ottobre 2011

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Submarine, Richard Ayoade 2010

Submarine
di Richard Ayoade, 2010

Ambientato in Galles nella metà degli anni ’80, Submarine è l’opera prima di un apprezzato regista televisivo e musicale, noto però ai più per aver interpretato il ruolo di Maurice nella splendida sit-com The IT Crowd. Ma nel raccontare la storia di Oliver Tate, quindicenne che cerca di sfuggire alla quotidiana mediocrità dell’adolescenza (l’emarginazione sociale, il bullismo, il primo amore, la prima volta, la separazione tra i genitori, la paura della morte) trasformando la sua vita interiore in un intenso racconto cinematografico, Richard Ayoade è riuscito ad andare ben oltre ogni possibile aspettativa, realizzando un piccolo miracolo – un romanzo di formazione sentimentale incredibilmente coinvolgente e di strabiliante intelligenza, uno dei film britannici più belli e coinvolgenti degli ultimi anni. L’ha fatto sfruttando al massimo la bravura dei suoi due protagonisti Craig Roberts e Yasmin Paige (ma anche gli “adulti”, tra cui spicca Paddy Considine, sono memorabili) e inventandosi uno stile personale, spesso roboante e grafico, tra fumetto e cinefilia, ma basato su uno storyboard di grande precisione, e giocando sempre sul limite tra immaginazione, alienazione e una tangibile, sorridente malinconia. Un autentico gioiello, impreziosito dalle bellissime (di per sé, ma anche per come sanno dialogare con le immagini e con la storia) canzoni di Alex Turner degli Arctic Monkeys, un film semplice ed emozionante che ci chiede senza troppi pudori di innamorarci di lui – e a cui, francamente, non sapremmo come o perché dire di no.

Il film è stato presentato e acclamato a Toronto, al Sundance e a Berlino, per poi uscire nel Regno Unito lo scorso marzo; grazie alla co-produzione di Ben Stiller ha trovato anche una distribuzione negli Stati Uniti, riscontrando il medesimo unanime successo di critica.

Al momento non mi risulta che sia prevista un’uscita italiana.

Potete già acquistare le edizioni britanniche in dvd e blu-ray. E vi consiglio di farlo.

Amici di Letto – Friends With Benefits, Will Gluck 2011

Amici di Letto (Friends With Benefits)
di Will Gluck, 2011

Arrivare in ritardo rispetto a No Strings Attached ha giovato in molti modi a Friends With Benefits: abbiamo visto come e quanto si poteva sbagliare un film con un tema così simile, e ciò contribuisce a valorizzare ancora di più quanto sia riuscito questo differente svolgimento. Ma il vantaggio competitivo, non solo nei confronti di Reitman ma anche della media dei romance odierni, era già sulla carta: quella formata da Justin Timberlake e Mila Kunis è un’accoppiata davvero rara, sono terribilmente (troppo?) bravi, affascinanti ed entrambi di una bellezza travolgente (tanto che la loro alchimia rischia di causare un attrito nello sviluppo narrativo: come possono due simili bombe atomiche metterci così tanto per innamorarsi l’uno dell’altra?); e poi c’è l’invidiabile cast di contorno (Harrelson, Jenkins, la solita fantastica Patricia Clarkson, i cameo di Emma Stone e Andy Samberg) e un regista come Will Gluck, che ha già avuto modo di mostrare (nel bellissimo Easy A ma anche nella sua stupidissima spassosa opera prima Fired Up) di avere freschezza, ritmo, e talento nella direzione degli attori.

Ma la cosa migliore di Friends With Benefits, come già nei due film precedenti di Gluck, è indubbiamente la sua spiccata consapevolezza: come accade sempre più spesso (dai tempi di Insonnia d’Amore, forse) si tratta di una commedia romantica ambientata in un mondo in cui esistono le commedie romantiche; quindi, un’altra sorta di variazione su come proprio queste ultime, al fianco dei più canonici complessi legati al rapporto con i propri genitori eccetera, condizionino irrimediabilmente i rapporti tra giovani uomini e giovani donne – lo dice la Kunis esplicitamente all’inizio, prendendosela con Katherine Heigl di fronte a un poster di The Ugly Truth, e lo dice il film – in modo semplice ma assolutamente geniale – con l’inserto di un film-nel-film, una commedia ridicolizzata eppure irresistibile con Jason Segel e Rashida Jones.

Certo, Gluck non mantiene per tutta la sua durata (non irrilevante: circa 110 minuti) l’inarrestabile cadenza dei dialoghi – spesso davvero esilaranti – della prima metà e lo sguardo beffardo e cinico sui rapporti di coppia, ma anche questo fa parte del gioco, in un film che si muove in parallelo ai suoi personaggi: il sesso lascia spazio ai sentimenti, il romanticismo mette in ombra lo scherzo, e così (come già avevo notato in Crazy Stupid Love di Ficarra e Requa) anche Friends With Benefits finisce per diventare la commedia romantica che era stata guardata con derisoria distanza. E non c’è niente di male.

This Must Be The Place, Paolo Sorrentino 2011

This Must Be The Place
di Paolo Sorrentino, 2011

Da quando abbiamo deciso che Paolo Sorrentino sarebbe stato l’unico (o il più probabile) regista italiano a potersi confrontare non solo con la qualità ma anche con lo stile e – perché no – con la vendibilità dei maestri del cinema americano, una domanda, anche alla luce dei riconoscimenti, è balenata in molte delle nostre menti: come si troverebbe Sorrentino in una produzione di quel tipo? This Must Be The Place è la risposta: un film quasi interamente italiano, ma recitato in inglese, interpretato da una star, con un budget sostanzioso (poco meno di 30 milioni di dollari) e ambientato all’estero – in Irlanda, e ovviamente negli Stati Uniti.

La soluzione di questa curiosità è però, purtroppo, abbastanza deludente. Il problema di This Must Be The Place – lo avrete letto e lo leggerete ovunque - è soprattutto una questione di misura: Sorrentino è sempre stato un regista virtuosistico e baldanzoso, lo dimostrano i clamorosi pezzi di bravura disseminati nei suoi film precedenti e che non mancano nemmeno qui, ma in questo film il regista e il solito Luca Bigazzi (che fa però un lavoro davvero ammirevole intorno agli spigoli e nel cuore del mito estetico dell’America on the road) perde spesso il controllo del mezzo tecnico, in un profluvio inarrestabile di dolly e di carrelli; che però, purtroppo, sembrano non procedere insieme al personaggio, né verso alcuna direzione a dire il vero, danzandogli piuttosto davanti in un’altalena vertiginosa; il regista sembra dimenticarsi il potenziale trasporto emotivo di un movimento di macchina trasformandolo in una fiaccante chinetosi.

Certo, il film non è tutto qui: c’è la riuscita e peculiare interpretazione di Penn (pur rovinata irrimediabilmente dal doppiaggio italiano), c’è la colonna sonora di David Byrne (intorno a cui Sorrentino costruisce l’immancabile pezzo di bravura, vedi sopra), c’è un’ironia sorniona e quieta che a tratti riesce a conquistare – ma l’esuberanza formale rimane in primo piano, nascondendo frequentemente (basti pensare ai tre lenti ed elaborati carrelli circolari con cui è girato il lungo monologo di Aloise Lange, sotto ai quali le parole – pur pesanti e provocatorie – perdono di rilevanza) molte delle difficoltà e le debolezze della sceneggiatura, decisamente meccanica (la risoluzione finale del personaggio), spesso indecisa (per esempio nel tratteggio di personaggi secondari solo in funzione del protagonista) e forse persino un po’ pretestuosa.

Va detto però che questo film (che non è un brutto film in senso assoluto, diciamo che si tratta di una questione di prospettive) rappresenta un punto di svolta importante per il cinema italiano: una produzione nostrana che ha investito capitali ingenti, non solo economici, su un vero Autore che non ha paura di mettere nel film tutto se stesso, tutte le sue capacità, a manciate, a badilate, senza paura di fallire – o meglio, anche a costo di fallire. Sorrentino avrà preso male le misure e si sarà fatto trascinare troppo, ma è ancora il regista di cui si parlava all’inizio: l’unico in grado di competere davvero con i maestri, e di vincere. Un esempio per tutti, persino in un film sommariamente sbagliato come questo.

Crazy, Stupid, Love., Glenn Ficarra e John Requa 2011

Crazy, Stupid, Love.
di Glenn Ficarra e John Requa, 2011

Dopo l’improvvisa richiesta di divorzio, Cal (Steve Carell) comincia a sbevazzare in un bar alla moda, dove viene avvicinato da Jacob, fascinoso womanizer (Ryan Gosling, niente meno) che gli promette di forgiarlo a sua immagine. Nel frattempo, il figlio Robbie è innamorato della babysitter; che però a sua volta è innamorata di Cal. Eccetera. Le cose prendono una piega imprevista dopo l’incontro tra Jacob e Hannah, un delizioso avvocato con la faccia di Emma Stone.

Crazy Stupid Love è un caso più unico che raro: una commedia romantica corale (o quasi) sulle relazioni sentimentali e sull’amore che non risulta sciapa, meccanica o stucchevole. Ficarra e Requa sono riusciti in questo intento, in realtà, tramite un doppio inganno: i due registi, che con I Love You Phillip Morris avevano già dimostrato di sapersi districare tra gli ingranaggi della commedia inserendovi piccole scariche elettriche ed esplosive, fanno ancora una volta il giro intorno ai cliché, ma anche alla loro stessa political incorrectness, per arrivare a una soluzione dell’intreccio che riesce a chiudere in modo impeccabile tutte le parentesi senza rinunciare all’umanità e al cuore dei suoi personaggi. Diventando di fatto una tenera e divertente commedia romantica, e basta: non so se il cinema americano ne abbia bisogno, noi sì.

E i meriti sono divisi equamente tra la sceneggiatura di Dan Fogelman (che viene dalla Disney: ha scritto Cars e Rapunzel), i registi che hanno il coraggio di prendersi tutto il tempo disponibile (il film dura due ore secche, andando spesso ben al di là dello “stretto necessario”), e infine gli attori, ovviamente fondamentali per la riuscita del film, ma qui in particolare stato di grazia. E se Julianne Moore è Julianne Moore, Analeigh Tipton è una gran bella scoperta ed Emma Stone non è nemmeno più catalogabile come essere umano, il meglio lo danno Carell e Gosling: un’inattesa e incredibile coppia comica.

Il film è uscito nelle sale italiane il 16 settembre. Purtroppo non se n’è accorto nessuno: nelle sole due settimane di programmazione erano tutti a vedere il film dei Puffi.

A Dangerous Method, David Cronenberg 2011

A Dangerous Method
di David Cronenberg, 2011

Non c’è dubbio che la performance di Keira Knightley, eccessiva e volutamente sgradevole, insieme sgraziata e da prima della classe al corso di teatro del ginnasio, contribuisca non poco a definire A Dangerous Method. Allo stesso modo, è piuttosto chiaro che quella di contrapporre la recitazione algida di Michael Fassbender a quella sopra le righe dell’attrice è una deliberata scelta di direzione d’attori che va di pari passo alla narrazione e alle mutazioni incrociate dei due personaggi. Ma se questo contrasto sta al cuore del film (e nel primo impressionante colloquio-incontro tra i due regala uno dei momenti più personali e incisivi del film, ben più che le successive e più discusse sculacciate) alla lunga gli taglia le gambe: perché dopo un po’ il primo risulta più che altro legnoso, la seconda solo irritante. Cronenberg, dalla sua, fa davvero pochi tentativi per uscire dai vincoli dell’origine teatrale, A Dangerous Method non è certo un film brutto o insignificante, ma è piatto, inerte, ed è difficile riconoscere la mano di un autore così grande e potente; che sembra divertirsi a tratti con il rapporto tra Jung e la sua paziente/amante Sabina Spielrein (molto più che con quello tra Jung e Freud, interpretato da Mortensen con una maschera spessa che ne cela la sensibilità), ma troppo spesso abbandona il film a se stesso, schiavo della sua stessa insistita verbosità. Tra calligrafie e tediosi carteggi, guizzi improvvisi (lo svenimento di Freud, qualche focale doppia che interrompe il ritmo sonnolento del campo/controcampo, la bizzarria solo accennata dell’interesse di Jung per il paranormale, la passeggera comparsa di Cassel) rimessi però sempre a bada in fretta, avanza senza particolari sofferenze e si chiude senza lasciare molto di sé, con un’apertura inquietante alla prospettiva storica sul novecento a venire che appare però un po’ posticcia. Tutto sommato perdonabile, se non si trattasse di David Cronenberg. Ergo, imperdonabile.

Green Lantern, Martin Campbell 2011

Green Lantern
di Martin Campbell, 2011

Siamo onesti: con Iron Man e i Batman di Nolan a piede libero, era difficile azzeccare un film come Green Lantern. Non è quindi una grossa sorpresa che sia così venuto così disastrosamente male. Incredibile però che dopo tanti anni nei quali i film di super-eroi hanno lottato per guadagnarsi il rispetto degli spettatori prima ancora di quello della critica, un film riesca a fare un tale balzo all’indietro: Green Lantern è un film rumoroso, confusionario e risibile, inspiegabilmente lunghissimo e terribilmente fasullo, che alterna una dimensione cartoon nata vecchia, tutta orribili green screen e luci abbaglianti, a una struttura narrativa risaputa e appiccicata con lo sputo. L’unico a fare uno sforzo in più del minimo dovuto è Peter Sarsgaard, pur costretto a recitare dietro un make up mostruoso, quasi tutti gli altri – compreso un pigrissimo Campbell e un impresentabile Ryan Reynolds – si mantengono su un livello di irritante mediocrità. Certo, ha il pregio di non prendersi mai davvero sul serio, di puntare a un divertimento vecchio stile, grado zero; qualcuno lo troverà rinfrescante, io non sono nemmeno così sicuro che sia un pregio.

Drive, Nicolas Winding Refn 2011

Drive
di Nicolas Winding Refn, 2011

Quello che dobbiamo sapere sul protagonista senza nome del suo film, intepretato da Ryan Gosling in quella che è la definitiva consacrazione del suo inestimabile talento, Refn ce lo racconta in pochi minuti nell’incredibile incipit di Drive: un autista silenzioso, preciso, flemmatico, che si divide tra un’officina, lo stunt driving e le rapine per cui si offre come mercenario. Ma come spesso accade al cinema, l’incontro con una donna cambia le regole del gioco. Senza troppi giri di parole, Drive è uno straordinario, piccolo capolavoro che raccoglie l’eredità del crime movie riducendola all’osso, tra una messa in scena rigorosa ed eccellente la cui imperturbabilità si crepa man mano insieme a quella del suo personaggio e che accoglie suggestioni visive che sembrano provenire da David Lynch come da Michael Mann, e una variazione sul tema dell’onore e una caratterizzazione del personaggio che arrivano dritte dal western oppure, perché no, da un chanbara eiga. Ma la cosa più stupefacente di Drive è la sua incapacità di fermarsi alla realizzazione di un film compiuto a partire da materiali messi in mano da una produzione preesistente: Refn al contrario prende lo script di Hossein Amini e lo gonfia di una qualità percettibilmente metafisica; e lo fa cercando sempre di infondere nelle sequenze, che siano affettati dialoghi o inseguimenti in macchina, ma anche nelle singole inquadrature del film, un costante senso di disperata inevitabilità, che si accompagna alla precisione millimetrica e a volte persino frastornante con cui sono realizzate. Ne risulta un film affascinante e perturbante, che entra nel cuore dello spettatore come un trapano, e senza nemmeno bisogno di far passare il genere dai filtri cerebrali del cinema d’autore: Drive è per sua scelta un film molto lontano dal cinema di intrattenimento americano, ma è anche una parabola eroica immediata e perfetta, una storia d’amore vorticosa e dolcemente affranta, un gangster movie che fa attraversare un autentico senso morale in mezzo agli schizzi di sangue, un film la cui anima è racchiusa in modo infallibile dalla sequenza dell’ascensore – uno degli esempi di pura messa in scena più impressionanti del cinema di questo decennio. Il cerchio di quest’opera così atipica e inusuale, così poderosa e strepitosa ma in qualche modo così intima e onesta, la cui originalità vive anche senz’altro nel contrasto tra l’esperienza europea del regista danese e il tuffo di quest’ultimo nel bel mezzo della tradizione di genere statunitense, è chiuso dalla colonna sonora, pazzesca e instantaneamente persistente, che fa un uso geniale del tappeto sonoro di Cliff Martinez abbinandogli un pugno di canzoni perlopiù semi-sconosciute utilizzandole con una forza espressiva impareggiabile e persino esasperata, sia quando è in tema (“A Real Hero” dei College) che quando è in totale contrasto (“Oh My Love” di Riz Ortolani), sia quando, infine, trova una misteriosa formula magica che unisce in modo necessario le immagini alle note – come nel caso degli indimenticabili titoli di testa su “Nightcall” di Kavisnky. Peccato che Drive sia anche un film facile da fraintendere e, allo stesso modo e ancora di più, un film facile da svendere per ciò che non è: la fortuna è che siamo già in tanti, a esserci innamorati di lui. E saremo sempre di più.

Carnage, Roman Polanski 2011

Carnage
di Roman Polanski, 2011

Comunque la si veda, una cosa è certa: questo dovrebbe essere il migliore dei Carnage possibili. Quale regista avrebbe potuto adattare un testo come quello di Yasmina Reza meglio di Roman Polanski? Quattro personaggi, un appartamento, e un problema da risolvere che dà il La a uno scontro tra personalità che monta in modo impercettibile ma ineluttabile mutando gradualmente il loro linguaggio e persino i loro volti (le citazioni di Bacon non sono lì per caso), sollevando il sipario sulle ipocrisie borghesi e mandando in frantumi le etichette di una contemporanea lotta di classe che sembra sempre più un futile litigio tra bambini – mentre i bambini stessi, nel parco giochi, dimenticano e vanno avanti come se nulla fosse. Una carneficina senza carneficina, recitata in modo spaventoso da tutti e quattro gli attori (su cui Kate Winslet regna come una divinità), che ha sicuramente molti limiti strutturali – di cui è specchio la durata veramente esigua – ma che Polanski riesce a raccontare con maestria e senza protagonismi, sfruttando in modo assolutamente cinematografico (in barba alla provenienza teatrale) le geometrie e i riflessi della claustrofobia domestica. E massacrando di volta in volta le fragilissime intenzioni dei suoi personaggi e delle loro convenzioni civili con una perfidia sorniona, autentica e sana, di cui l’assenza di una vera catarsi non è che l’ennesima riprova.

Nota: ho visto il film in lingua originale (al cinema Apollo di Milano, che dio li benedica) e non capisco come si possa vedere un film simile doppiato. Poi fate voi.

Jane Eyre, Cary Joji Fukunaga 2011

Jane Eyre
di Cary Joji Fukunaga, 2011

L’ennesimo adattamento (una trentina dai tempi del muto a oggi) del più celebre libro di Charlotte Brontë esaurisce di fatto quasi tutti i suoi sforzi inventivi nella prima metà: da principio con un’intelligente struttura a flashback che punta a reinventare la narrazione del testo originale; inoltre, con una regia (e un montaggio) che tendono a enfatizzare palesemente i caratteri più gotici e dark del racconto, avvicinando a volte Jane Eyre a un horror (burtoniano?) più che a un dramma romantico in costume. Da un certo punto in poi però il film, avviato con sicurezza da Fukunaga, va avanti da solo, tra uno spiccato paesaggismo (a dire il vero per nulla disprezzabile: sarà una banalità ma la fotografia di Adriano Goldman è la cosa migliore del film, per come riesce anche a dialogare con i sentimenti dei suoi personaggi) e un racconto che si dipana senza troppi scossoni verso l’inevitabile conclusione – seppure tronca rispetto al libro. Gran parte della forza espressiva del film è in verità buttata sui moltissimi e insistiti primi e primissimi piani, naturalmente fotogenici, di Mia Wasikowska: la sua è una Jane Eyre di straordinario e immediato impatto, capace di esprimere con una recitazione misurata la lotta interiore tra la passione e l’indole più indipendente del suo personaggio. Di fronte a lei il resto del cast, Michael Fassbender incluso, passa inevitabilmente in secondo piano.

Nelle sale dal 7 ottobre 2011

Killer Joe, William Friedkin 2011

Killer Joe
di William Friedkin, 2011

Un giovane spiantato e pieno di debiti decide, con la complicità del padre e della sorella, di uccidere la madre per incassare l’assicurazione. Per farlo assolda il poliziotto corrotto Joe Cooper, ma come da copione sottovaluta la posta in gioco. Nel suo ultimo film, il regista di classici come Vivere e morire a Los Angeles e Il braccio violento della legge, oggi 76enne, appare in forma come non era da tempo: il suo è un un gioco al massacro squisitamente amorale, una tragedia americana traboccante di ironia e di disperazione in cui personaggi tanto decadenti e sgradevoli quanto i luoghi che abitano (il film è ambientato alla periferia di Dallas, ma è stato girato a New Orleans) cercano di sopravvivere alla propria banalità lasciandosi alle spalle ogni barlume di umanità. Incappando in un killer senza rimorsi, in cui convivono tratti quasi cartooneschi e una diabolicità metafisica, che funge da catalizzatore – e infine da contrappasso – della loro stupidità. E qui sta l’autentica sorpresa del film, ovvero Matthew McConaughey: uno degli attori più derisi del cinema americano dà vita a un personaggio indimenticabile con un’interpretazione monumentale; il resto del cast sta al gioco: e per Gina Gershon e Juno Temple, entrambe perfette, non è una sfida da poco. Girato con una precisione e un gusto compositivo impareggiabile, Killer Joe è un sorprendente crime-gone-awry che si inserisce nel percorso coeniano aggiornandolo con una dose massiccia di cinismo, e con un umorismo spietato che nella parte finale sfiora (e gioca con) i confini del rappresentabile. Decisamente non per tutti; ma per chi decide di starci, è uno dei film più belli e incredibili dell’anno.

Il film ha vinto il Mouse d’Oro, il premio della critica online alla Mostra del Cinema.

Al momento non è prevista una data d’uscita italiana.

R.I.P. Steve Jobs (1955-2011)

“Steve Jobs was an extraordinary visionary, our very dear friend and the guiding light of the Pixar family. He saw the potential of what Pixar could be before the rest of us, and beyond what anyone ever imagined. Steve took a chance on us and believed in our crazy dream of making computer animated films; the one thing he always said was to simply ‘make it great.’ He is why Pixar turned out the way we did and his strength, integrity and love of life has made us all better people. He will forever be a part of Pixar’s DNA.”

(John Lasseter, Chief Creative Officer, and Ed Catmull, President, Walt Disney and Pixar Animation Studios)

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