più esplicito e duro; Mastandrea è semplicemente bravissimo, anche fuori dal suo accento naturale, e ha la responsabilità di far respirare il pubblico con riusciti tocchi ironici, anche se in verità la sua parte è la più profondamente drammatica. La parte del gigante, in tutti i sensi, la fa però Filippo Timi: seppur affrontando un paio di (perdonabili) forzature dei dialoghi, regala un orco nero di indimenticabile cattiveria, un villain terrificante che non concede spazio all’empatia o alle sfumature, un’incarnazione del male dai contorni horror, e almeno due scene da antologia - una di queste, quella in cui canta Una furtiva lagrima rivelando nella mano la traccia del suo delitto.